TITOLO ORIGINALE: L'ultima notte di Amore
USCITA ITALIA: 9 marzo 2023
REGIA: Andrea Di Stefano
SCENEGGIATURA: Andrea Di Stefano
GENERE: thriller, noir
DURATA: 120 min
Presentato fuori concorso alla 73ª edizione del festival del cinema di Berlino
Voce aliena e atipica del cinema italiano, Andrea Di Stefano torna dietro la macchina da presa col suo terzo noir, uno "spaghetti noir" come lui stesso lo definisce, nel quale un Pierfrancesco Favino in un'altra grande prova interpreta un integerrimo ed onesto tenente dei Carabinieri mentre affronta la sua sanguinaria e tesissima ultima notte di servizio, prima della pensione. L'ultima notte di Amore non solo mantiene ogni promessa, ma addirittura le rilancia e pone sotto una lente diversa, inaspettata, con vesti sempre nuove e, soprattutto, assolutamente eleganti. Sì, perché non ci troviamo di fronte solo ad un bel, se non ottimo film, quanto piuttosto ad uno stimolante e sempre incalzante e funzionale (all’esperienza spettatoriale) tentativo di sintesi ed ibridazione di tradizioni, procedimenti e culture ed estetiche del racconto, tra la dilatazione leoniana, la tensione, il divertimento e la partecipazione di Hitchcock, e la Milano malavitosa, sanguinaria, messa a ferro e fuoco, protagonista dei poliziotteschi anni ‘60, ‘70 e ‘80. Il cinema italiano riparta da qui.
Il cinema italiano riparta da qui. Quante volte abbiamo detto, sentito o scritto queste esatte parole? Ahinoi, poche. O meglio, non tanto quanto avremmo realmente voluto. Anzi, più di frequente ci siamo ritrovati a dire il contrario, a specificare e spiegare perché la filiera nostrana avrebbe soltanto dovuto imparare dagli errori, dalle ingenuità o dalle fragorose cadute di questo o quell’altro film.
Ebbene, mai tale invocazione, più simile ad una preghiera, ad una disperata chiamata d’aiuto, è stata più giusta ed appropriata che nel caso de L’ultima notte di Amore, terzo lungometraggio scritto e diretto da Andrea Di Stefano, una firma atipica ed aliena (per i suoi esordi e la particolarità della sua carriera) del panorama nostrano.
Sì, perché non ci troviamo di fronte solo ad un bel, se non ottimo film, quanto piuttosto ad uno stimolante e sempre incalzante e funzionale (all’esperienza spettatoriale) tentativo di sintesi ed ibridazione di tradizioni, procedimenti e culture ed estetiche del racconto. Laddove infatti il film racconta una storia che abbiamo già visto tante volte, in innumerevoli modi e da altrettanti punti di vista - ossia l’ultimo incarico di un eroe comune, quasi banale, che si ritrova invischiato in una trama e in un vortice di eventi che sembrano insormontabili ed inestricabili -, dall’altro lato, lo fa utilizzando codici ed elementi di cui conosce approfonditamente ogni possibile itinerario, imprevisto, uso, sviluppo ed effetto spettacolare.
A partire dai titoli di testa: una lenta e graduale veduta aerea di Milano - dal centro storico col Duomo e quant’altro, alle massime estremità, alla periferia e ai sobborghi - nella quale Di Stefano, che definisce nostalgicamente questa pellicola come un primo esemplare di “spaghetti noir”, recupera una lezione cara proprio all’inventore degli “spaghetti western”, Sergio Leone.
In tal senso, senza avventurarsi in paragoni precoci e sperticati, lo shock (anche culturale, dato soprattutto dal leggendario tema d’invenzione e design di Morricone) che l’apertura di Per un pugno di dollari provocò sullo spettatore medio nel lontano 1964, o ancora quello, senz'altro più palese ed eclatante, dei primi venti minuti di C'era una volta il West, è più o meno, seppur in scala ridotta appunto, lo stesso tipo di disarmo che suscita vedere oggi, nell’epoca della frenesia, della velocità, di una frammentazione caotica dell’audiovisivo tutto, uno stile così anacronistico, eppure significativo ed efficacissimo, di sfumata, indolente, ma al contempo inquieta ed inquietante canalizzazione di un'atmosfera e costruzione di un preciso stile di racconto.
E, come riassunto dallo stesso Di Stefano in quella definizione, una linea ed una lezione leoniana viene mantenuta durante tutte e due le avvolgenti ore de L’ultima notte di Amore, specie nella gestione del tempo e in una sua insieme coraggiosa e pericolosa dilatazione.
Ciò nondimeno, un altro grande nume, nell’approccio al testo del cineasta capitolino, è indubbiamente l’imprescindibile Hitchcock. Di sua matrice e provenienza è il volutamente artificioso e magniloquente travelling che ci accompagna da quella inconsueta e meravigliosa vista di Milano, ergo dal generale, al particolare, alla piccola, grande storia di cui si sceglie di seguire il corso, con i suoi protagonisti ignari e predestinati, e i suoi dettagli nascosti in bella vista, che solo l’istanza narrante conosce e di cui solo lei ha la facoltà e il privilegio di mostrarci la vera faccia.
Sua (di Hitchcock) è inoltre tutta la deriva kammerspiel, la scelta di mantenere intatte le tre unità aristoteliche e di concentrare tutta la tensione su un nervoso e sottilissimo gioco di sguardi attorno ad una scena del crimine, che l’intreccio de L’ultima notte di Amore intraprende nel suo secondo atto.
Sempre hitchcockiano è infine il sano ed appassionato divertimento con cui Di Stefano espone e fa funzionare il proprio, millimetrico e fluidissimo meccanismo thriller, al pari proprio di un gioco, di un sofisticatissimo divertissement, capace poi di rendere parimenti avvincente la fruizione dello spettatore e spontanea la predisposizione di quest'ultimo ad assistere e a credere indefessamente a ciò che gli si sta raccontando.
L’altra grande fonte d’ispirazione della pellicola è, al contrario, relativa al territorio narrativo; è di tipo culturale, prettamente geografico e geolocalizzato, ed appartiene proprio alla sua prima, autentica e già ampiamente citata protagonista: la città di Milano.
Una Milano che potrebbe apparire inedita ed originale ad un pubblico più acerbo e a digiuno di cinema italiano, e che non si vedeva da anni, forse decenni sul grande schermo. La Milano così come descritta, scomposta e setacciata millimetro per millimetro nei gialli di Giorgio Scerbanenco, che scriveva: “Così era dolce dormire in quell'alba di febbraio, nella dolce grande città di Milano. E continuare a dormire, insieme, anche con la nuca forata dai proiettili”.
La Milano malavitosa, sanguinaria, messa a ferro e fuoco, vista, e di cui quasi si riuscivano e riescono tuttora ad intuire gli odori, l’aria viziata, l’afa opprimente d’estate o il gelo spietato ed inclemente d’inverno, nei poliziotteschi anni ‘60, ‘70 e ‘80 di Carlo Lizzani, Umberto Lenzi, Fernando Di Leo e pure Marco Bellocchio - che rivisitò il genere in un’ottica più autoriale e di impegno socio-politico. Quella di Milano calibro 9, La mala ordina, Svegliati e uccidi, Banditi a Milano e Il giustiziere sfida la città, che di giorno si propone come centro e metropoli più avanzata dello Stivale, mentre di notte diventa teatro di violente e crudissime lotte, a suon di proiettili ed esplosioni, di un sottobosco criminale insonne, iperreale, languido, imperscrutabile.
Ecco, quella de L’ultima notte di Amore, visualizzata tra gli altri da un bravissimo Guido Michelotti, è un po’ questa Milano: impudente, implacabile, soffocante, attenta e vigile, limitata ad una tavolozza di tre colori, ossia il giallo dei lampioni e dei neon, il blu delle sirene e il nero impenetrabile, labirintico, pericoloso della notte.
Tonalità, queste ultime, che Di Stefano trae naturalmente dalla scrittura di un film che adotta questi tre (o qualcuno in più) padri spirituali, questi tre numi tutelari, e li adatta ad una tecnica moderna e tipicamente statunitense di storytelling (ecco perché "spaghetti noir"). Li combina in modo non solo estremamente solido e consapevole, ma anche imprevedibile ed insospettabile, portando l’intreccio sempre in luoghi e tracciati che esulano dalle probabilità più classiche e proverbiali a propria disposizione, dagli strumenti più facili e confortevoli, dalle scelte che, ahinoi, prenderebbe pressoché la maggior parte dei registi italiani alle prese con l’azione. Quell'azione che oggi, malauguratamente, non siamo quasi mai in grado di portare avanti senza intoppi o ambizioni smodate che finiscono tuttavia per tradire le impossibilità - in termini materiali, pecuniari e di tradizione produttiva - di essere allo stesso livello di chi, sull'action, ha costruito un mito ed un impero.
Ebbene, dimostrando allora grande intuito, intelligenza e, per l’appunto, coscienza storica della storia del cinema italiano, Di Stefano sceglie, come già anticipato sopra, la via inversa e fa azione, thrilling, cinema di altissima tensione non con la frenesia e l’ipertrofia, bensì rallentando e dilatando il tutto, orchestrando magistralmente e dettando il ritmo e i ritmi interni di un macro-segmento produttivamente complesso (sia per numero di comparse, elementi profilmici, sia per la scelta della pellicola e dunque di una praticità e concretezza spiccate), focalizzandosi così su alcuni fattori certi, saldi, netti, come possono essere un dettaglio, un particolare, la scelta di un’inquadratura specifica, la colonna sonora - a metà tra Morricone e i Goblin - di Santi Pulvirenti. Tutti ingredienti, questi ultimi, che prescindono da un’invidiabile conoscenza delle proprietà intrinseche del linguaggio e del mezzo cinematografico.
Per non parlare poi di una mirabile padronanza e dimestichezza con quella che è la realtà delle forze di polizia e la più che probabile faccia di uno dei tanti clan (quello cinese) che fanno parte dell’odierna malavita milanese, la quale è invece il risultato di mesi e mesi di preparazione e studio di ciò che si sarebbe voluto e andato a raccontare. Un approccio in tutto e per tutto documentaristico, tra incontri ed interviste a poliziotti veri ed un’analisi abbastanza ravvicinata degli ambienti meno raccomandabili e legali.
E poi, ovviamente, gli attori, che Di Stefano, da ex interprete che è, sa come gestire e far esprimere al meglio. Ciò nondimeno, il suo principale merito consiste più che altro nell’aver compreso una cosa che molti altri suoi colleghi non hanno fatto negli anni, ed essere, di conseguenza, riuscito a contenerlo o comunque ad imbrigliarlo ai fini del successo e dell’esito della propria visione.
Il riferimento è, abbastanza prevedibilmente, al geocentrismo, alla tendenza solipsistica di Pierfrancesco Favino, della sua travolgente presenza scenica e del suo più e più volte comprovato talento. Un’inclinazione sana ma altrettanto pericolosa, capace di ribaltare le sorti di qualsiasi film, nel bene (ossia se sfruttata a dovere e mai assecondata fino in fondo) e nel male (laddove invece la si scelga come principale, quando non unica peculiarità espressiva del proprio racconto).
Nel caso de L’ultima notte di Amore, malgrado Favino si dedichi anima e corpo ad un’altra grandissima prova, misuratissima, sempre al servizio del testo, ovviamente mimetica e camaleontica (anche nell’uso della voce, della cadenza, del dialetto), ma qui anche più intima ed affascinante del solito; a brillare sono anche comprimari e secondari, partendo da una fenomenale ed irresistibile Linda Caridi, passando per un precisissimo ed ottimo Antonio Gerardi, fino ad arrivare ad un intenso e credibilissimo Francesco Di Leva.
D’altronde, cosa aspettarsi dopo quegli eccezionali titoli di testa, se non un grandissimo film, o meglio, proprio questo film? Uno che, per una volta, non soltanto mantiene ogni promessa, ma addirittura le rilancia e pone sotto una lente diversa, inaspettata, con vesti sempre nuove e, soprattutto, assolutamente eleganti.
Eleganti com’è la consapevolezza delle atmosfere, delle armonie, dei battiti, delle diramazioni del cinema di genere e, in particolar modo, della sua nobiltà ed intelligenza, che il cineasta capitolino dimostra e da cui trae profitto. Com’è la scrittura dei personaggi, che non rinunciano mai alla loro vicinanza umana e morale con lo spettatore per diventare qualcos’altro, qualcosa di intoccabile ed intransigibilmente eroico. Com’è il nero, che immerge tutti nello stesso, oscuro mare di possibilità ed incertezza. Com’è il capoluogo lombardo, che, come scriveva Laura Grimaldi, “si presta al giallo, ma a un giallo che sta tra le mura delle case. [...] I veri gialli italiani si possono svolgere solo tra le pareti casalinghe, non sono i gialli metropolitani all'americana”, e, avendo bene in mente la risoluzione del racconto, non aveva poi torto, anzi.
Come elegante, raffinato, indelebile, inquietante, è il modo in cui il cineasta capitolino decide di suggellare i 35 anni di “onorata carriera come servitore dello Stato” del tenente Franco Amore, e reclamare così - con un’ombra quasi incorporea ed eterea che spunta da un angolo buio di Piazza del Duomo; con una Milano che si manifesta in suddetta forma per presentare finalmente il proprio conto - la sua ultima notte.
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