TITOLO ORIGINALE: Judas and the Black Messiah
USCITA ITALIA: 9 aprile 2021
USCITA USA: 12 febbraio 2021
REGIA: Shaka King
SCENEGGIATURA: Will Berson, Shaka King
GENERE: biografico, drammatico, storico
PREMI: 2 OSCAR per il MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA e la MIGLIORE CANZONE; GOLDEN BLOBE per il MIGLIOR ATTORE NON PROTAGONISTA
La storia vera dell'attentato e del tradimento ai danni di Fred Hampton, presidente della sezione delle Pantere Nere dell'Illinois, da parte di William O'Neal, diciassettenne afroamericano infiltratosi nell'organizzazione per conto dell'FBI.
Candidato a sei premi Oscar (tra cui quello per il miglior film e per i(l) miglior attore non protagonista), Judas and the Black Messiah è cinema (anche se non sempre e non abbastanza) che parla di due delle sue essenze fondanti: come finzione e arte dell'interpretare e come documento e testimonianza ricostituita. Unitamente a ciò, il drama biopic di Shaka King è una confezione, dalla perfetta alchimia di elementi, impeccabile ed estremamente competitiva in ottica premiazioni, ma che, in termini prettamente filmici, mostra il fianco a più di problema. Una regia pavida ma foriera di spunti ingegnosi e sorprendenti - assistita da una fotografia vincente, da ottimi costumi, da una scenografia dalla ricostruzione storica impeccabile e da interpretazioni eccellenti (su cui la messa in scena fonda gran parte delle proprie speranze) - traspone su schermo una sceneggiatura di per sé monca, imperfetta e priva di una coesione puntuale e riconoscibile, che vede nella verbosità e didascalicità dei dialoghi la propria croce e delizia. Un film su un tradimento che tradisce, in parte, le aspettative, ma che si tradisce da sola in più di un'occasione.
Mentre parlava ancora, ecco una folla; e colui che si chiamava Giuda, uno dei dodici, la precedeva, e si avvicinò a Gesù per baciarlo. Ma Gesù gli disse: «Giuda, tradisci il Figlio dell'uomo con un bacio?»
[Luca 22,47-48]
Così - con un bacio (su cui, per anni, storici, studiosi e artisti si sono interrogati) -, si compie uno dei tradimenti più noti e riconosciuti della storia dell’uomo: Giuda Iscariota, uno dei dodici apostoli, vende Gesù Cristo, appena reduce dalla sua Ultima Cena, ai sacerdoti di Gerusalemme - i quali hanno in mente di giustiziarlo perché troppo pericoloso ed ideologicamente potente -, per la somma di 30 miseri sicli d’argento (quella che di solito si dava agli schiavi liberi).
Non c’è bisogno che chi scrive vi racconti come, da questo tradimento, si arrivi alla crocifissione e cosa farà Giuda, forse mosso dai sensi di colpa, con quel denaro. Piuttosto, vorremmo porre la vostra attenzione su ciò che, nei secoli, è diventata la leggenda di Giuda. Per Dante - che pure nella dannazione nobilita diversi peccatori come Paolo e Francesca ed Ulisse -, Giuda Iscariota rimane colui che ha commesso la più orribile e imperdonabile colpa e non ha neppure redenzione nella grandezza. D’altronde, è anche l'unico di cui Cristo dia un giudizio inappellabile: «Guai a quell'uomo dal quale il figlio dell'uomo è tradito: sarebbe stato meglio per lui non essere mai nato» [Matteo, 26, 24].
Pertanto, nella condanna degli uomini, l’Iscariota è divenuto l'esempio della malvagità e del tradimento nei luoghi comuni, nella lingua, nelle metafore e anche nelle imprecazioni. Di conseguenza, è evidente come la sua vicenda racchiuda una tendenza tra le più consistenti e feconde riguardanti la vita, il comportamento e il destino dell'uomo: la parte più leggendaria che aleggia attorno alla sua figura possiamo considerarla proprio una riflessione sull’incapacità dell’uomo di adempiere adeguatamente all'esempio di Cristo. Tutti noi, più o meno vili e malvagi, in un momento o in un altro, arriviamo a tradire colui che, col suo sangue, ha salvato l'umanità.
Da questo tradimento, che è anche riflessione e riflesso del fallimento e del difetto dell’uomo, il mezzo e l’arte cinematografica hanno sempre preso ispirazione. Molti sono e sono stati infatti i Giuda che, nel grande schermo, ci sono nati e che, in e grazie ad esso, hanno ottenuto il clamore o l’infamia - dipende dai punti di vista - che meritavano. Tanti altri sono nati e sono stati invece Giuda al di fuori dello schermo, ma a quest’ultimo (o a chi per lui) è bastato introiettarli e farli racconto per immagini per renderli noti al grande pubblico.
E’ quest’ultimo il caso di uno degli Iscariota più recenti apparsi sul grande/piccolo schermo, ma la cui storia (e tradimento) risale a ben prima della sua transustanziazione cinematografica qui recensita. Più precisamente, al 1967. Il Judas in questione risponde al nome di William O’Neal, un delinquentello di 17 anni che vive e “agisce” in una Chicago in cui “un distintivo fa più paura di una pistola”. Un “bel” giorno, in seguito ad una delle sue solite bravate, questi viene arrestato dalle forze dell’ordine e preso in custodia dall’agente dell’FBI Roy Mitchell, il quale gli propone un accordo per far cadere le accuse a suo carico.
Il ragazzo viene dunque “invitato” ad infiltrarsi nel “cerchio magico”; tra i “dodici apostoli” del presidente della sezione dell’Illinois delle Pantere Nere, Fred Hampton, e passare al Bureau - allarmato dalla plausibile ascesa di un nuovo Black Messiah (Messia nero), che rischierebbe di agitare e coinvolgere le masse in una vera e propria rivoluzione - tutte le informazioni che riesce ad ottenere.
Oggi, a più di un cinquantennio di distanza, un Shaka King al secondo lungometraggio dirige, scrive (insieme a Will Berson) e produce (con Ryan “Black Panther” Coogler e Charles D. King) Judas and the Black Messiah, drama biopic, a metà tra Il conformista e The Departed e candidato alla bellezza di sei premi Oscar, che riporta sotto i riflettori un tradimento che, forse per alcuni, è culturalmente e socialmente più importante(?) di quello di Giuda ai danni di Gesù, poiché frutto e conseguenza di una pressione e di un contesto socio-politici contingenti e urgenti allora come adesso.
Il racconto di un affaire - quello Hampton/O'Neal - per anni avvolto nella segretezza e nella dissimulazione che, dietro questa sua superficie di infedeltà e doppiezza, nasconde e tratta (anche se non sempre al meglio) tanti altri motivi, dimensione e realtà dell’America della seconda metà degli anni ‘60, offrendone un ritratto quanto più corale e variegato, pur non dimenticandosi delle singole individualità che lo compongono.
La mise-en-scène di una messinscena non sempre impeccabile che fonda gran parte delle proprie speranze sull’espressività, sul coinvolgimento, sull’immedesimazione e sulla bravura dei suoi interpreti. In particolare, sul braccio di ferro (da nomination) tra un Daniel Kaluuya messianico e d’ispirazione quasi cristologica nei panni di Fred “Black Messiah” Hampton ed un Lakeith Stanfield psicologicamente affascinante - introdotto da infiltrato in modo fortuito; tra uno stacco di montaggio ed un movimento di macchina; tra le pieghe della messa in scena -, sempre agitato e irrequieto nel ruolo di un Judas, O’Neal per l’appunto, “parte della lotta” che, per sua stessa ammissione, vorrebbe lasciare ai posteri l’ardua sentenza. A fare da mandante/gregario (di un’intera classe dirigente)/testimone, un Jesse Plemons con manie di protagonismo in una delle sue migliori prove d’attore (nei panni di Roy Mitchell).
A tal proposito, è abbastanza (se non eccessivamente) lampante quanto la regia di Shaka King sia sintomatica di tale tensione e riguardo espressivi rispetto ad una resa visiva e cinematografica delle interpretazioni quanto più loquace ed intensa. Ciò nonostante - assistito da Sean Bobbitt alla fotografia (piovosa e torbida quanto vincente) -, il cineasta riesce a districarsi con consapevolezza tra i vari piani e punti di vista del racconto, al contempo, intercettando e riproducendo abilmente le svariate tonalità di espressione e gestualità degli attori, dimostrando un acume sorprendente nella cura del dettaglio (addirittura nell’esposizione del titolo del film), valorizzando atmosfere, anime (tra cui segnaliamo anche una deriva da gangster movie/noir) e mestieri (in particolar modo, i costumi “immersivi” ed una scenografia dall’intoccabile ricostruzione storica) e giocando in modo funzionale ed efficiente - tensivamente e sensazionalmente parlando - con primo piano e campo/controcampo e (timidamente) con il long take.
Una regia quindi pavida e con il freno a mano tirato se chiamata a smarcarsi dal lavoro intrinseco e connaturato del pro-filmico, ma che, quando si tratta di utilizzare quello stesso lavoro per interessare e rendere complice lo spettatore, (di)mostra un ingegno inaudito ed un improbabile senso del ritmo. Tutto ciò, a composizione della perfetta alchimia per un elaborato finale estremamente competitivo e quasi impeccabile in ottica Oscar (e come confezione), ma che, a livello prettamente filmico, mostra il fianco a più di un problema.
E, proprio di una regia discreta e fautrice di pochi (ma buoni) momenti di estro ed inventiva [ne è un esempio il dialogo e gioco di sguardi nella sequenza del discorso post scarcerazione di Hampton], è quello che necessita una sceneggiatura che si fonda e legittima agli occhi del pubblico - salvo le rare eccezioni sopra citate - sulla verbosità e didascalicità del parlato più che sull’immediatezza e sul rumoroso silenzio del visuale; sui dialoghi più che sulle immagini; sulle bocche e sulle voci dei personaggi più che sui loro occhi. Da una storia dall’inestimabile potenziale drammaturgico si viene così a costituire un racconto ed un intreccio che procedono per ellissi, quasi a mò di ritagli episodici (e corali) come fondamento di un tutto dal significato che dovrebbe mostrarsi così risoluto da essere irrefutabile.
Purtroppo, suppergiù come la regia di King, la sceneggiatura e la narrazione di Judas and the Black Messiah fanno bene e mostrano i muscoli quando si tratta di lavorare di concerto e d’insieme con le altre componenti del prodotto e della messa in scena, ma sembrano smarrire la retta via nel momento in cui devono portare avanti un’argomentazione o analizzare profondamente la psicologia e il chiaroscuro interiore dei personaggi o, ancora, discostarsi da una mera e pedissequa ricostruzione di ispirazione ed indole quasi documentaristica.
Di conseguenza, molti dei dialoghi e dei confronti previsti dallo script non funzionano tanto per come sono scritti, quanto piuttosto per come vengono interpretati e pronunciati da un Kaluuya, da uno Stanfield o da chi per loro. E lo stesso avviene per la maggior parte dei momenti di alta tensione narrativa ed emotiva [non ultima la sequenza in cui Deborah, la compagna di Hampton, recita una poesia sul futuro e sul destino suoi, del bambino che porta in grembo e di tutto il movimento delle Pantere Nere, mentre uno dei fedelissimi del gruppo viene ucciso dalla polizia], per lo studio di particolari sfere di senso e significato, per la trattazione di alcuni argomenti specifici, per la rappresentazione di conflitti intimi e contrapposizioni interiori - come quella tra l’Hampton politico, pubblico e sovversivo e l’Hampton uomo, timido e privato - e così via.
Il risultato di questa soggezione e dipendenza nei confronti dei vari comparti produttivi - ai fini di una piena realizzazione dei principali intenti tematico-narrativi - è una sceneggiatura di per sé monca, manchevole, nonché priva di una coesione narratologica riconoscibile, che, come indicato sopra, vede nella parola e nel dialogo la sua dimensione caratteristica e caratterizzante, ma anche una delle sue principali croci. Soprattutto, quando si tratta di ritrarre ed umanizzare un personaggio come Fred Hampton: descritto, fin dal titolo, come una figura messianica e rappresentato di conseguenza.
Ecco quindi che i lunghi monologhi e discorsi - seppur validi ed energici all’atto pratico - alla base del riconoscimento e legittimazione di Hampton come personaggio storico e di Kaluuya in qualità di suo interprete e rivitalizzatore filmico finiscono ironicamente per affondare Hampton in quanto personaggio e gli sforzi di Kaluuya nel renderlo del tutto autentico e plausibile (nonostante ciò, la sua interpretazione si attesta su ottimi livelli, soprattutto dal punto di vista dell’immedesimazione, e farà certamente sua quella statuetta).
Tuttavia, il fatto che quanto prodotto da King e Berson non risponda proprio ai canoni di quella che si definisce “una sceneggiatura riuscita” - mostrandosi, al contrario, quasi prolissa e didattica in certe sue iniziative (per l’esempio, nelle consuete scritte su sfondo nero prima dei titoli di coda) - non preclude la possibilità che vi siano delle intuizioni e dei risvolti che chi scrive ha particolarmente apprezzato. Tra i tanti, è d’obbligo citare un paio di riflessioni assai stimolanti (anche se non sempre sviscerate a dovere), come quella che, seguendo il principio de “gli opposti si attraggono”, trova e delinea alcune similitudini tra la politica, le dinamiche interne, le credenze e i mezzi delle Pantere Nere e del Kkk. Oppure il clima di tensione ed agitazione - di stampo quasi crime-thriller e concernenti lo smascheramento della condizione d’infiltrato di O’Neal - che si viene a creare in determinate situazioni e in passaggi decisivi, soprattutto nella mezz’ora conclusiva.
Oppure, ancora, la penultima sequenza che, pur contando su un numero esiguo di ingredienti (l’ispirazione di due ottimi attori, dialoghi giusti e sintetici ed un’atmosfera ben confezionata), mette a punto il perfetto epilogo: tagliente, iconograficamente sfrontato e semanticamente consistente (purtroppo “declimatizzato” rovinosamente dal vero finale e da quelle fantomatiche “scritte”). Purtroppo, per quanto ammirevoli e degni di nota, tali impulsi compositivi soffocano e vengono soffocati all’entrata in contatto con difetti di ben più ingente caratura ed influenza all’interno del mosaico filmico.
Poteva essere meglio? Sì. Poteva essere peggio? Decisamente sì. E’ un film che centra i suoi obiettivi? A livello propriamente filmico non molto. In ottica Oscar e come prodotto confezionato appositamente (dal tema agli interpreti, dal tono agli intenti) per “arraffare” quante più nomination e (si spera) statuette, altroché! Fatto sta che, conclusasi la stagione dei premi, secondo chi scrive, Judas and the Black Messiah sarà e comparirà sempre come il fratello minore di tasselli produttivamente migliori e culturalmente più impattanti della filmografia della cosiddetta “rivincita afroamericana” ad Hollywood. (Anche solo Scappa - Get Out, sorpresa horror targata Jordan Peele con - guarda caso - Kaluuya e Stanfield, è una pellicola più rappresentativa, emblematica e forte in tal senso). Ed è anche vero che, conclusisi il fervore e l’attesa per la notte cinematografica più attesa dell’anno (comunque andrà), quella che rimarrà nell’immaginario del pubblico sarà una pellicola dalla confezione e dagli intenti eccessivamente manifesti.
Una storia di tradimento che tradisce, almeno in parte, le aspettative e la fede conseguenti alla proclamazione di quelle sei nomination (non tutte giuste e giustificate) e di altrettante (prevediamo) vittorie. Un film forte in molti suoi punti, ma non nel verso e con l’intensità sperate. Un affaire (allora) e un’opera (ora) coevi al processo ai Chicago 7; un’opera coeva dagli indiscutibili pregi, ma dai peccati e delitti ancor più considerevoli (su tutti, l’importanza, a dir controproducente, riservata al personaggio di Plemons - vista la bravura dell’attore e la sua scrittura).
Una pellicola che fondamentalmente parla (per sottintesi) del cinema in due delle sue essenze fondanti e caratterizzanti: come arte e mestiere dell’interpretare e del dissimulare (un personaggio, una storia, un ideale) e come documento capace, per morfologia e rilevanza socio-culturale, di riportare sul palcoscenico mondiale, quindi umano, storie più o meno celebri e renderle chiavi di lettura del presente. Quindi, del cinema come finzione intra- ed extra-diegetica e testimonianza ricostituita e rappresentata. Nulla da ridire a riguardo, se solo non fosse che un sotto testo del genere - superficialmente impercettibile, anche se citato da un Mitchell/Plemons che vorrebbe conferire l’Oscar a O’Neal/Stanfield - è quasi più stimolante dell’intreccio in sé per sé. Dunque, un tradimento a tutto tondo, dentro e fuori lo schermo.
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