TITOLO ORIGINALE: Il primo giorno della mia vita
USCITA ITALIA: 26 gennaio 2023
REGIA: Paolo Genovese
SCENEGGIATURA: Paolo Genovese, Paolo Costella, Rolando Ravello, Isabella Aguilar
GENERE: drammatico
DURATA: 121 min
Terzo inserto di una trilogia spirituale che comprende Perfetti sconosciuti e The Place, Il primo giorno della mia vita di Paolo Genovese racconta la storia di quattro anime che, per tutta una serie di motivi, scelgono di farla finita e vengono accolti da un uomo misterioso, ma paterno. Purtroppo, non bastano un ensemble blasonato di interpreti, né un uso interessante (ma puramente concettuale) del segno fantastico, né tantomeno una cura stilistica ed estetica mirabile per appianare gli evidenti difetti di scrittura, composizione, emozione e caratterizzazione di un'opera che più tenta di affascinare, sedurre, emozionare, fare poesia sull’inevitabilità della vita e della morte, più presta il fianco ad un’idea esaurita e raffreddata di cinema esistenziale ed esistenzialista.
Di giorni, non ne è pieno solo il calendario, ma a quanto pare anche il cinema italiano. I giorni sono quasi un luogo comune, oggetto di un’inspiegabile ed immarcescibile ossessione per i titoli di molte delle produzioni nostrane. Il giorno in più, Lasciarsi un giorno a Roma, addirittura tre giorni più belli (Il giorno + bello, Il giorno più bello del mondo, Il giorno più bello), fino ad arrivare ai più recenti Il grande giorno e I migliori giorni. E cosa hanno in comune tra di loro tutti questi film? Esatto, sono tutti - bene o male - di genere comico o dramedy.
Ebbene, ad alterare questa formula, ci pensa, come da copione, Paolo Genovese, che, per il suo giorno, sceglie viceversa la via del dramma più puro, fosco, buio, appannato, piovigginoso. Il risultato è Il primo giorno della mia vita, adattamento per il grande schermo del secondo dei suoi tre romanzi finora pubblicati. Non fraintendete: questo non significa che la sceneggiatura dello stesso Genovese e dei sodali Costella, Ravello ed Aguilar sia del tutto priva di un barlume o quantomeno di un tentativo di leggerezza, ilarità e dissacrazione. Ciò nonostante, anch’essa è passata al vaglio di questo obiettivo oscurato, di questo filtro nero pece, di questa cupezza umidiccia, della quale il cineasta, a sua volta, vuole servirsi per rendere questo suo giorno, appunto, il primo, il più memorabile di questa “settimana” di cinema.
Ed è, non a caso, proprio lungo il corso di una settimana che si svolge Il primo giorno della mia vita, che racconta la storia di quattro anime la cui esistenza, per una ragione o per un’altra, è diventata un vero e proprio buco nero, un labirinto da cui non riescono ad uscire, una domanda a cui non riescono trovare risposta, un malessere per cui non esiste apparentemente alcuna cura, un vuoto che non riescono a colmare.
C’è Napoleone, il più nero (letteralmente), austero, scettico e cinico del quartetto; uno di quei motivatori che tengono lunghi monologhi e discorsi, spesso pieni zeppi di frasi retoriche e abbastanza proverbiali, e vorrebbero così aiutare le persone a vedere le proprie vite da un’altra prospettiva; il quale tuttavia non riesce più a trovare lui stesso un motivo per andare avanti. C’è Arianna, poliziotta educata e dai modi gentili, e madre single, segnata indelebilmente dalla morte inspiegabile, eppure tremendamente naturale della figlia. C’è Emilia, ex-campionessa olimpionica di ginnastica artistica, eterna seconda, caduta in depressione e arresasi alla vita dopo un incidente in diretta mondiale. Ed infine c’è Daniele, un adolescente reso famoso da un video finito online e oggi popolarissimo, eppure solo idolo del web, costretto ogni giorno ad ingurgitare chili e chili di cibo riprendendosi più per necessità (finanziaria dei propri genitori), che non per reale scelta.
Quattro anime che, per tutti questi motivi, decidono di farla finita una volta per tutte. Eppure, compiuto l’estremo gesto, essi vengono sistemati in un hotel-limbo, (r)accolti e presi sotto l’ala protettrice di un uomo misterioso, dall’aura e presenza paterna, comprensiva e confortante, che sembrerebbe avere qualità magiche ed essere qualcosa di più di ciò che dice di essere. Sarà proprio lui che, nel giro di una settimana e in una condizione di transitoria e conveniente trasparenza, tenterà di convincerli in vari modi a tornare indietro sui propri passi, ad avere nostalgia della loro esistenza, dei suoi lati positivi, così come di quelli negativi, permettendogli soprattutto di ragionare ed infine scegliere quello che realmente vogliono.
È la scelta allora il perno attorno a cui ruota tutto il racconto de Il primo giorno della mia vita e che, in un certo senso, lega le pellicole di Genovese facenti parte di quella che potremmo quasi definire una trilogia. La scelta di rimanere nella mediocrità della bugia, del silenzio, dell’ipocrisia, nel finale di Perfetti sconosciuti - l’unico vero grande fenomeno dell’ultimo decennio di cinema italiano, un film che ci ha permesso davvero di riassaporare i gloriosi fasti e il respiro che vantava un tempo la nostra industria. La scelta di accettare il compromesso, il pegno, il baratto esistenziale, il costo del desiderio che proponeva l’uomo misterioso ai suoi confessati e richiedenti in The Place. Ed infine la scelta che sancisce di fatto l’inizio di una nuova vita, prima e dopo la morte comunque in quest'ultimo film.
Una trilogia, quella che accorpa questi tre testi, contraddistinta inoltre da un uso progressivamente più marcato di un elemento fantastico, così come di un soggetto cosiddetto high(-concept).
Se allora, in Perfetti sconosciuti, il fantastico era soltanto il mezzo più facile per tracciare una conclusione morale delle vicende del gruppo di amici, e, in The Place, si tentava di inseguire la via di un realismo magico con aloni quasi gaimaniani, ecco che Il primo giorno della mia vita (che condivide più similitudini ed elementi coincidenti con quest’ultimo che col primo, a partire dall’evidente continuità ravvisabile tanto nel personaggio di Mastandrea in The Place, quanto in quello di Toni Servillo qui - gioco e parallelismo ben più che suggeriti dalla sceneggiatura e dalla scrittura dei singoli personaggi) asseconda totalmente il richiamo del fantasy, pur limitandosi ad un’utilità sempre, indefessamente, maggiormente concettuale, più che (in aggiunta) visiva, spettacolare, concreta ed effettistica. (Il massimo a cui si può ambire è una timida ed infantile levitazione.) Ma d’altronde non c’è da stupirsi: parliamo di un limite perfettamente insito e congenito alla produzione italiana attuale, ammorbata da un apparentemente indelebile processo di sottovalutazione della valenza anche scenografica, fantasmagorica e vistosa del fare cinema.
Quel che, al di là di questo, proprio non convince de Il primo giorno della mia vita e sacrifica quest’ultimo ad essere né più né meno che il fratello minore de(lle idee, del successo, delle strutture)i suoi due predecessori - laddove formalmente e stilisticamente è forse il più curato -, è proprio la scrittura dei personaggi e dell’intreccio, lo sviluppo di suddetti concetti, i diversi modi, le molte parole e le svariate frasi con cui si arriva ad una sorta di morale finale.
Tralasciando infatti gli evidenti problemi formali che questo film riprende dal già citato The Place: come l’idea che tutto più che rispondere, sembri riecheggiare ed indicare la presenza di un piano, di una formula aritmetica, di un sistema alle sue spalle (che è ontologico ad ogni racconto, ma abilmente celato), oppure ancora la sensazione che Genovese si accontenti e si accomodi fin troppo sulle regole e sugli assiomi del proprio mondo, dimenticando tuttavia di riempirlo veramente, l’impressione, dunque, che il racconto giri un po’ su stesso, senza andare davvero e di preciso da alcuna parte; riteniamo di per sé inaccettabile la composizione effettiva delle battute, la loro banalità e proverbialità contenutistica, il loro carattere aforistico, ma anche la loro collocazione drammaturgica e, in particolar modo, la loro esecuzione.
Se è vero quindi che è matematicamente impossibile, per attori di grande calibro come Toni Servillo, Margherita Buy e Valerio Mastandrea (a cui si affiancano una Sara Serraiocco forse pure più brava di tutti loro e la rivelazione Gabriele Cristini), e che alcune sequenze si possano dire in fondo riuscite o, addirittura, più che riuscite (la spaghettata in riva al mare, il momento in macchina tra l’uomo ed Arianna); Il primo giorno della mia vita offre ciononostante un pugno di momenti che francamente avrebbero avuto bisogno di qualche altro ciak aggiuntivo, come, ad esempio, l’interazione tra Napoleone ed Emilia nella loro bagarre a metà percorso.
Tutto questo concorre a tarpare le ali di una pellicola che, quando vorrebbe dar luogo ad una catarsi, si scontra con la freddezza di una forma rigida ed eccessiva, con una scrittura troppo composta, ricamata ed esibita, e con una caratterizzazione superficiale, quando non faziosa e stereotipata dei personaggi (dannosamente insopportabili, in tal senso, i genitori di Daniele). Di un dramma che, nel momento in cui, per contro, tenta di elevarsi, darsi un tono ed una profondità, pronunciare verità, sublimare il proprio racconto, se ne esce fuori con le stesse massime di vita rituali e retoriche che mette in bocca a quegli stessi guru che sbugiarda e di cui smaschera sommessamente le ipocrisie.
Se a questo uniamo, in ultima istanza, un sonoro del parlato che non sembra funziona a dovere, una sequenza (con tanto di mise en abyme) stucchevolmente e autoreferenzialmente ruffiana ambientata in un cinema - segmento, in cui, tra l’altro, vengono proiettate quelle che parrebbero essere stock-images - ed un black humor non sempre ben congegnato e brillante, ecco che otteniamo agilmente la ricetta di un film che più tenta di affascinare, sedurre, emozionare, fare poesia sull’inevitabilità della vita e della morte, più presta il fianco a tutti i suoi evidenti limiti e ad un’idea esaurita e raffreddata di cinema esistenziale ed esistenzialista, ancor prima che di (assente) denuncia sociale.
La ricetta (in)fallibile di un film che perlomeno riesce nell’intento di instillare e suscitare una riflessione intima e privata nello spettatore (tale da permettere a quest’ultimo di comporsi un proprio film parallelo, contemporaneo e decisamente più stimolante), ma che pare più il pretesto per far sfilare belle e grandi facce (anche Vittoria Puccini, Elena Lietti, Giorgio Tirabassi, Alessandro Tiberi e Lino Guanciale fanno parte di questo cast corale) sulle note di belle e grandi canzoni, ormai cinematograficamente sdoganate e deturpate (L-o-v-e di Nat King Cole, The End of the World di Skeeter Davis, Se mi lasci non vale di Julio Iglesias, Experience di Ludovico Einaudi, ouch).
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