TITOLO ORIGINALE: Rapito
USCITA ITALIA: 25 maggio 2023
USCITA FRA: 8 novembre 2023
REGIA: Marco Bellocchio
SCENEGGIATURA: Marco Bellocchio, Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati, Daniela Ceselli
GENERE: drammatico, storico, orrore
DURATA: 134 min
Presentato in concorso al 76º Festival di Cannes
Dopo la presentazione in concorso alla 76ª edizione del Festival di Cannes, arriva nelle sale italiane Rapito, il nuovo film di Marco Bellocchio, incentrato sul racconto della storia vera di Edgardo Mortara, bambino ebreo di Bologna che, in una notte del 1858, viene sottratto alla sua famiglia e portato a Roma per essere introdotto al Cattolicesimo. Rapito è allora l’ultimo, imprescindibile passo di un percorso cinematografico, iniziato ormai più di vent’anni fa, che ha portato il cineasta piacentino ad una seconda giovinezza e al perfezionamento di uno stile ormai inconfondibile, fatto di precisione, sintesi, profondità e consapevolezza, ma pure di improvvisi slanci nel sogno e nella visionarietà. Una composizione solida, maestosa e magistrale che rivela la cifra bellocchiana nei non detti, nei dettagli, nelle intercapedini di significato, nei gesti e nella sublime scelta e direzione degli attori.
Inizialmente si doveva intitolare La conversione. Quella di Edgardo Mortara, un bambino ebreo che, nella notte del 23 giugno 1858, a soli sei anni, venne sottratto dalla sua famiglia e dalla sua casa di Bologna (allora parte dello Stato pontificio) dalle autorità clericali, e successivamente portato a Roma, dove in un collegio avrebbe poi iniziato ad essere introdotto alle pratiche, ai riti e ai dogmi del Cattolicesimo.
Una vicenda, passata alle cronache come caso Mortara, che aveva stimolato l’interesse di un grandissimo del cinema, Steven Spielberg, che vi aveva rintracciato tematiche e motivi affini ai territori emotivi e narrativi della sua vasta produzione, per il diretto coinvolgimento della comunità ebraica, per l’elemento familiare, ma anche e soprattutto per l’irruzione della Storia in uno spazio privato ed intimo. Tutte cose che il cineasta e la sua visione profondamente umanista hanno sempre racconto con serbo, rispetto e partecipazione. Il copione, a firma del sodale Tony Kushner, era già pronto, ma, per via del forte tentennamento rispetto al casting del giovane attore che avrebbe dovuto interpretare il piccolo, il progetto finì per arenarsi.
Per nostra fortuna, nessuna indecisione ha ostacolato il compiersi della pellicola (immaginata insieme ai co-sceneggiatori Susanna Nicchiarelli, Edoardo Albinati e Daniela Ceselli, a partire dal libro Il caso Mortara di Daniele Scalise) di uno dei più grandi maestri del nostro cinema, Marco Bellocchio.
Quel tenue La conversione è al fine diventato il più intenso ed imprevedibilmente puntuale Rapito. È stato infatti rapito, ossia portato via da casa, sottratto con la forza al calore e all’amore laconico e silenzioso della sua famiglia, l’innocente Edgardo. È diventato uno strumento, un attrezzo, un dispositivo, un oggetto, nelle mani di un’istituzione, la Chiesa romana, di cui, già al tempo, ad una decina di anni dalla breccia di Porta Pia, dalla Legge delle guarentigie, dal Non expedit, veniva messo in discussione il potere temporale e la posizione nello scenario geopolitico europeo ed internazionale. Lo Stato della Chiesa stava diventando una realtà anacronistica e reazionaria, cominciava a perdere i suoi (apparentemente) inossidabili alleati e a diventare poco credibile addirittura agli occhi dei suoi più fervidi seguaci. E il suo Re, Papa Pio IX, decise di rapire un bambino sulla base di una presunta e ritardata rivelazione di un avvenuto battesimo, quale riaffermazione della sua legittimità di massimo vicario di Dio sulla terra.
Ma Edgardo sarà rapito soprattutto una volta giunto a Roma. Ammaliato da ciò che vede, da quello che sacerdoti, domestiche o suoi coetanei e colleghi di collegio gli riferiscono, da quel Papa che lo ha voluto così fermamente nel cuore del suo Stato, il quale, poco a poco, diventerà quasi il sostituto di un’assenza paterna e familiare, di un’incertezza di fede, di un attaccamento che andrà oltre un rapporto di mera credenza. In particolare, il bimbo verrà sedotto innocentemente, e poi conquistato perdutamente, dall’icona (e dall’immagine) più riconoscibile, dal dolore più intenso ed originario, da uno dei maggiori fondamenti dogmatici di tutta la comunità cristiano-cattolica: il Cristo in croce.
Quello stesso Cristo, che Edgardo vede innanzitutto nella sua forma carnale ed umana (e, solo in un secondo momento, spirituale), in cui si riconosce (anche lui era un ebreo!) e con cui si immedesima a tal punto che, in quei chiodi, in quelle stigmate, in quella corona di spine, riconosce, sublima e tenta invano di liberare la sua sofferenza.
È allora proprio grazie a sequenze indelebili, vigorose, inebrianti, come quella a cui abbiamo appena accennato (forse la più riuscita di tutto il film), che l’ultima fatica di Marco Bellocchio riesce a rapirci. Non solo, Rapito è anche l’ultimo, imprescindibile passo di un percorso cinematografico - iniziato ormai più di vent’anni fa con L’ora di religione e il meraviglioso Buongiorno, notte, e praticamente esente da qualsiasi tipo di fallimento o grande capitombolo - che ha portato il cineasta piacentino ad una seconda giovinezza e al perfezionamento di uno stile ormai inconfondibile, fatto di precisione, sintesi, profondità e consapevolezza compositiva, ma pure di improvvisi slanci nel sogno e in una visionarietà che non lasciano alcun dubbio riguardo alla presenza di un irripetibile voce registica dietro la macchina da presa.
Rapito è però anche la pellicola che, in coro con Il traditore, la miniserie Esterno notte e, per certi versi, pure Marx può aspettare, più mette in luce e in nuce ciò di cui ha sempre parlato tutto il cinema e quello che, con tutta probabilità, rimarrà dell’opera di Marco Bellocchio. Un cinema libero, il suo, audace, sperimentale, irrefrenabile anche a costo (specie ai tempi dell’esordio) di urtare la sensibilità di qualcuno, sempre proteso a smascherare i nascondigli, talora sterili ma comunque incontestabili, in cui il potere, i sistemi verticali, gli schemi precostituiti e convenzionali, le istituzioni, si sono sempre rifugiati per tentare di dirigere il corso della Storia e delle storie che la informano.
Un cinema che molte volte, come in questo caso, si serve ed è servito proprio della Storia, del suo incedere equilibrato ed impermeabile e della sua prerogativa esegetica, per metabolizzare traumi, ricercare il senso di un’epoca, esorcizzare i fantasmi che ancora oggi infestano la nostra penisola, e, così facendo, prevenire il cedimento della sua e della nostra memoria. Un cinema che, specie in questo suo secondo filone, qualcuno potrebbe quindi definire di servizio pubblico, ma che, se anche fosse (e non lo è nel senso dispregiativo del termine), Bellocchio orchestra e pratica in una maniera tanto acuta, vivida, agile, dinamica ed assoluta, che è davvero impossibile rimanerne indifferenti e non venire, per l’appunto, rapiti.
Ciò detto, Rapito ricorda e riconferma anche la capacità linguistica del cineasta piacentino. Qui come non mai si utilizzano al meglio e con grande praticità gli stilemi e le formule del miglior cinema popolare, del cinema di genere: la tensione del thriller, l’inquietudine e l’abiezione dell’horror, la parola del film di tribunale, il grande affresco storico e la preponderanza e profondità psicologica del romanzo di formazione.
È però dietro questo velo da (co-)produzione spettacolosa, coinvolgente, sontuosa e magniloquente (dalla fotografia ai costumi, fino ad arrivare alle scenografie), di ampio respiro e velleità commerciali, che si situa, si scorge, si accede e si consuma la vena autoriale e la cifra personale della produzione bellocchiana.
Nei non detti, nei dettagli, nelle intercapedini di significato, nei segmenti che si allontanano dal rigore cronachistico per lasciar esondare la messinscena in dimensioni nevroticamente ed inquietantemente trasognate. In quel motivo del nascondino che torna insistentemente e con diverse gradazioni semantiche. Nella capacità di rendere e descrivere la gravità di ogni gesto, ogni sguardo, ogni movimento. Nella scelta e nella direzione degli attori, che, in Rapito, si cristallizza nella scelta quasi linklateriana del miracoloso e cinegenico Enea Sala (l’attore bimbo di otto anni scoperto dallo stesso Bellocchio per il ruolo del piccolo Edgardo) e di Leonardo Maltese (che continua, dopo Il signore delle formiche, lungo il solco di personaggi struggenti e tormentati che diventano oggetti certificatori di istanze conservatrici, nel ruolo di un Mortara più adulto), dei meravigliosamente dolenti Barbara Ronchi e Fausto Russo Alesi (che rappresentano due volti possibili dello stesso dolore), di un sempre misurato Fabrizio Gifuni (impegnato in un ruolo che è un controcanto del suo Aldo Moro in Esterno notte), e di un Paolo Pierobon viscido, inquietante, perverso, squilibrato, posseduto, delirante nei panni di Pio IX.
Soltanto l'eccessiva invadenza e il didascalismo di una colonna sonora che concepisce l’intreccio di Storia e storie come intreccio tra l’ambizione orchestrale e sinfonica e motivetti di scuola morriconiana, ed un’inefficacia nella resa di dimensioni, portata e grandezza dei più importanti punti di svolta delle vicende italiane (quali la destituzione bolognese del regime papale o la già citata presa di Roma) sono le uniche note davvero stonate e fuori posto in una composizione viceversa impossibile da definire altrimenti che solida, maestosa e magistrale.
Rapito è insomma un urlo, l’ennesimo, agghiacciante, cupo, seriamente iconoclasta e, ancora una volta, coraggioso di un uomo che dimostra artisticamente cinquant’anni di meno di quelli che ha realmente, ed è forse la sola incontestabile certezza vivente del cinema italiano. Di ieri, oggi e domani.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.