TITOLO ORIGINALE: The Trial of the Chicago 7
USCITA ITALIA: 30 settembre 2020
USCITA USA: 25 settembre 2020
REGIA: Aaron Sorkin
SCENEGGIATURA: Aaron Sorkin
GENERE: drammatico, storico, thriller
PREMI: GOLDEN GLOBE per la MIGLIORE SCENEGGIATURA
Un gruppo di attivisti contro la guerra del Vietnam devono rispondere in tribunale dell’accusa di istigazione alla violenza ai danni dei partecipanti di una protesta pacifica tenutasi a Chicago nel 1968. Il processo che seguirà passerà alla storia come il processo ai Chicago 7. Al suo secondo lungometraggio da regista, lo sceneggiatore Aaron Sorkin dirige un legal drama - condito però con un pizzico di satira e commedia - basato su una storia di ingiustizia realmente accaduta. Una regia e messa in scena tutt’altro che stravolgenti, ma puntuali nell’espressione di un senso di sopraffazione e parzialità ed un parterre di interpretazioni a dir poco fenomenali portano su schermo una sceneggiatura tagliente, feroce ed irrefrenabile che, tuttavia, pecca di soggettività ed infedeltà nella caratterizzazione dei personaggi e nel racconto di alcuni eventi. A mani basse, uno dei migliori film del 2020.
Due hippies e uno dei membri del SDS (Students for a Democratic Society) entrano, o meglio vengono spinti dalla polizia - attraverso una finestra rigorosamente in vetro fumé -, all’interno di un bar in cui “gli anni ‘60 non sono mai esistiti”. Sembrerebbe quasi l’inizio di una barzelletta. Peccato invece che ciò che avete appena letto sia realmente accaduto e che quei due hippies e quel membro del comitato studentesco, dopo il bar, siano entrati - assieme ad un altro membro del SDS, un rappresentante del movimento radicale pacifista, altri due attivisti e uno dei leader delle Pantere Nere - in un’aula di tribunale di Chicago. L’accusa? Aver incitato alla rivolta i partecipanti di una protesta pacifista (contro la guerra in Vietnam), organizzata e tenutasi durante la Convention Nazionale Democratica del 1968.
Iniziato nel settembre 1969 e conclusosi nel febbraio 1970, il processo ai Chicago 7 - così passerà alla storia, anche se inizialmente gli imputati sono otto - si trova quasi immediatamente al centro dell’interesse e del dibattito nazionale, in quanto si ha come l’impressione di star assistendo ad un “processo politico” - come direbbero alcuni -; ad una vera e propria farsa/presa di posizione governativa nei confronti di alcuni degli esponenti più in vista del movimento controculturale; ad un’azione legale di facciata di cui è già stato deciso il verdetto. O l’epilogo, se vogliamo parlare in termini drammaturgici e cinematografici. Il che non sarebbe poi così improprio, siccome quel processo è oggi un dramma giudiziario originale Netflix per la regia di Aaron Sorkin.
Il processo ai Chicago 7 è contraddistinto da una storia produttiva alquanto longeva e travagliata risalente al lontano 2006. Steven Spielberg commissiona a Sorkin la sceneggiatura di un film sulla vicenda dei 7, che intende dirigere e distribuire in occasione delle elezioni presidenziali del 2008. Purtroppo, lungaggini produttive, problemi col budget e timore di uno sciopero arenano il progetto.
Fortunatamente, in seguito alla vittoria di Trump alle presidenziali del 2016 e al successo dell’esordio registico di Sorkin, Molly’s Game, si riaccende la scintilla e il progetto passa quasi completamente - Spielberg è sì fuori dalla cabina di regia, ma comunque coinvolto nella produzione - nelle mani dello sceneggiatore. E qui entra in gioco Netflix, che, dopo la recente chiusura delle sale statunitensi a causa della pandemia, acquista il film e lo distribuisce in piattaforma poche settimane prima (16 ottobre 2020, ndr) dell’inizio delle nuove presidenziali - che, come molti di voi sapranno, hanno visto la vittoria di Biden su Trump.
Quindi, una pellicola che vuole raccontare uno dei momenti più disdicevoli della politica e della giustizia americana - (ri)mettendo sotto i riflettori una presidenza di matrice repubblicana passata alla storia per la sua immoralità, la sua eccessiva bellicosità e la sua fine (ad oggi, Nixon è l’unico presidente ad essersi dimesso) e trasmettendo perfettamente il clima di paranoia, pregiudizio e repressione che vigeva nell’America di fine anni ‘60 - viene distribuita poco prima della fine di uno dei mandati più discussi e discutibili - sempre di matrice repubblicana - della storia degli Stati Uniti? Caso, coincidenza o semplicemente messaggio forte e chiaro di una Hollywood che non ha mai nascosto la propria opposizione al governo trumpiano? A voi, l’ardua sentenza.
Smettendo i panni “politici” e rimettendo quelli da recensori, approfondiamo dunque la natura pregevole e difettosa della creatura filmica di Sorkin, già eletta dal pubblico e da parte della critica come uno dei drammi giudiziari più riusciti e avvincenti del decennio. E’ veramente così? Solo il tempo e il ricordo che essa manterrà nella mente e nel cuore degli spettatori riusciranno a stilare un verdetto equo e sincero. Di tutt'altra natura è invece quello a cui andranno incontro i Chicago 7. Tale senso di ingiustizia e parzialità è perfettamente veicolato dalla regia di Sorkin, il quale fa coincidere il passaggio da sale da poker frequentate da personalità più o meno illustri (Molly's Game) ad un’aula di tribunale in cui convergono speranze, illusioni, luci e ombre di un’intera controcultura, con una maggior consapevolezza sia nell’uso della macchina da presa sia delle proprietà espressive e universalizzanti del linguaggio cinematografico.
Con Il processo ai Chicago 7, il cineasta dà vita ad un’opera poliedrica e sfaccettata che riesce a comunicare facilmente le proprie intenzioni e i propri messaggi a differenti tipi di pubblico, a prescindere dalle loro origini geografiche o culturali. La pellicola non è quindi il classico dramma patriottico comprensibile appieno soltanto da chi tocca o ha toccato con mano la cultura e la mentalità statunitensi, quanto piuttosto un racconto che sfrutta il processo in questione per giungere poi ad una trattazione di concetti ben più generali e globali come iniquità, corruzione politica e di pensiero, sopraffazione, razzismo e preclusione (purtroppo, non egualmente sviscerati).
Ciò nonostante, questa sintesi e accessibilità di temi e contenuti è solo il risultato finale di un processo creativo e produttivo ben più complesso e integrato, come testimoniato da regia e messa in scena. Queste ultime, pur non brillando per innovazione o stravolgimento dei canoni rappresentativi, rispondono in modo perfetto e rigoroso ai requisiti narratologici di un fatto di cronaca senz'altro ostico nella sua conversione al grande schermo, regalando inoltre alcuni momenti di fine metafora - ad esempio, il fascicolo dei sette che schiaccia, per mole fisica (che diverrà poi storica), quello contenente la legge federale da loro infranta.
Detto ciò, accantoniamo per un attimo l’analisi di sequenze, immagini e allegorie, concentrandoci invece su uno degli aspetti preponderanti, più efficienti, funzionali e funzionanti del lavoro registico, ossia la pressoché ottima gestione e integrazione dei personaggi (principali e non). Benedetta da un casting oculato - fautore di uno degli ensemble attoriali migliori degli ultimi anni -, la macchina da presa di Sorkin delinea e tratteggia, a dovere e in termini visivi, le varie sfaccettature della controcultura sessantottina, rendendo i 7 (anche se 8), da un punto di vista strettamente iconografico, quasi membri di un team supereroistico che si batte e collabora per un'idea comune e ascrivendoli al ruolo di catalizzatori dell’obiettivo cinematografico e, successivamente, dell’attenzione del pubblico.
Tale centralità rappresentativa è successivamente corroborata da un parterre di interpretazioni a dir poco fenomenali: un Eddie Redmayne mai così convincente, un Sacha Baron Cohen sensazionale ed ermetico - entrambi pronti per una nomination ai prossimi Oscar -, un Joseph Gordon-Levitt pacato e sintetico - ancora reduce, quantomeno esteticamente, dallo Snowden di Oliver Stone, seppur qui parte integrante dell’establishment -, un Mark Rylance appassionato ed appassionante, un Michael Keaton di passaggio - ma che non fa mai male -, un Jeremy Strong esilarante ed un Frank Langella piacevolmente detestabile (forse anche troppo) - il quale, guarda caso, nel 2008 aveva interpretato Nixon in Frost/Nixon - Il duello di Ron Howard -; e da una caratterizzazione dei personaggi che, purtroppo, presenta qualche piccola caduta di stile.
Difatti, malgrado abbia il pregio di rendere universalmente intelligibile quanto narrato e rappresentato, Il processo ai Chicago 7 pecca di un’eccessiva dicotomizzazione di caratteri, ideali e parti processuali che tramuta ben presto il focus narrativo della pellicola in un conflitto di estremi; in uno scontro tra bianco e nero, tra bene e male, tra giusto e sbagliato. Pertanto, i buoni saranno sempre dalla parte del giusto e i loro errori, sulla bilancia morale e argomentativa del film, non verranno fatti pesare ed espressi allo stesso modo di quelli dei cattivi, ossia i giudici, i membri dell’accusa, l’establishment, lo stato, ecc… Questa radicalizzazione soggettiva ed imparziale nella costruzione ed evoluzione dei personaggi - minore e ben più discreta registicamente parlando - conduce Il processo ai Chicago 7 sull’orlo di un precipizio.
Per fortuna, a salvarlo da una caduta rovinosa ci pensano una scrittura affilata, feroce, fresca ed irrefrenabile ed una struttura frammentaria, basata su un continuo andirivieni temporale, quasi di “McKayana” memoria. Questi, oltre a preservare l’integrità narrativa della pellicola, sortiscono molteplici effetti, tra cui l’alimentazione di un ritmo sfrenato, sovversivo e smodato, quasi quanto i protagonisti del racconto. Rendere un processo giudiziario così piacevole ed entusiasmante non è cosa semplice e in questo gioca indubbiamente un ruolo primario un montaggio articolato che mischia una ricostruzione degli eventi con (poche) immagini d’archivio. Se, a questo mix di frenesia e provocazione, uniamo un pizzico di satira e di commedia nera - il sapore drammatico e il significato dietro la storia dei sette si mantiene comunque intatto -, otteniamo un prodotto esuberante e politico non certo perfetto, ma sicuramente di gran impatto.
Non possiederà certo lo stesso afflato e le stesse capacità affabulatorie di un The Post di Steven Spielberg - in cui si analizza la presidenza Nixon da un altro punto di vista e attraverso gli occhi di una redazione giornalistica - e nonostante i numerosi e i difetti che lo percorrono sono tutt'altro che minimi. Non ultimi, la presenza risicata e pretestuosa di Yahya Abdul-Mateen II nel ruolo di un’altrettanto marginale Bobby Seale ed un finale che trasfigura la storia per proprio tornaconto e a cui piace vincere facile, apparendo fin troppo retorico ed emozionando lo spettatore in maniera disonesta.
Eppure - sarà per la bravura di un cast ben assortito e con tutti i crismi, sarà per il ritmo caotico e ben gestito, sarà per la colonna sonora che, seppur non dominante, confeziona alcuni momenti di profonda emotività, sarà per la scrittura incalzante e acchiappante dei dialoghi che mostra nuovamente come Sorkin sia prima di tutto uno sceneggiatore, sarà per la fusione di tutti questi elementi sul grande/piccolo schermo - il film Netflix ci ha colpito positivamente, visceralmente e in modo del tutto inaspettato. Non raggiungerà certo i livelli di legal drama come Codice d’onore o The Social Network (entrambi scritti dallo stesso Sorkin) o di film ambientati nello stesso periodo storico come Tutti gli uomini del presidente o Gli intrighi del potere, ma questo non ci astiene dal riconoscere ne Il processo ai Chicago 7 uno dei migliori film del 2020.
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