TITOLO ORIGINALE: Rocco e i suoi fratelli
USCITA ITALIA: 6 ottobre 1960
REGIA: Luchino Visconti
SCENEGGIATURA: Suso Cecchi D'Amico, Pasquale Festa Campanile, Massimo Franciosa, Enrico Medioli, Luchino Visconti
GENERE: drammatico
PREMI: LEONE D'ARGENTO al FESTIVAL del CINEMA di VENEZIA
Rocco Parondi è un giovane ragazzo lucano che si trasferisce a Milano, insieme alla madre e ai quattro fratelli, in cerca di fortuna e libertà. Ivi, questi verrà a contatto con una società passiva e assente e farà la conoscenza di Nadia, una prostituta affabile e sardonica, della quale si innamorerà. Questa passione intramontabile lo porterà però a scontrarsi con il fratello Simone che, innamoratosi precedentemente di Nadia, sta vivendo una letterale e delittuosa discesa negli inferi. Luchino Visconti dirige un capolavoro di forma e contenuto che, ai tempi, sconvolse pubblico, critica e censura. Tragedia popolare inquadrata perfettamente nella corrente neorealista, Rocco e i suoi fratelli è una critica lucida e dettagliata dell’Italia del boom economico e del fenomeno dell’emigrazione interna - perfettamente raffigurati da interpretazioni travolgenti, ambientazioni sintomatiche e dialoghi crudi e concreti. Una pellicola di rara bellezza e potenza visivo-tematica che andrebbe riscoperta, vista e amata incondizionatamente, in quanto apogeo e punto di rottura del nostro cinema.
Cinque fratelli della Lucania, trasferitisi a Milano, insieme alla madre, in cerca di fortuna, di una vita migliore, più libera, indipendente, sottratta ad un destino contadino degradante e faticoso. Cinque frammenti distinti e diversificati, rappresentanti ognuno un tipo di reazione e risposta a ciò che fu l’emigrazione meridionale degli anni ‘50-’60 verso il nord e i suoi centri industriali e commerciali. Cinque singolarità che, unite, costituiscono e diventano emblemi di quelle speranze e sogni di ricchezza che, all’epoca, incoraggiarono tale esodo. Cinque indoli e caratteri, protagonisti di Rocco e i suoi fratelli, pellicola del 1960 del maestro neorealista Luchino Visconti, vincitrice, fra i tanti, del Leone d’argento al festival del cinema di Venezia.
Allora acclamato come il grande ritorno del cineasta - dopo la parentesi storica di Senso (1954) e quella drammatico-sentimentale de Le notti bianche (1957) - ad atmosfere e temi socialmente concreti e attuali, il film è, al contempo, un’opera che può inserirsi perfettamente nella (allora) ormai superata tradizione neorealista e una tipica tragedia greca in cinque atti, con echi da melodramma popolare. Seguito spirituale de La terra trema (1948) - “che è la mia interpretazione dei Malavoglia” - ed ispirato ad alcuni racconti de Il ponte della Ghisolfa di Giovanni Testori, Rocco e i suoi fratelli è cine-mosaico monumentale e composito di una realtà, quella dell’emigrazione interna, risultato di un marcato ed evidente divario culturale, tuttora in essere. Distacco e differenze, quelle tra nord e sud, che, nella concezione filmica di Visconti, rispondono ad influenze di svariate opere letterarie. Giuseppe e i suoi fratelli di Thomas Mann (da cui adotta il titolo), L’idiota di Dostoevskij, Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi e Contadini del Sud di Rocco Scotellaro - che il regista onora, dando il suo nome al protagonista - sono solo una minima parte del fondamento bibliografico alla base della creatura viscontiana, la quale, unita alla poetica meridionalista di Verga, si contestualizza e afferma simultaneamente come apogeo, sussulto e punto di rottura all’interno della cinematografia nostrana.
In seguito alla morte del padre, Rocco Parondi, ragazzo lucano belloccio e onesto, raggiunge, insieme alla madre e ai fratelli Simone, Ciro e Luca, il fratello maggiore, Vincenzo, trasferitosi da poco a Milano e ivi inseritosi abbastanza rapidamente. L’arrivo dei familiari - soprattutto della madre -, tuttavia, complica di non poco il momentaneo e gioioso equilibrio di quest'ultimo, costringendolo ad abbandonare la sua sistemazione a casa della fidanzata Ginetta e cercare un tetto per lui e i suoi cari. Malgrado alcune difficoltà iniziali, i sei riescono a trovare finalmente un posto “fisso”: lo scantinato di un complesso di case popolari - che diventerà punto di partenza di un'avventura, in nome di fortuna e guadagno. Pertanto, Vincenzo tenterà di recuperare quanto costruito e stabilire un rapporto duraturo con Ginetta dopo il brusco intervento materno, Rocco inizierà a lavorare come fattorino in un lavanderia del centro, Ciro si metterà a studiare, venendo poi assunto come impiegato Alfa Romeo, Simone intraprenderà una carriera come pugile, mentre Luca - data la sua giovane età - rimarrà a casa ad accudire e far compagnia alla madre. Allo stesso tempo, questi faranno la conoscenza di Nadia, prostituta apparentemente affabile e dal fare sardonico che, dietro una facciata ironica e impudente, nasconde un vissuto amaro e doloroso, che condividerà con due fratelli in particolare: Simone e Rocco. Tale incontro e le azioni che entrambi compiranno in nome di una passione intramontabile - e, per uno dei due, non corrisposta -, avranno conseguenze devastanti e catastrofiche, sia sull’integrità del proprio nucleo familiare, sia sulle vite di tutti coloro che li circondano, portando Simone ad una letterale e delittuosa discesa negli inferi e Rocco ad un’esistenza che dovrà indossare e sopportare suo malgrado.
Effetti tragici e fatali, quelli in cui si troverà immischiata la famiglia Parondi, che la macchina da presa di Visconti registra e soppesa abilmente, attraverso una messa in scena e costruzione registica parallelamente immedesimate e identificate nel vissuto dei personaggi - con cui si fondono, delineandone, mediante primi piani struggenti ed espressivi, dramma, disagio e incrinature -, così come profondamente oggettive e onniscienti, quasi documentaristiche. Con Rocco e i suoi fratelli, Visconti sottolinea e dà prova altresì della propria abilità nella direzione degli attori, esaltandone corporeità e muscolarità, carica erotica, stati d’animo ed eloquenza espressiva, rendendoli dunque punto focale e colonna portante dell’intera produzione. Unitamente ai Parondi e a tutte quelle figure esterne al mosaico viscontiano, la macchina da presa riserva un occhio di riguardo anche alla descrizione e alla caratterizzazione visiva di ambientazioni splendide e sintomatiche che, di fronte all’obiettivo, sembrano quasi prendere vita e farsi personaggio, ancor prima che mero palcoscenico.
Rocco è un santo. Ma nel mondo in cui viviamo, nella società che gli uomini hanno creato, non c'è più posto per i santi come lui: la loro pietà provoca dei disastri.
Ciro Parondi (Max Cartier)
La Milano di Rocco e i suoi fratelli è una città ben diversa rispetto a ciò che si potrebbe trovare sul fronte di una cartolina: una città sudicia, disonesta, ipocrita, composta prevalentemente da caseggiati e stabilimenti industriali fatiscenti, nonché testimonianza di un processo di industrializzazione che ha investito in pieno l’ecosistema sociale italiano, inglobando tutti, chi più e chi meno. Tuttavia, ancor prima di essere testimonianza, la Milano viscontiana è anzitutto - così come lo spettatore stesso - testimone silente e passiva dinanzi al dramma di Rocco e i (suoi) fratelli e, soprattutto, proiezione visiva e contestualizzatrice di azioni e sentimenti (il duomo di Milano fa da sfondo ad uno dei momenti più spirituali e dall’elevato tasso di moralità; l’idroscalo e la sua morfologia arida e fredda sono la cornice perfetta di un evento tremendo come l’omicidio di Nadia ad opera di Simone).
All’interno del testo filmico viscontiano, momenti di profonda umanità, calorosi e vernacolari vengono intercalati alla perfezione ad altri ugualmente focosi e passionali nella loro violenza, brutalità e schiettezza rappresentativa. Tuttavia, Rocco e i suoi fratelli non vuole essere soltanto una tragedia in senso stretto, ma - abbracciando la propria matrice neorealista - anche e soprattutto una critica consapevole e accurata dell’Italia dei primi anni ‘60 e del fenomeno della summenzionata emigrazione interna, profondamente legato al divario socio-culturale che, allora (e spesso ancora oggi), si registrava tra nord e sud. Come osservava lo stesso Visconti: “L’Italia è un paese diviso, i meridionali che vengono al nord non sono fratelli, ma stranieri”. Questa Milano post-boom economico diventa così quadro evidente e limpido di una nazione e un sentire comune che vede “i meridionali” come ottusi, ignoranti, retrogradi e conservatori (emblematico l’offensivo e calunnioso scambio di battute di due anziane signore, all’incontro con i Parondi: “Mamma mia, ha visto che roba?/Africa/Ma da dove verranno?/Lucania/Lucania? E dove sta?/Eh, in fondo, in fondo”). Sebbene li presenti quasi come dei nomadi che, con il loro carretto di viveri e averi, si muovono per una città a loro ostile e ignota, Visconti riesce a ribaltare in toto questi tabù e preconcetti, rappresentando la figura del meridionale come essenzialmente simile e conforme - nel bene e nel male - all’italiano medio. Infatti, secondo il regista, alla fine dei conti e in un contesto sociale così opprimente, rigido e sconfortante, i vincenti e i vinti (di cui Rocco è il paladino sconfitto) rimarranno tali. Non vi sarà alcuna distinzione tra ricchi e poveri, fortunati e sfortunati, proprio poiché parte integrante di una nazione - pessimisticamente - in procinto di essere annientata, scevra da ogni sentimento puro e basilare e da quello stesso ideale di bellezza - proprio dell’Italia rinascimentale - che può sopravvivere soltanto in un televisore, destinato a spegnersi prima o poi.
Un’Italia (e una Milano) dove le prime pagine dei giornali sono ricolme e dedicate solamente a notizie mondane (la vittoria di un pugile) e sicuramente più frivole rispetto ad altre di maggior pressione sociale - come quella dell’omicidio brutale e sadico di una prostituta, le cui uniche colpe erano una vita a cui deve rimanere incatenata per cause di forza maggiore e una relazione morbosa e malata, probabilmente relegata ad una striscia a pié di pagina. Una società passiva e assente - sempre relegata in secondo piano e al ruolo di mera osservatrice nella costruzione registica di Visconti -, così offuscata dal superfluo, dall’eccesso e dalla ricchezza da dimenticarsi e ignorare completamente coloro che avrebbero più bisogno di un sostegno socio-economico e di un indirizzamento. I frutti di tale condizione disagevole e tragica vengono idealizzati e inquadrati nelle figure dei cinque fratelli protagonisti, presentati - narrativamente parlando - in associazione con le cinque dita della mano e i traumi loro correlati. In questo quadro di parallelismo, Vincenzo è il pollice, dito della protezione e del suo bisogno (infatti, questi si proteggerà dal dramma che investirà la propria famiglia, costruendosene un’altra); Simone è l’indice, che rappresenta l’emotività e l’impulsività; Rocco è il medio, ossia il dito della sessualità e della soddisfazione del vissuto, che, in questo caso, diventa insoddisfazione di vita; Ciro è l’anulare, la coesione, l’unione e l'assimilazione (come testimoniato dal suo futuro fidanzamento), ma anche, traumaticamente parlando, la difficoltà nel dare un senso alla propria vita; mentre Luca è il mignolo, il dito più sottile ed elegante, così come lui - mai scomposto, sempre innocente e ingenuo, soprattutto nelle note finali.
Una caratterizzazione plausibile, dettagliata, fragile e difettosa dei personaggi e dei loro rapporti - combinata con dialoghi crudi, intensi e realistici, spesso composti da elementi dialettali, interpretazioni tormentate e toccanti ed una colonna sonora tanto funesta quanto profondamente iconica - fanno di Rocco e i suoi fratelli uno spaccato di vita che non può non scuotere e turbare il corpo e la mente dello spettatore, bloccato - alla vista di una società alla deriva ma, al contempo, umanamente imperfetta - in una perenne ed insolubile condizione di nausea e malessere. Un finale perfettamente circolare, pur nel suo essere opposto e antitetico, suggerisce l’idea che, rispetto a quell’iniziale arrivo in stazione a Milano - sinonimo di speranza e libertà -, nulla, nella vita di Rocco e dei (suoi) fratelli, sia realmente cambiato; che, nonostante le scelte e le prese di posizione, questo loro libero arbitrio non fosse che l’illusione di una società e di un destino ordinatori e opprimenti. Questa visione pessimistica e nichilista dagli esiti distruttivi è poi confermata e sottolineata da un finale che - successivo ad una messa in scena e montaggio alternato che, citando il finale della Carmen di Bizet, danno vita ad uno dei momenti più bestiali della pellicola; e determinato dal suono di una sirena - annulla qualsiasi forma di affettuosità fraterna, speranza e cambiamento e, di conseguenza, ogni possibile via di fuga da una realtà dura ed immobile in cui conta più la massa (di operai) rispetto al singolo, abbandonato al suo fato tanto dalla macchina da presa, quanto dallo sguardo della collettività.
Nell’anno (il 1960) in cui Federico Fellini produce La dolce vita - uno dei capolavori della sua intera filmografia e di tutto il cinema italiano -, Visconti si allontana dalle luci della ribalta, dai salotti intellettuali ed edonistici, dall’ipocrisia della Roma “dabbene”, scegliendo, per contro, di scendere in strada e sporcarsi le mani, confezionando così una delle sue opere migliori; una creatura filmica di raro prestigio che, ancor oggi, 60 anni dopo l’uscita originale, appare fresca e moderna. La dolce vita e Rocco e i suoi fratelli: due film provocatori, censurati, criticati dal buon costume e dai perbenisti, definiti immorali, perversi e scandalosi, forse perché rappresentanti una verità che quell’Italia - l’Italia del boom - tendeva ad oscurare con i suoi lustrini, la sua ipocrisia e il suo benessere. Tuttavia, se il primo è tuttora un film celeberrimo, amato, citato e ricordato continuamente, l’opera di Visconti - ragionando in termini di grande pubblico - purtroppo non ha raggiunto tale notorietà, perdendosi tra le pieghe del tempo e vivendo all’oscurità del premio Oscar felliniano. Ciò nonostante, fama o meno, sarebbe ingiusto non riconoscere a Rocco e i suoi fratelli lo status di pietra miliare del cinema, che ciascuno di noi dovrebbe conoscere, vedere e amare in tutta la sua complessità e ricchezza umana. Citando Martin Scorsese, che nel 2016 presentò il restauro 4K del film: “Visconti è stato uno dei registi più importanti della storia del cinema [...] i suoi film con il passare del tempo (mi) sembrano sempre più ricchi, grandiosi e sorprendenti [...] Rocco fa parte della cultura italiana”.