TITOLO ORIGINALE: Bullet Train
USCITA ITALIA: 25 agosto 2022
USCITA USA: 5 agosto 2022
REGIA: David Leitch
SCENEGGIATURA: Zak Olkewicz
GENERE: azione, thriller
David Leitch, l'occhio da stuntman dietro John Wick, Atomica Bionda e Deadpool 2, torna dietro la macchina da presa con Bullet Train, adattamento del bizzarro e tarantiniano romanzo del giapponese Kōtarō Isaka. Nonostante una derivazione cinematografica che per alcuni potrebbe risultare addirittura intollerabile, un’azione non particolarmente entusiasmante, soprattutto in termini creativi, e ben lontana dai tour de force di Atomica Bionda e John Wick, ed una conclusione che stiracchia il racconto fino al punto di rottura, strafà e ammacca quasi tutto quello che, di convincente e solido, aveva costruito sino ad allora, Bullet Train è senz'altro una delle esperienze cinematografiche più godibili e appaganti del momento. Merito di un grande cast, di una scrittura convincente dei personaggi e di un ritmo sferzante.
Lo chiarisce bene la cover dei Bee Gees che apre il film (qualcuno ha detto Tony Manero?), quale sarà l’obiettivo finale di sette (o più) killer - così come quello di qualsiasi altro personaggio in un action movie - a bordo di uno Shinkansen che sfreccia a centinaia di chilometri di velocità tra Tokyo e Kyoto. Stayin’ Alive, stare in vita.
Ma farlo diventerà sempre più duro man mano che il viaggio si avvicina al capolinea in Bullet Train, il nuovo film di David Leitch (fu stuntman e stuntman coordinator, oggi uno dei nomi di punta del cinema d'azione contemporaneo, già regista di John Wick, Atomica Bionda, Deadpool 2 e Hobbs & Shaw), prodotto, tra gli altri, da Antoine Fuqua, adattamento de I sette killer dello Shinkansen di Kōtarō Isaka.
Un libro, quest'ultimo, di grandissimo intrattenimento, caratterizzato da una scrittura graffiante, da una costruzione millimetrica dell’intreccio e da una caratterizzazione irresistibile dei personaggi, che, già dalle prime pagine, dichiara i propri riferimenti, perlopiù cinematografici, in maniera inconfondibile. Il post-modernismo pulp, chiacchierone e digressivo di Quentin Tarantino e l’action svalvolato e delirante di Guy Ritchie sono infatti i numi che guidano ed organizzano un Kammerspiel narrativamente semplice ed essenziale, che permette all’autore di focalizzarsi su ciò che realmente gli importa, ovvero i personaggi, così macchiettistici da poter essere scambiati per sticker su di un foglietto, eppure così bizzarri ed eccentrici da costituire uno dei mosaici più divertenti che abbiano solcato le pagine del thriller moderno.
Tutto questo torna nell'adattamento scritto da Zak Olkewicz, sommariamente fedele al romanzo originale, ma dai risultati altalenanti nel momento in cui, quasi si lasciasse trasportare fin troppo dai propri personaggi, decide di fare di testa propria ed uscire dai binari.
Da un lato, infatti, è da applaudire l’opera di sintesi ed alleggerimento con cui si reimmagina e rende “più cinematografica” un’opera già incline di suo ad un futuro sul grande schermo, ma che, come ovvio che sia, risente - specie nelle sue fasi iniziali - dei tempi della letteratura. Un'opera di cui beneficia enormemente il prologo del film, capace di rendere fin da subito interessanti e scattanti le sue due principali “ragioni di vita”. Che sono, in primis, i personaggi, che la sceneggiatura introduce in maniera esemplare ed amplifica instancabilmente, minuto dopo minuto; e poi il ritmo, il quale, giocoforza con la scrittura del manipolo di assassini protagonisti ed un montaggio sferzante (anche se prolisso e fin troppo didascalico in alcuni punti), permette una delle esperienze cinematografiche più godibili e appaganti del momento.
Dall’altro lato, però, sarebbe sbagliato non riconoscere come la necessità tutta hollywoodiana della “resa dei conti”, unita alla connivenza di cui sopra, alla lunga deleteria, che l’impalcatura filmica sembra condividere con le sue pedine, faccia arenare la pellicola quasi disastrosamente sulle note finali. Arrivato al capolinea, Bullet Train stravolge invero l’epilogo pungente e coraggioso del racconto di Kōtarō Isaka, si stiracchia fino al punto di rottura, strafà e si converte praticamente la parodia di sé stesso. Anche se, lo riconosciamo, per una pellicola del genere - che professa, divertita ed irriverente, la decostruzione, psicanalisi ed educazione emotiva dello stereotipo del killer, con tutti i suoi tic e le sue paturnie, le sue ossessioni e morbosità - è quanto di più paradossale.
Ciò detto, a differenza di quanto scritto altrove, David Leitch sa ammaestrare e gestire, con grande fermezza e solidità, questo Le iene per la generazione Z; questa koiné Stati Uniti-Giappone; questa oculata ed "esteticissima" operazione di marketing (perché fa forza su uno dei registi attualmente più sdoganati e sull’incommensurabile Japan mania che sta travolgendo l’Occidente), facendo fruttare la lezione di Deadpool 2 e dello spin-off di Fast & Furious. Questo, oltre che in una comicità leggerissima, senza grandi pretese e con punte demenziali che assesta qualche buon fendente, lo si può rintracciare soprattutto nel lavoro sul corpo degli attori (e sul lato più action di alcuni insospettabili) e nel modo in cui questi riesce ad interfacciarsi con l’iconicità di star del calibro di Brad Pitt.
Dopo essersi fatto sostituire da lui nelle sequenze d’azione di Fight Club, The Mexican, Troy… e avergli offerto un piccolo cameo nel sequel delle avventure del supereroe più scorretto e sguaiato di tutti (ce la ricordiamo tutti la morte del mutante Vanisher, vero?), Brad Pitt torna a collaborare con il grande amico e collega David Leitch, divertendosi (e si vede!) nell’interpretazione dell’adorabile Ladybug, un John Weak, un killer a contratto di bassa lega, perseguitato (o graziato?) da una iella nerissima e da un destino avverso, col sogno di ritirarsi in un giardino zen, assoldato e convinto a sostituire e portare a termine il lavoro di un collega ammalato (una comparsata irresistibile) e ad imbarcarsi sullo Shinkansen per recuperare una valigetta piena zeppa di contanti, guidato e compatito da Maria, una corporea coscienza interiore/referente criminale. Quest’ultima è interpretata da una Sandra Bullock (non solo in voce) alle prese, così come qualcun altro di sua conoscenza, in una prosecuzione del suo ruolo ideologico e culturale in The Lost City - nel quale, tra l’altro, vi era proprio Pitt in una delle sue versioni più ridicole e spassose.
La valigetta che il nostro dovrà sottrarre appartiene ai Vincent e Jules de noantri, un duo di assassini fuori dal comune, i migliori della piazza, soprannominati come due frutti, da molti reputati fratelli gemelli, pur non somigliandosi per nulla. Stiamo parlando di Lemon e Tangerine, interpretati rispettivamente da un Brian Tyree Henry squisito e da un Aaron Taylor-Johnson elegantissimo, fisicamente già pronto per il film su Kraven, favoloso nei momenti di improvvisa follia e collera sconsiderata. La loro missione, al contrario, consiste nel riconsegnare vivo alla Morte Bianca (un Michael Shannon abbastanza svampito), boss Yakuza di origini russe, il figlio (Logan Lerman) vittima di un rapimento, insieme a quella famosa valigetta, contenente il denaro del riscatto.
Ad occupare gli ultimi posti disponibili, una Joey King che si sta riscoprendo pian piano quale volto action (vedi anche The Princess) e che - nonostante le inevitabili semplificazioni che distinguono il suo personaggio dalla controparte cartacea - fa il suo, rendendo bene l’idea di una ragazzina all’apparenza insospettabile e candida, eppure manipolatrice e spietata; un Andrew Koji e un Hiroyuki Sanada di buona presenza, entrambi delegati di conferire alla pellicola una legittimazione inevitabilmente di maniera contro le accuse di whitewashing, ed un Bad Bunny e Zazie Beetz di passaggio.
E con un cast del genere, non tanto roboante, imponente, anche disarmante, quanto piuttosto ben congegnato, singolare, insolito, guidato in maniera così aggraziata e scrupolosa, ci si può anche permettere di passare sopra ad una derivazione che per alcuni potrebbe essere addirittura intollerabile, ad un’azione non particolarmente entusiasmante, soprattutto in termini creativi, e ben lontana dai tour de force di Atomica Bionda e John Wick, così come ad una conclusione che, per l’appunto, ammacca tutto quello che, di convincente e solido, aveva costruito sino ad allora.
Insomma, dopo aver rivoluzionato il cinema action occidentale con innesti, standard, ispirazioni e tocchi provenienti dai film di arti marziali cinesi e giapponesi, David Leitch prende il treno e abbraccia direttamente il paese del Sol Levante, senza lasciarsi mancare o sfuggire nulla. O quasi.
Non sarà (né pretende di esserlo) il nuovo Kill Bill, il nuovo Pulp Fiction, nemmeno il nuovo Le iene, e non consacrerà certo David Leitch come successe invece all’impareggiabile e irripetibile Tarantino, ma Bullet Train è divertente e fresco quanto basta per valere i soldi del biglietto. E il tempo del viaggio.
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