TITOLO ORIGINALE: The French Dispatch of the Liberty, Kansas Evening Sun
USCITA ITALIA: 11 novembre 2021
USCITA USA: 22 ottobre 2021
REGIA: Wes Anderson
SCENEGGIATURA: Wes Anderson
GENERE: commedia, drammatico, animazione
Al suo decimo lungometraggio, l'insolito e stravagante Wes Anderson firma un'ode dedicata ad un tipo di giornalismo d'altri tempi, tutto inchiostro e macchina da scrivere, dalla prosa ricca, ampollosa e retorica, composto e rappresentato da giornalisti che talora diventavano più famosi e riconosciuti di coloro di cui scrivevano, e fatto di articoli che riuscivano a rendere affascinante anche la più becera, volgare o infausta delle realtà (e non è forse quello che Anderson fa da anni con il suo cinema?). Con The French Dispatch, il cineasta quindi estremizza il proprio stile e la propria idea di cinema, li sovraccarica, li lascia sul fuoco fino al punto di ebollizione, portandoli ad un punto di non ritorno, di massima saturazione, di deflagrazione estetica del quadro cinematografico. Un film complesso, complicato e problematico, la massima dichiarazione della poetica andersoniana, ma anche un'opera sull’importanza e la necessità di narrare per prevenire l’oblio della memoria.
“E dopo?”. È con questa domanda “billmurrianamente” laconica, seguita, a sua volta, da un vociare indistinto, tipico di una redazione giornalistica, ma anche più generalmente riconducibile ad un qualcosa di vago, sfuggente ed indecifrabile; che si chiude The French Dispatch, l’ultima e tanto attesa fatica del cineasta texano che, dal suo esordio con Bottle Rocket (1996) ad oggi, è riuscito a ritagliarsi una nicchia - che ciononostante, in precise occasioni, è riuscita ad allargarsi e convertirsi in qualcosa di più vasto e di universalmente appetibile - e ad imporsi sulla scena cinematografica internazionale, grazie ad una visione insolita, stravagante, esuberante, coerentista e perfettamente riconoscibile, tutta incentrata sull’incontenibile necessità, quasi autistica, di dettagliare i propri mondi - realistici solo a livello morfologico ed epidermico - e sull’insopprimibile tensione verso una perfezione formale ed un’estetica ricercata, compatta e suadente.
Quella stessa visione e maniera di concepire e fare cinema, che, in questo suo decimo lungometraggio, Wes Anderson porta all’estremo, sovraccarica, lascia sul fuoco fino al punto di ebollizione, lasciandogli produrre oltretutto quel fischio così fastidioso da poter urtare la sensibilità di molti.
Perché, è bene dirlo, The French Dispatch è un film complesso e problematico, spesso così complicato da diventare caotico, dolente e, specie (ma non solo) per i detrattori dello stile andersoniano, irritante e tedioso. Un’opera che non piacerà a tutti; che probabilmente lascerà interdetti, delusi o infastiditi coloro che, il texano, lo hanno conosciuto con i successi recenti o con film blasonati quali Grand Budapest Hotel (vincitore di quattro premi Oscar) e L’isola dei cani (candidato a due). Eppure di cui non si può (o forse addirittura non si dovrebbe) negare il fascino e l’attrattiva, l’ambizione e il coraggio, la verve e l’apatia, i traguardi e i fallimenti, la genialità e la modernità, l’atteggiamento provocatorio ed iconoclasta nei confronti del senso comune.
Atteggiamento che tuttavia non prescinde da un richiamo ed una mediazione di quell’immaginario, di quell’arte paterna e putativa, e di quei modelli d’ispirazione che, nel suo cinema, si ritrovano fin dai primi baluginii.
Con una capacità ed abilità che ci lascia ancora sbigottiti, Anderson riassume e riprende tutti i suoi feticci, le sue manie, i suoi totem e gli assi portanti del suo approccio alla costruzione di un mondo (de)limitato ma insieme debordante [la simmetria della composizione; l’esagerata attenzione, la continua evidenziazione e l’assurda catalogazione del dettaglio; una direzione degli attori ed un’immaginazione visiva e di design del personaggio che risente sempre più della sua brillante carriera e amore per l’animazione; una temporalità sfuggente e discontinua; una scrittura esemplare ed umana nella sua bizzarria ed eccentricità…], e chiama a sé un parterre di attori - (quasi) tutti sodali - tale da poter far impallidire il cast di una grande produzione hollywoodiana, per dare forma, a partire da un omaggio al New Yorker e ai suoi racconti brevi, ad un’ode su una passione correlata alla letteratura e all’illustrazione che qui trasporta ed integra a quella per il cinema.
Ossia quella verso un giornalismo d’altri tempi, tutto inchiostro e macchina da scrivere, dalla prosa ricca, ampollosa e retorica, composto e rappresentato da giornalisti che talora diventavano più famosi e riconosciuti di coloro di cui scrivevano, e fatto di articoli che riuscivano a rendere affascinante anche la più becera, volgare o infausta delle realtà (e non è forse quello che Anderson fa da anni con il suo cinema?).
Realtà come quelle che animano e popolano la cittadina francese immaginaria di Ennui-sur-Blasé [che tradotto significa ironicamente noia-su-apatia], di cui scrivono i cronisti della redazione locale del French Dispatch, una rivista statunitense che offre “un fattuale reportage settimanale sui temi di politica mondiale, le arti - nobili o meno -, e varie storie su ciò che è di umano interesse”. Alla morte del fondatore, tale Arthur Howitzer Jr. (un fantasmatico Bill Murray), i membri del giornale decidono di pubblicare un numero commemorativo che racchiuda i tre articoli più entusiasmanti delle passate edizioni.
Anderson decide così di intrecciare, come mai prima d’ora, la componente visiva e verbale - nella cui voluta artificiosità, improbabilità e barocchismo si rintraccia tanto un marchio di fabbrica dello stile andersoniano, quanto, come sopra, una prerogativa degli stessi articolisti della rivista - e dar vita ad un film ad episodi [il riferimento dichiarato è a L'oro di Napoli di Vittorio De Sica] che, guardando a giganti del cinema francese quali Godard, Tati e Clouzot, trasla sul grande schermo i fatti, le parole e le situazioni così come contenute, redatte e pubblicate sul giornale, in tutto e per tutto, sempre mantenendo gli assiomi esclusivi della carta stampata.
Preceduto da un breve tour “di 300 parole” della città, ad opera di Herbsaint Sazerac (Owen Wilson) e dal titolo Il reporter di ciclismo, l’ultimo numero del French Dispatch inizia dunque con un articolo di J. K. L. Berensen (una gigiona Tilda Swinton), intitolato Il capolavoro nel cemento, che racconta la storia di Moses Rosenthaler (un Benicio Del Toro molossoide), un artista mentalmente instabile che sta scontando una pena nel carcere di Ennui per duplice omicidio, dipinge un ritratto di una dei secondini, Simone (una pura ed incantevole Léa Seydoux), della quale si innamora, e viene notato e reso celebre da un mercante d’arte, ex-evasore fiscale, Julien Cadazio (un imprevedibile Adrien Brody).
Il secondo articolo (il più riuscito dei tre) è invece Revisioni a un manifesto di Lucinda Krementz (una Frances McDormand semplicemente istrionica), nel quale quest’ultima dettaglia i giorni di rivolta studentesca che colpirono la cittadina francese durante il periodo sessantottino, capeggiata dal giovane Zeffirelli (con cui Timothée Chalamet, seppur incastrato in alcune sue faccette, dimostra una credibilità da attore nouvelle vague, apparendo al contempo - come scrive Ilaria Feole - anche come una versione cresciuta del protagonista Sam dell’andersoniano Moonrise Kingdom), abile leader e giocatore di scacchi che finisce per intrattenere una relazione con la giornalista; e messa in discussione poetica e morale da Juliette (una Lyna Khoudri mai abbastanza convincente).
Chiude il numero infine La sala privata del commissario di polizia (il peggiore e più sconclusionato) di Roebuck Wright (un Jeffrey Wright mai visto), il redattore più sui generis di una redazione già di per sé atipica, il cui obiettivo sarebbe raccontare i meravigliosi piatti preparati dal leggendario poliziotto-chef tenente Nescaffier (uno Stephen Park dimenticabile), ma che invece finisce per perdersi e divagare sugli eventi attorno al caso di rapimento del figlio del capo della polizia di Ennui (un Mathieu Amalric vignettistico), per mano di Chauffeur (un normalissimo Edward Norton), criminale di lupiniana memoria.
Comune denominatore di queste tre storie è appunto una magniloquenza estetico-compositiva che accompagna e arricchisce il racconto della vicenda in sé e che, in qualsiasi altro film, sarebbe un qualcosa di accessorio e secondario rispetto al nocciolo duro, vero e profondo del discorso, ma che, al contrario, finisce qui per convertirsi nell’oggetto di massima devozione da parte dell’istanza narrante, arrivando a definire una sostanziosità ed una seduzione che, almeno sulla carta, manca a queste tre storie del tutto convenzionali. Appunto, rendere affascinante anche la più positivamente o negativamente banale delle realtà. Ma anche ennesima conferma di un’idea di cinema - quella andersoniana - che fonda proprio sul modo particolare, iper dettagliato, fiabesco, devoto, nostalgico in cui fatti virtualmente e tematicamente triti e ritriti vengono messi in scena o, in questo caso, impaginati, per poter essere abitati dai propri personaggi.
Smantellamenti e dinamismi scenografici tipicamente teatrali, sezioni da libro illustrato, un eclatante e giornalistico ipertrofismo della didascalia, del sottotitolo, di legende e annotazioni, divagazioni che pretendono il proprio ruolo da protagoniste, una stilizzazione sempre più evidente dei caratteri, una comicità tra cartoon e screwball dei giorni nostri, ed irruzioni di segmenti animati che richiamano il tratto caratteristico dei bande dessinée e insieme costituiscono, a loro modo, il più alto punto di saturazione di uno stile che non può più essere contenuto all’interno del quadro cinematografico: con The French Dispatch Wes Anderson riesce nuovamente ad imbastire un universo narrativo ed estetico talmente surreale da diventare iperreale, firmando la massima dichiarazione della sua poetica e contemporaneamente un monumento palpabile ad un modo desueto e poetico di raccontare e fare informazione, misurato sulla capacità dello scrittore e non tanto sul contenuto (come dice Arthur Howitzer Jr., un passaggio ingiustamente eliminato può valere o dare un motivo di esistere ad una storia avvincente).
Ma anche un film sull’importanza e la necessità di narrare per prevenire l’oblio della memoria, dedicato agli stessi narratori di “questo mattatoio barbaro che una volta era conosciuto come umanità”.
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