TITOLO ORIGINALE: Asteroid City
USCITA ITALIA: 14 settembre 2023
USCITA USA: 23 giugno 2023
REGIA: Wes Anderson
SCENEGGIATURA: Wes Anderson
CON: Tom Hanks, Scarlett Johansson, Jason Schwartzman, Tilda Swinton, Bryan Cranston, Edward Norton, Adrien Brody, Liev Schreiber, Maya Hawke, Steve Carell, Matt Dillon, Willem Dafoe, Margot Robbie, Jeff Goldblum
GENERE: commedia, drammatico, sentimentale
DURATA: 104 min
Presentato in concorso alla 76ª edizione del Festival di Cannes
Quasi due anni dopo aver raggiunto, con The French Dispatch, quella che riteniamo la massima espressione del suo cinema, Wes Anderson torna con Asteroid City, un film che, all'apparenza, potrebbe apparire come un mero proseguimento dei discorsi e dei concetti estetico-stilistici propugnati dal predecessore. E in parte lo è pure. Tuttavia, soprattutto questa volta, c'è molto di più al di là della superficie delle cose e del brand Anderson. Ne risulta una delle sue opere più estenuate (ed estenuanti, in un certo senso), definitivamente mortifere, e, proprio per questo, sincere, autentiche ed intelligenti.
“E dopo?”. Era questa la domanda che ci ponevamo a chiusura della nostra disamina, recensione e analisi di The French Dispatch di Wes Anderson.
Cosa ci sarebbe mai potuto essere dopo quello che, a ragion veduta e quasi due anni dopo, pare come la massima espressione del cinema dell’inimitabile autore texano. Cosa si poteva inventare ancora, di nuovo, dopo l’ultima manifestazione possibile del suo stile inconfondibile, della sua idea di linguaggio, della sua profonda e, oggi come non mai, presente ed attuale rivoluzione estetica del mezzo cinema. Dopo un’opera che, tutte queste istanze, idee, invenzioni, elementi ed aspetti caratteristici del suo lavoro, le sovraccaricava, le lasciava sul fuoco fino al punto di ebollizione, le portava per davvero ad un punto di non ritorno, di massima saturazione, di deflagrazione del quadro.
Ebbene, quella risposta è ora realtà; c’è, esiste, ma, con tutta probabilità, non soddisferà o piacerà a tutti, specie ai perlopiù delusi fan della prima ora del regista.
Quella risposta è Asteroid City, undicesima tappa del viaggio pluridecennale di Wes Anderson, che, ad un’occhiata epidermica (ma anche ad una più ravvicinata), potrà sembrare come un solo e mero proseguimento di tutto ciò che è stato ed è The French Dispatch. Come l’ultima di una lunga serie di melodie ostinate che molti stanno iniziando o hanno già iniziato a non apprezzare più tanto. O ancora, come un pigro ripiegarsi su sé stessi, un eterno ritorno ad una visione di racconto cinematografico ed audiovisivo che deriva (e abbiamo ragione di crederlo) da una folgorazione dell’autore nei confronti della tecnica di animazione [i suoi tentativi in questo senso, Fantastic Mr. Fox e L’isola dei cani, sono tra le sue migliori creazioni] e, al contempo, dal riconoscimento di una difficoltà produttiva e più concretamente economica della pratica animata e, in particolare, della sua tanto amata stop motion (leggasi alla voce Pinocchio di Guillermo del Toro).
E chi dice e dirà questo, chi riconoscerà simili parole e simili giudizi nelle immagini di Asteroid City, ha e avrà pienamente ragione, giacché stiamo parlando del film più estenuante, smodato ed esageratamente andersoniano rispetto a tutti e dieci i precedenti. Ma è anche uno dei suoi più estenuati, nel senso di affranti, esausti, depressi, dolenti, pressoché mortiferi, e, proprio per questo, sinceri, autentici ed intelligenti.
Ciò detto, laddove con The French Dispatch il regista compiva un’ode su un mondo - quello del giornalismo d'altri tempi, tutto inchiostro e macchina da scrivere, dalla prosa ricca, ampollosa e retorica - che non esisteva ed esiste più, in Asteroid City, Anderson ragiona sull’anacronismo del suo cinema.
Più specificatamente, egli compone quello che potremmo definire, come anticipato sopra, un requiem pre-mortem; una ben celata meditazione sul suo status e sulla sua figura di artista ed uomo, sull’ingombro e la sopraffazione operati dalle sue creazioni, dal suo stile emblematico impressosi a forza nelle nostre retine (come l’eclissi qui raccontata) o, se preferite, dal suo brand, dalla sua esistenza in quanto autore a discapito della sua persona, del suo esistere esclusivamente in quanto tale.
Questo stato d’animo, questo senso di inadeguatezza, questa contrizione interiore, questo rimpianto e tormento tutti umani, Wes Anderson li cela, in maniera davvero arguta, dietro il suo cinema o, meglio detto, un’esposizione a mò di inventario, gratuita, proverbiale e scontata di tutto ciò per cui il suo cinema (ergo lui, se vogliamo rimanere coerenti col discorso del film) sono rinomati. Dunque, i suoi feticci, le sue manie, i suoi totem, gli assi portanti del suo approccio al racconto di un mondo (de)limitato ma insieme debordante, le composizioni simmetriche, estetizzanti e perfettamente transmediali (ottime insomma per un feed di Instagram o per l’inarrestabile sequela di miniclip di TikTok, come ben avrete notato se utilizzate questi social network), lo sconcerto ricercato e sovrabbondante di un ensemble di attori, al solito, gigantesco e dalla presenza ed utilità (nell’economia della pellicola) talora nulle, gli inserti da libro illustrato, perfino un briciolo di intervento animato.
Ma anche quell’atmosfera sospesa, irreale, rarefatta, di totale distorsione temporale, quell’apatia artefatta e leziosa, quel torpore generalizzato, quella singolarità autistica e quasi accidiosa o, viceversa, quell’inettitudine stravagante nei quali si suddivide poi il cast di personaggi e che condiziona irrimediabilmente le interazioni tra loro, la loro capacità di comunicazione.
Ed è soprattutto in questa apparente fissità ed ovvietà emotiva che contraddistinguono il personaggio andersoniano per eccellenza, ché il cineasta nasconde la chiave di volta di Asteroid City. Il quale, a partire da una storia che sprizza disillusione (esistenziale, religiosa, politica…) da ogni poro - successivamente frammentata e concessa, a sua volta, ad un gioco metatestuale di infinite scatole cinesi, di riflessi che fanno collassare i confini di vero e falso, di finzione dentro la finzione -, mette in scena le vicende di ennesime (in senso di numero e di occorrenza) manifestazioni di sé, in quello che è un monologo in tre atti, un intermezzo facoltativo ed un epilogo di cui ogni tanto si lascia intravedere, in filigrana, l’esistenza a chi guarda.
Va da sé che, per quanto bravi e - nei limiti e nel valore andersoniano del concetto - ottimamente diretti e calati nella parte, neppure uno dei grandi nomi coinvolti (e sono, appunto, tanti: Tom Hanks, Scarlett Johansson in veste di diva classica, il simbiotico Jason Schwartzman, Tilda Swinton, Bryan Cranston, Edward Norton, Adrien Brody, Liev Schreiber, Maya Hawke, addirittura Steve Carell, Matt Dillon, Willem Dafoe, Margot Robbie e Jeff Goldblum - manca all’appello soltanto il sodale Bill Murray) riesce a contrastare e deviare dall’itinerario ascritto e a dipingere qualcosa che non rimandi direttamente alla persona di Wes Anderson e al dolore (“usa il tuo dolore” si dirà ad un certo punto) da cui pare originarsi il tutto.
Asteroid City è allora un aut aut che procede per sintomi e sinonimi. In cui, nella finzione, qualsiasi compito è stato delegato alle macchine, agli automi e, nella realtà, la stessa creazione artistica, la scelta stessa di raccontare storie, è al pari di un’azione automatica, dagli esiti visibilmente e spudoratamente preconfezionati. Che, come dichiarato dalla sequenza della riparazione dell’auto, può o avere una soluzione futile, banale, microscopica, o risultare in una sorte definitiva, oppure appoggiarsi ad una spiegazione o ad una presenza non propriamente empirica. Che può essere accostato con agilità ai grandi sistemi, alle secolari domande legate al senso stesso dell’esistenza e all’origine del tutto. Che è causa e conseguenza di un’emotività repressa da troppo tempo.
Pertanto, una volta venuti a contatto con l’incomprensibilità del proprio sentire, della propria natura, del proprio essere alieni, forse addirittura dell’intero (proprio) universo (che, non a caso, prende le sembianze di quel sogno impossibile dell’animazione), ecco che si instilla il germe del dubbio. I fondamenti, le certezze, i prevedibili punti fermi del proprio narcisismo autoriale ed artistico (in una sequenza verso la fine si può leggere il titolo “Morte di un narcisista”), quei loop meccanici interiorizzati ed apparentemente inevitabili, iniziano a mostrare crepe e incrinature. Vengono inoltre smascherati tutti i trucchi dell’atto creativo e cinematografico, non lasciando spazio ad alcuna sorpresa. Anzi, quella che è “la finzione dentro la finzione” viene spiegata già nei primi minuti.
A tal proposito, la realtà è “un’opportunità desertica” completamente esprimibile in un bianco e nero dalle forti venature rotunniane. Di conseguenza, il cinema, sia come luogo fisico, sia come dimensione astratta, è, oltre che un giaciglio ed un rifugio veri e propri, una panacea per dare colore ed indole ad un’esistenza vissuta da spettatore, se non proprio da alieno, senza alcun contatto con la realtà e il suo corso; ad un incubo ad occhi aperti da cui è logicamente impossibile svegliarsi.
Di fronte a questa evidenza (e ad Asteroid City), quello che rimane allo spettatore è un atto di estremo volontarismo, perché si può “dare piena fiducia (solo) a chi amiamo”. Perché “nessuno si accorgerebbe della mia esistenza altrimenti”, al di là del (suo) cinema. Perché bisogna continuare a raccontare storie sempre e comunque, anche se non le si capisce a fondo, anche se si vorrebbe semplicemente “prendere una boccata d’aria”. Perché “questo non è l’inizio di qualcosa”, “l’alieno è un metafora”, “vedere un autore che batte a macchina non è divertente”. Così come non lo è, anche se il film è, a volte, una brillante e divertente commedia, chiudere il tutto con la morte di un autore. E ora, “vogliamo cambiare argomento?”.
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