TITOLO ORIGINALE: Indiana Jones and the Dial of Destiny
USCITA ITALIA: 28 giugno 2023
USCITA USA: 29 giugno 2023
REGIA: James Mangold
SCENEGGIATURA: Jez Butterworth, John-Henry Butterworth, David Koepp, James Mangold
CON: Harrison Ford, Phoebe Waller-Bridge, Antonio Banderas, John Rhys-Davies, Toby Jones
GENERE: avventura, azione, commedia, fantascienza
DURATA: 154 min
Presentato fuori concorso al festival di Cannes 2023
Harrison Ford riprende in mano per la quinta ed ultima volta fedora e frusta e torna a vestire i panni di uno dei suoi personaggi più amati, un'icona leggendaria della storia del cinema in Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold. Un film che ha a che fare con la nostalgia, ma anche con l'accettazione della propria mortalità, prezzo e limite per divenire realmente immortali. Un canto del cigno godibile e divertente quanto basta, una summa di tutto ciò che è stato e ha rappresentato la serie di Indiana Jones, una pellicola che si mimetizza nel segno e nel cinema di Spielberg, correggendo la (propria) storia, ma purtroppo mai facendola per davvero.
Inizia con il ticchettio di un orologio, Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold. Così, tanto per mettere fin da subito le cose in chiaro riguardo a quale sarà il tema portante della pellicola - che, come ben saprete, è il quinto capitolo, a distanza di più di un decennio dall’ultimo, di un franchise nato ormai una quarantina di anni fa dalle menti brillanti di George Lucas e Philip Kaufman e dal talento registico ed iconico di Steven Spielberg - e, a ben vedere, anche il suo vero avversario.
Tempus fugit. Il tempo ci sfugge dalle mani, scorre più velocemente di quanto crediamo, ma nessuno di noi gli potrà mai sfuggire. Nemmeno un’icona, un eroe, un personaggio divenuto ormai leggendario, come il professore di fama mondiale Henry Walton Jones Jr., meglio conosciuto come Indiana Jones. È questo o, più che altro, l’illusione del suo contrario (ovvero che si possa invece sfuggire all’inesorabile caduta della sabbia nella clessidra), il principio e il presupposto incontrovertibile su cui si basa e costruisce tutto lo spettacolare ed inaspettatamente lungo prologo (in medias res) che anticipa la vera avventura, forse proprio l’ultima del più noto archeologo del grande schermo.
Ritroviamo il nostro nella Germania del 1944, nelle fasi finali della Seconda Guerra Mondiale. Egli si trova lì, assieme ad un collega dell’università di Oxford, il professor Basil Shaw, per recuperare un altro (l’ennesimo) manufatto antico (nello specifico, la mitica lancia di Longino, che, secondo la leggenda, trafisse il costato di Gesù crocifisso) e - loro dicono - preservare la Storia, rubandola di mano ad Hitler e ai nazisti che, come prevedibile, vogliono utilizzarla per cambiare le sorti del conflitto. Peccato soltanto che quello che dovrebbe essere un manufatto dal valore inestimabile si rivela essere nientemeno che un falso, una copia, un’imitazione.
In questo, si cela allora il significato più profondo e il discorso più interessante di Indiana Jones e il quadrante del destino, che si illude di poter sfuggire, resistere, trovare una soluzione all’indolente scorrere delle lancette di cui sentiamo fin da subito il ticchettio, e cerca di preservare la Storia (del cinema, in questo caso), ricreandola nel modo più preciso possibile, ma deve ciononostante arrendersi all’evidenza, all’impossibilità e alla falsità, fredda ed artificiale, di quello che mette in scena.
In questo lungo prologo, c’è tutto, e tutto è al posto giusto. Ci sono il neoclassicismo di Spielberg e la sua idea di azione e tensione: dalla composizione quasi operistica, di continua trazione e distensione, tecnicamente precisa, solida e ritmata, instancabile, decisa, creativa, graffiante, caustica, a mo' di contrappasso, nei confronti di tutto ciò che è male, fondata su soluzioni ed espedienti che nella loro apparente fortuità, caoticità e frenesia trovano sempre la chiave fortunata per la gloria e il successo.
C’è lo stesso pastiche di generi, estetiche e riferimenti di cui riecheggia la stessa creazione del personaggio e per la cui sperimentazione le avventure di quest’ultimo sono poi diventate quasi un pretesto, una dimensione ideale per Lucas, Spielberg & co. La sequenza del treno, nello specifico, si rifà palesemente a La grande fuga di John Sturges e a Quella sporca dozzina di Robert Aldrich.
C’è l’altrettanto meravigliosa ed imprescindibile colonna sonora composta da John Williams (il cui apporto, nell’economia della creazione del personaggio e della sua affermazione culturale, mitologica ed iconografica, è fondamentale tanto quanto quello dei colleghi creativi sopracitati).
Ci sono pure i nazisti, rappresentati rispettando e talora accentuando il tratto fervidamente dissacrante e spietato di Spielberg, per cui era, d’altronde, un fatto personale prima che storico. C’è davvero tutto, eccezion fatta (per ovvi motivi, vista l’acquisizione Disney della Lucasfilm e quindi del franchise) per il logo Paramount che muta in un elemento diegetico, che sia una montagna vera e propria o un cumulo di terra.
Eppure, per riuscire in una simile missione (od utopia), bisogna produrre ed accettare un falso, un inganno, un’opera di contraffazione. Produrre e riconoscere, più precisamente, un Harrison Ford ringiovanito digitalmente grazie agli inquietanti, spesso stranianti, e non sempre impeccabili (anzi, addirittura dalle recrudescenze ed ingenuità zemeckisiane nei campi più aperti e nei frangenti più dinamici) trucchi della tecnica deepfake e della pratica del body-doubling. Trucchi, questi ultimi, che non soltanto privano attore e(rgo) personaggio di un elemento espressivo indispensabile come le smorfie beffarde, ma sopprimono de facto l’eccellente paradosso (o, come qualcuno un certo cavaliere, “il limite, e il prezzo”) dell’immortalità, che si sostanzia nell’ineluttabilità del tempo, della vecchiaia, e nell’accettazione della mortalità.
Temi, questi ultimi, che nella serie di Indiana Jones, non sono certo una novità (se ne parlava già ne L’ultima crociata), ma che ne Il quadrante del destino trovano una vera e propria ultima chiamata, gli estremi effetti, un’evidenza inconfutabile nelle rughe, nelle grinze e nei segni del tempo di e su un corpo inconfutabilmente sfiorito e decadente, per non dire proprio invecchiato.
È quello su cui incede, insieme romanticamente ed acremente, la macchina da presa di James Mangold e taglia spietatamente il montaggio di Michael McCusker, Andrew Buckland e Dirk Westervelt. È quello di un Harrison Ford/Indiana Jones che - esaurito quel prologo di cui sopra, che, al di là della questione ringiovanimento, potrebbe benissimo confondersi nel caleidoscopio di immagini e suggestioni degli originali spielberghiani - troviamo, 25 anni dopo, nell'agosto del 1969, solo, abbandonato da tutto e da tutti, alla deriva, prossimo al pensionamento, non più materia di vagheggiamento ed ammirazione dei suoi giovani studenti. Vestigia, se non relitto, outsider, straniero di un mondo, giovanile e ringiovanito, in cui domina la cultura e la controcultura, oltre che la musica delle nuove generazioni (quella che lo sveglia di soprassalto). Prigioniero sofferente di un mondo che non gira più nel verso che gli aggrada, non guarda più in basso, indietro, per terra e sottoterra, in cerca di segni del proprio passato, ma è spinto con lo sguardo e il cuore verso l’alto, la Luna (siamo a pochi giorni dall’allunaggio, ndr), lo spazio, l’universo, l’ignoto e il magico lassù. Forse il futuro, incerto e tutto da scrivere.
Scoprirà di lì a poco, il dottor Jones, che si può scrivere, anzi riscrivere il passato, utilizzando i poteri di un artefatto che incontrò già allora, in quella avventura tedesca del 1944: la macchina di Antikythera, inventata dal grande matematico siceliota Archimede, un sofisticato planetario, mosso da ruote dentate, che si ritiene servisse per calcolare il sorgere del sole, le fasi lunari, i movimenti dei cinque pianeti allora conosciuti, gli equinozi, i mesi e i giorni della settimana. È Helena Shaw, la figlia del suo compianto collega di Oxford, nonché sua figlioccia, a contattarlo a questo proposito. Ella (come il padre prima di lei) crede che questa macchina-quadrante, non soprannaturale ma matematica, possa infatti riuscire a prevedere anche l’apertura di veri e propri portali temporali. Un’ipotesi in cui crede anche Jürgen Voller, ex-astrofisico nazista, reintegrato ed assunto dalla NASA per il progetto Apollo 11, che si mette sulle tracce del manufatto, e quindi di Indy ed Helena, deciso a correggere gli errori della Storia.
Ad essere teorici - ecco svelato pertanto uno dei principali scopi, al di là della mera capitalizzazione della nostalgia, per cui è nato ed esiste Indiana Jones e il quadrante del destino di James Mangold, regista abilissimo che, ancor di più dopo questo film, ci sentiamo di definire perfettamente idoneo alle storie di decadenza e pensionamento di grandi personaggi del cinema action moderno e contemporaneo (si pensi a Logan), tanto quanto all’oneroso e periglioso compito di riparare o - per dirlo con Voller appunto - correggere le saghe. Lo ha fatto appunto col brand e il personaggio di Wolverine, dopo lo sfregio dei due film solisti, nel meraviglioso e già nominato Logan. Lo rifà qui con quello di Indiana Jones, dopo il (sì) modesto e deludente (ma, per chi scrive, non del tutto insufficiente) Il regno del teschio di cristallo.
Correggere il passato e gli errori della storia (nel senso di canone) e, contemporaneamente, regalare un’ultima, memorabile avventura all’archeologo di Harrison Ford non è però ciò a cui si limita l’opera di Mangold per Il quadrante del destino. Come anticipato da quei venti minuti iniziali, parliamo di un film e di un’operazione che esegue e dà vita ad una delle migliori variazioni in fatto di operazioni nostalgia, di cui il mercato audiovisivo occidentale è ormai saturo.
Non ci si bea, né tantomeno abbondano le citazioni, gli omaggi, le strizzatine d’occhio ai vecchi capitoli, tanto per accumulare un po’ di utile fan service per accontentare appassionati ed amanti. In più, là dove si decide di riecheggiare una frase, un motivo, una situazione del passato, la si ribalta ed impreziosisce di un senso nuovo (arricchendo così anche la pellicola stessa) e non si punta mai su quella più scontata e facile. Al contrario, come farebbe qualsiasi buon archeologo, si scava alla ricerca di un qualcosa, un momento, un tratto comprensibile e riconoscibile solo da chi ha ben vivide le iterazioni precedenti.
La missione nostalgica trova però la sua massima e maggiore via espressiva nel integerrimo mimetismo stilistico sviluppato da Mangold (che, come scrive bene Simone Emiliani, è un po’ “il nuovo Michael Curtiz”) nei confronti del cinema di Spielberg, che, dal canto suo, ha prima autorizzato, poi continuamente supervisionato il girato ed infine - con suo stupore, poiché credeva "di essere l'unico in grado di saperlo fare" - dato l’imprimatur all’intera operazione.
Ciò detto, la filmografia spielberghiana costituisce per il suo erede qui preposto ben più di una questione di stile, ma anche una dimensione estetica con cui flirtare, divertirsi ed interfacciarsi ogniqualvolta se ne abbia la possibilità. Si va da Lo squalo, ad A.I., fino all’animazione e alla riproposizione di quell’esatto spirito avventuroso del sottovalutato, insospettabile ed ingiustamente dimenticato Le avventure di Tintin; a riconferma della natura di laboratorio già postmoderno e spazio per antonomasia in cui sperimentare con suggestioni, sintesi, combinazioni, ridefinizioni, ai fini e in cerca di nuovi sensi, mitologie ed iconologie.
Tuttavia, se convince e soddisfa per come sfrutta, in maniera arguta, l’oneroso compito affidatogli, e ripropone rispettosamente ed attentamente il sapore, il gusto inconfondibile, oltre che la scansione ed invenzione narrativa dei prototipi anni ‘80, Indiana Jones e il quadrante del destino non denota altrettanta ricchezza, compiutezza ed animo nella trattazione e nell’elaborazione del protagonista, della sua vecchiaia e dell’aura mortifera e definitiva che ne segna quest’ultima cavalcata.
Difatti, tranne che per qualche linea di dialogo abbastanza intelligente ed uscita più critica e di stampo politico, la sceneggiatura di Jez Butterworth, John-Henry Butterworth, David Koepp e dello stesso Mangold si limita a spedire il nostro amato, vecchio archeologo a spasso per il mondo (da New York, si viaggia attraverso Marocco, Grecia e Italia) e per il tempo (neanche a dirlo), tra mare, cielo e terra, con tutti i mezzi possibili, o, in altre parole, in quella che è una summa di tutto ciò che Indiana Jones è stato, ha rappresentato e regalato al mondo dell’intrattenimento (specie ai videogiochi), tanto nel concetto, quanto nel campionario di situazioni, caratteri, intuizioni ed epifanie.
Nel compiere questo viaggio, egli è poi affiancato da una buona spalla: la Helena di una Phoebe Waller-Bridge più Han Solo di quanto l’originale non sia stato (o meglio, non abbia voluto essere) ne Il risveglio della forza, credibile nelle dinamiche e nel rapporto che si suppone debba avere con Indy, e puntualissima nel coprire le falle, gli iati e le lentezze recitative di un Ford che, come si suol dire, “barcolla, ma non molla”, proponendo e dimostrando a tratti un’inimitabile presenza scenica e, una volta tanto, un sincero coinvolgimento nelle sorti del suo personaggio; circondato da presenze accessorie, meramente funzionali ed alquanto dimenticabili (come il ritrovato Sallah di John Rhys-Davies, il Renaldo di Antonio Banderas, il Klaber di Boyd Holbrook ed il Teddy di Ethann Isidore, omaggio nemmeno così velato all’adorato Short Round di Ke Huy Quan da Il tempio maledetto); ed infine ostacolato da un villain di tutto rispetto, com’è il Jürgen Voller interpretato da un Mads Mikkelsen, al solito, del tutto dedito alla parte, l’unico in grado di far tremare il protagonismo indiscusso di Ford.
Quando però giunge l’ora di decidere quale sarà il verso verso cui far pendere l’ago del (quadrante del) destino, ecco che Mangold e soci scelgono la via forse più facile, rassicurante, ma anche romantica, sia per quel che succede, sia per come succede e viene messo in scena (l’iris finale su tutto). Tanto per prendere ad esempio i due migliori esemplari di rivitalizzazione ultima e riflessione pre- ed eventualmente post-mortem di un grande simbolo ed idolo dell’action moderno - non vi è né la maturità, la consapevolezza o l’impatto di per sé rivoluzionario del finale di No Time to Die (che era scritto, tra gli altri, proprio da quella Waller-Bridge che qui, invece, davanti alla macchina da presa, fa di tutto per dissuadere l’icona dall’arrendersi e scegliere per sé il finale più giusto e coerente), e vi è un barlume quasi impercettibile (nel prologo e sparso in qualche linea di dialogo) del timore e dell’inquietudine catartica, vitale e squisitamente metatestuale della sostituzione massiccia e complessiva dell’elemento (e dello spettacolo) umano da parte dei prodotti tecnologici, dell'artificio (digitale), di Top Gun: Maverick.
Indiana Jones e il quadrante del destino è allora un canto del cigno godibile e divertente quanto basta. Un’ultima avventura che riesce a correggere l’errore storico e a regalare e un accorato e sincero (secondo) viaggio di sola andata (con poche possibilità di ritorno) di Harrison Ford - che, come nota Ilaria Feole, è uno dei pochi, insieme a Sylvester Stallone e Tom Cruise, a cui Hollywood ha accordato il “privilegio di invecchiare”. Ma, laddove lo fosse, è tutto fuorché l’addio a cappello e frusta che lo stesso Ford e la creatura poliedrica, dinamica, nata dal cinema, per il cinema, che plasmarono quei geniacci di Lucas, Kaufman e Spielberg avrebbero meritato.
È - come sempre accade quando ogni personaggio da lui calzato e, in qualche modo, trasformato (più che propriamente recitato) torna sul grande schermo - un appuntamento imperdibile con la Storia, del cinema ovviamente. Ma tra vivere o, al massimo, perfezionare la Storia, e farla davvero, c’è una bella differenza!
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