TITOLO ORIGINALE: John Wick: Chapter 4
USCITA ITALIA: 23 marzo 2023
USCITA USA: 24 marzo 2023
REGIA: Chad Stahelski
SCENEGGIATURA: Shay Hatten, Michael Finch
GENERE: azione, thriller
DURATA: 169 min
Sequel diretto delle vicende del secondo e terzo capitolo, John Wick 4, anche quarta regia dell'ex stuntman Chad Stahelski, riduce la narrazione essenziale per portare ancor più alle estreme conseguenze il proprio stile e la propria idea di cinema action. Il risultato è, ancora una volta, una celebrazione del puro movimento cinematografico, pari ad un calvario incondizionato, necessario, spossante, meticoloso, ridondante, un ricettacolo dei vari modi di intendere l’azione nei decenni, da Oriente ad Occidente, l'eccellente dimostrazione della forma che diventa contenuto, ma anche e soprattutto il minore dei quattro capitoli; una pellicola che, paradossalmente a quanto propone con le immagini, indugia nel racconto di un contesto che diventa ingombrante per l’energia, la disinvoltura e le sorti dell’azione.
“Il modo in cui fai una cosa, è il modo in cui fai ogni cosa” si dice ad un certo punto in John Wick 4, nuova (ed ultima?) iterazione di una delle più popolari serie action del panorama hollywoodiano contemporaneo, patrocinata dai due stuntman made in Matrix Chad Stahelski e David Leitch, e fautrice di una vera e propria rivitalizzazione di Keanu Reeves quale icona d’azione per antonomasia, oggi come oggi secondo forse solo a Tom Cruise e al suo Ethan Hunt.
Neo è diventato (l’Uomo) Nero, sempre più nero, anzi nerissimo, e non solo per il suo tipico abbigliamento e look total (o semi) black, ma proprio per l’umore con cui lo abbiamo lasciato alla fine di Parabellum (il capitolo precedente) e lo ritroviamo all’inizio di questo nuovo film.
Dopo esser stato infatti scomunicato dalla Gran Tavola, organizzazione suprema e regolatrice della società sotterranea dei killer-for-hire, e aver tentato invano di farsi riaccogliere e saldare una volta per tutto il proprio debito, il famigerato Baba Yaga - dolente e sofferente vedovo con una tenera ed esilarante passione per i cani - è ora pronto a muovere definitivamente guerra all’establishment, ai suoi potenti rappresentanti, nelle fattezze dell’infido, perverso e spietato Marchese Vincent de Gramont (un Bill Skarsgård che tenta di arricchire e personalizzare con la sua interpretazione un personaggio altresì macchiettistico), e, come da tradizione, a tutti gli uomini, i rinforzi o, per meglio dire, la carne da macello che gli scaglieranno addosso.
Sono queste, in brevissimo, le premesse da cui prende il via John Wick 4 e, pur mancando qualche elemento e dettaglio di trama, di fatto tutto l’intreccio della pellicola, che narrativamente ridotta all’essenziale, scarnificata e depauperata di tutto le scorie e il materiale in eccesso, può - come osservando un mantra, un rito, una preghiera - assecondare in tutto e per tutto la via già tracciata, sviluppata, portata all’eccesso negli scorsi capitoli, a partire proprio da quel mantra d’apertura.
Aspettarsi infatti una tela narrativa elaborata, complessa e stratificata dal quarto capitolo di una serie nata perché un malavitoso un po’ incosciente uccide il cane e ruba l’auto di un ex assassino professionista, ancora in cordoglio per la morte della moglie per cui ha deciso, in primis, di smettere la propria vita violenta; o, in altre parole, da un soggetto fortemente figlio della tradizione karmica orientale, è quantomeno da ingenui, creduloni o infine incoscienti della vera e più pura essenza di John Wick.
Quella stessa natura di cui che Stahelski & co. hanno dato le prime avvisaglie nel capitolo originale, sofisticato e perfezionato nel secondo e portato alle estreme conseguenze (una parola molto importante all’interno del mondo degli assassini) nel terzo. Una direzione artistica, teorica, produttiva, poetica e politica che è compresa nella sua interezza proprio nel significato stesso di “karma”, tradizionalmente (ergo orientalmente) inteso come “evento rituale”, mentre occidentalmente è traducibile col termine e il concetto di “azione”.
È allora nell’ambiguità di una parola, poi nel segno dell’incrocio, della congiunzione e della sintesi di due modi e mondi cinematografici, ed infine nella simbiosi osservante ed ipercinetica di quei due significati (un’azione che diventa anche confessione liturgica, mistica, ascetica), che ha origine tutto ciò che è John Wick.
Vale a dire una serie dall’imprevedibile (e forse, in parte, inconsapevole) impianto teorico ed autoriflessivo, in quanto celebrazione dell’atto e movimento cinematografici puri, primitivi, incondizionati, praticati quasi come un calvario necessario, meticoloso, ridondante ed estenuante che riporta alle origini del mezzo e del linguaggio quale illusione della vita (e, va da sé, della morte), eppure eccitanti in termini spettacolari.
In altre parole, l’eccellente dimostrazione della forma che diventa contenuto; del modo, di quel “modo” a cui uno dei personaggi di questo quarto capitolo fa riferimento, che diventa importantissimo e vitale, combina la filosofia orientale con i rudimenti keatoniani (di quel Buster Keaton più volte citato nelle due pellicole precedenti) del cinema nordamericano, e surclassa infine il cosa.
Se poi quella forma-contenuto non vi (e ci) soddisfa pienamente o, peggio, non è poi granché, né all’altezza degli standard a cui ci si è ormai abituati, è un altro conto. Ed è ahinoi proprio quest’ultimo il caso di John Wick 4, il quale, appunto nel fare ogni cosa secondo quel fondamento e quel principio da cui è nato tutto, porta ancor di più (di Parabellum) alle estreme conseguenze lo stile di Stahelski, che è in fondo lo stile della serie, tanto da porlo innanzitutto alla berlina di facili (e, per certi versi, pure giusti) attacchi alla proverbialità, alla pretestuosità e alla definitiva estenuazione, e successivamente smascherarne, in maniera decisiva, definitiva, irreparabile, la finzione e la costruzione.
Ecco spiegato il perché della fotografia di Dan Laustsen, magniloquente, densa, artefatta, barocca, estetizzata fino alla pubblicità, di derivazione sfacciatamente deakinsiana (a volte sembra di star guardando dei outtakes di Blade Runner 2049), così come di scenografie che, pur recuperando e riproponendo le coordinate spaziali ed estetiche tipiche del franchise, non indugiano nel disvelamento della loro funzionalità, essenza e contingenza di palcoscenici, percorsi museali o spazi espositivi costruiti, immaginati e disposti ad hoc per rendere quanto più variegati, fluidi, inebrianti, entusiasmanti, articolati stunt, acrobazie e sequenze di lotta, le quali - coerentemente ad una serie che ha sempre professato “l’arte del dolore” e ha sempre previsto l’ambiente od oggetti artistici nelle sue composizioni - si riconfermano indefessamente alla stregua di happening od installazioni artistico-contemporanee sul dinamismo e l’ipercinesi.
Ciò detto, è quindi un controsenso il fatto che in una pellicola (e in un franchise) in cui il cosa è sempre contato così poco, si perda così tanto tempo a raccontare, narrare ed approfondire un contesto, con tutti i suoi oggetti, le sue diramazioni, le sue possibilità. Quel contesto che costituì dapprincipio la peculiarità originaria, convincente e performante del mondo di John Wick, e si è ora convertito in un elemento ingombrante per l’energia, la disinvoltura e le sorti dell’azione. Allo stesso modo, è incomprensibile, in secondo luogo, perché si indugi per così tanto (sin troppo) minutaggio - già di per sé eccessivamente generoso - su sequenze di dialogo che pagano il pegno di un serioso sentenzialismo e di un proverbialismo filosofeggiante che, nei film precedenti, erano utili ai fini di un’atmosfera tanto surreale da diventare iperreale, ma in questo caso diventano solo futile, ridicolo ed inutilmente enfatico vociare.
Responsabile primo di questo invalidante difetto, che finisce per fare di John Wick 4 il capitolo minore del mucchio, il cambio dietro il tavolo della sceneggiatura. Derek Kolstad, padre, autore del soggetto della serie e della sceneggiatura delle sue prime tre iterazioni, lascia infatti il posto, in maniera definitiva (dopo che lo avevano affiancato in Parabellum) a Shay Hatten e Michael Finch, i quali perseguono la caratterizzazione fumettistica, stilizzata, nonché orientaleggiante di situazioni e personaggi inaugurata in precedenza, tuttavia lo fanno non riuscendo a mantenere il baricentro e l’equilibrio del mondo, che non ritrova più la coerenza e la coesione affascinanti del passato (e la sotto-missione centrale a Berlino, per quanto espressivamente e graficamente forte, ne è un esempio). A sottolineare questa sensazione, ci pensa poi il montaggio di Nathan Orloff, che, pur chiudendo il film quasi allo scoccare delle tre ore, ad ogni cambio ambientazione pare manchevole di qualche minuto o scene aggiuntive che possano favorire per l’appunto tale passaggio.
Intonsa, seppur malauguratamente depotenziata, è invece la capacità inventiva di Stahelski & co. nel pensare, assemblare, mettere in scena ed eseguire una sequenza d’azione che, unita ad un delizioso ed inebriante citazionismo (che classe, l’omaggio, di nuovo dopo il secondo film, a I guerrieri della notte!), fanno di John Wick 4 non solo una sorta di compendio di nuove formule action, feticci, leitmotiv performativi e di assoluti marchi di fabbrica del franchise (ai quali, questa volta, si aggiunge la visuale isometrica di videoludica memoria), ma anche e soprattutto un ricettacolo dei vari modi di intendere l’azione nei decenni, in ambe le estremità del globo.
Identico rimane infine l’ultimo elemento da sempre fondamentale, anzi vitale per la serie, ossia i corpi, siano essi protagonisti, personaggi comprimari o di contorno, oppure ancora stuntman scagliati addosso al nostro eroe, per dar vita, raffigurare, dare concretezza e matericità all’inferno dantesco (di cui è citato il passaggio più noto nella prima sequenza, da parte dal Bowery King di Laurence Fishburne) del movimento cinematografico.
Ancor più che al solito, in questo quarto capitolo, l’inferno è proprio quello dello stesso John, o meglio, di colui che ne veste i panni, uno stanco, sciancato e monotono (nelle movenze e nelle tecniche di combattimento) Keanu Reeves, la cui iconicità ed efficacia schermica sono qui messe a repentaglio da Donnie Yen, marzialista cinese da tempo al soldo del cinema americano, impegnato in un tour de force esplosivo, avvincente ed altamente spettacolare.
John Wick 4 è allora anche e soprattutto uno incontro/scontro ideale (ed idealizzato a priori dalle premesse compositive della serie stessa, già approfondite sopra) tra due modi di intendere l’action e due diverse culture del corpo cinematografico e della sua arte del movimento, purtroppo saldato ed estinto da un finale fin troppo facile, poco ispirato e di debole impatto, soprattutto per quello che è chiamato a fare.
Che è chiudere il cerchio, ritrovare la pace (e quindi l’immobilità, la staticità), intonare il canto del cigno di un’icona che ha già trasceso i confini cinematografici di spazio e tempo ed è finalmente diventato il segno cinematografico puro, l'etereo fantasma della leggenda, quello che infesterà per sempre i pensieri e le visioni di chi tenterà anche solo di fare action dopo di lui. A suo rischio e pericolo.
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