TITOLO ORIGINALE: They Cloned Tyrone
USCITA ITALIA: 21 luglio 2023
USCITA USA: 14 luglio 2023
REGIA: Juel Taylor
SCENEGGIATURA: Tony Rettenmaier, Juel Taylor
CON: John Boyega, Teyonah Parris, Jamie Foxx, David Alan Grier, Kiefer Sutherland
GENERE: commedia, azione, fantascienza, giallo, noir
PIATTAFORMA: Netflix
Meglio noto per il suo lavoro di sceneggiatore in film come Creed II e Space Jam: New Legends, Juel Taylor fa il suo esordio dietro la macchina da presa in Hanno clonato Tyrone, un pastiche di generi, con protagonisti un fantasmatico John Boyega, un'irresistibile Teyonah Parris ed un piacione e divertito Jamie Foxx, soffocato da un'inerzia compositiva e di sviluppo, da un'eccessiva derivazione e citazione, e dalla grandiosità della corrente cinematografica che clona.
Lo scrivevamo nella recensione di Emily riferendoci ai ritratti femminili e ai racconti di emancipazione, ma lo stesso discorso può valere anche per tutti quei film che si inseriscono e fanno (fieramente) parte di quella che molti critici e teorici hanno definito “rivincita afroamericana”, quel grido - pre- e, in particolare, post-Black Lives Matter - di maggior rilevanza e gravità, rappresentazione e rappresentatività ad Hollywood e dintorni: è ormai davvero facile cadere nello stereotipo, nel luogo comune, nel già visto e nel già sentito.
(Senza contare i prodromi e padri comuni Spike Lee e John Singleton) Jordan Peele, Barry Jenkins, Ryan Coogler, Regina King, Boots Riley, Shaka King: negli ultimi quindici anni, moltissimi sono stati infatti i registi afroamericani che hanno fatto la loro comparsa, e che hanno lasciato un’impronta chiara, precisa e ben definita nel panorama cinematografico, seriale o, più generalmente, audiovisivo.
Innumerevoli e diversissimi sono stati e sono inoltre i modi in cui questi cineasti hanno dato voce e, soprattutto, immagine ai propri vissuti, alle loro urgenze, Storia e storie, idee, provocazioni, filosofie, inquietudini e paranoie esistenziali, sociali e politiche. Ed è dunque davvero difficile trovare, ora come ora, una trattazione, una messa in scena ed uno sviluppo estetico realmente freschi ed originali di quelle stesse, immutate, eppure ancora “calde”, tematiche.
Tutto questo per dire che è proprio di questo “stato dell’arte” - che, raggiunto una sorta di apice (e di annessa saturazione) stilistico, compositivo, culturale e commerciale, pare oggi quantomai stantio, bloccato, accomodato; sembra aver perso un po’ di vitalità e di eccitazione, ripiegando sempre più su un’ostinata ripetizione e riproposizione di una manciata di modelli grandiosi e fortunati - che soffre Hanno clonato Tyrone, l’esordio alla regia di Juel Taylor (già autore delle sceneggiature di due emanazioni più o meno riuscite di questa “rivincita” quali Creed II e Space Jam: New Legends), da poco disponibile nel catalogo streaming di Netflix.
La pellicola segue le orme di Fontaine, lo spacciatore di un quartiere retrofuturistico [il contesto storico è futuro e futuribile, mentre la tecnologia è dei primi anni 2000 e l’abbigliamento sembra invece uscito direttamente dagli anni ‘70] che diventa testimone e si scopre poi vittima, assieme a due fortuiti amici ed alleati: una prostituta di nome Yo-Yo ed un pappone conosciuto come Slick Charles; di una cospirazione governativa dai fini subdoli e misteriosi.
Una premessa, quest’ultima, teoricamente avvincente, ma appunto già di per sé non originalissima. Al cinema, infatti, afroamericani e cospirazioni (piccole o grandi che siano, possibilmente orchestrate da gruppi di bianchi razzisti e reazionari) vanno di pari passo sin dai tempi di Scappa - Get Out, per non parlare del folle, ancor più grafico e crudo Sorry to Bother You (chi se li scorda gli equisapiens?).
Niente di nuovo neppure sul fronte estetico, fondato su un recupero del filone exploitation e blaxploitation, sì, filologico (in termini di atmosfera, musiche, acconciature, ma anche attraverso la fotografia scabra, granulosa, pulp, di Ken Seng, volta a restituire la sensazione materica e tangibile della pellicola), ma già intrapreso da tanti altri registi (come Tarantino in Jackie Brown e A prova di morte, Robert Rodriguez in Planet Terror, o, più recentemente, i già citati Spike Lee in Blackkklansman e Shaka King in Judas and the Black Messiah) e, pertanto, già anacronistico e polveroso.
Così come epidermico e poco graffiante è il pastiche - anch’esso estratto ed appartenente ad una forma e ad un’idea di postmodernità che definiremmo basilare e primitiva - di generi come: la commedia divagante ed assurda (di nuovo, alla Tarantino o alla Spike Lee), la fantascienza di cloni, automi e replicanti esistenzialisti di matrice dickiana, poi ripresa, in forma seriale, da Ai confini della realtà e Black Mirror, il detective movie più ludico e scanzonato sulla scia di Blake Edwards e del suo La pantera rosa, o i (dal film) menzionati Scooby-Doo e Nancy Drew; per non parlare infine dell’opera di satira afrosurrealista e denuncia socio-politica, senza però la convinzione e l’urgenza dimostrate dal cinema dell’inimitabile Jordan Peele.
Ciò malgrado, pur dovendo tenere insieme nella stessa dimensione narrativa e nello stesso contenitore tutte queste influenze, stimoli ed impulsi, perlomeno l’atmosfera che permea i primi trenta, quaranta minuti di Hanno clonato Tyrone, unita ad una scrittura comicamente riuscita e dinamica (ma anch’essa, alla lunga, asfissiata dal microcosmo culturale che si espone gratuitamente e a cui si fa costante riferimento), riesce ad intrattenere e a coinvolgere lo spettatore nel mistero e nell’indagine che ne consegue e che vedrà impegnato il trio protagonista.
Purtroppo, l’eleganza e la raffinatezza del lavoro percettivo che Taylor, coadiuvato in sceneggiatura da Tony Rettenmaier, intavola nei primi passaggi dell’intreccio tramite quel certosino lavoro di worldbuilding, scadono nella totale proverbialità, in risvolti, soluzioni e risoluzioni abbastanza facili e poco esaltanti, e su una pigrizia deprimente nel descrivere le reazioni e le tribolazioni individuali e psicologiche dei personaggi, una volta venuti a conoscenza della verità, e nel portare in scena quella che dovrebbe essere la resa dei conti.
Un immancabile spiegone - a cui si cerca invano di dare ritmo e vitalità con un banale montaggio alternato - è l’assoluto grado zero di un esordio acerbo, modesto, impacciato, di cui ciononostante si scorgono, e in maniera pure limpida e continuativa, le potenzialità e le peculiarità anche teoriche. Si pensi all’uso che fa dello stereotipo estetico della blaxploitation e dei caratteri tipici del “black noir” per parlare della narratologia e delle narrazioni razziali e razziste portate avanti dall’America ideale dei pochi, a discapito e ai danni dei tanti e dei discriminati. Caratteri, questi, che, proprio a causa di quella negligenza ed inconcludenza di cui sopra, rimangono tali e non subiscono alcun reale processo di umanizzazione, alterando e sacrificando così irreparabilmente l’empatia dello spettatore nei loro confronti e nei confronti delle sorti delle loro vicende.
Poco o, in alcuni casi, nulla possono allora la dedizione e l’amabilità degli interpreti coinvolti. Non possono nulla un Jamie Foxx (impegnato anche in veste di produttore) genuinamente divertito nei panni di un personaggio lezioso, eccentrico, femmineo e dai modi affabili, una Teyonah Parris che dà il meglio di sé in un sincero omaggio a Pam Grier, ed un Kiefer Sutherland in forma smagliante e, copione permettendo, tanto convincente da riuscire rischiosamente a rubare la scena a tutti gli altri.
Discorso a parte per la (non-)presenza di John Boyega che, pur tri-, se non quadri-partito, non è mai realmente padrone della scena e della storia di cui dovrebbe essere il protagonista indiscusso. La sua prova, il suo esistere nelle generose due ore di Hanno clonato Tyrone, è fantasmatico, in tutto e per tutto, come evanescente e fragile sarà, per chi scrive, la permanenza dell’esordio di Juel Taylor. Che è esso stesso, e in primis, un clone, di cui però si intravedono fin troppo palesemente i segni di manifattura.
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