TITOLO ORIGINALE: I Wanna Dance with Somebody
USCITA ITALIA: 22 dicembre 2022
USCITA USA: 23 dicembre 2022
REGIA: Kasi Lemmons
SCENEGGIATURA: Anthony McCarten
GENERE: biografico, drammatico, musicale
DURATA: 146 min
Lo sceneggiatore di Bohemian Rhapsody Anthony McCarten tenta di replicarne il successo con Whitney - Una voce diventata leggenda, il racconto della vita e della musica di Whitney Houston, una delle personalità più influenti ed importanti della scena musicale internazionale. Un medley di vita e di memorie che "parla d’amore, di quanto lo cerchiamo e di cosa siamo disposti a fare per difenderlo". Purtroppo, l'ambizione non è ripaga, la magia latita e poche cose funzionano realmente in questo biopic scialbo, basico e preconfezionato nel quale un'afasica Naomi Ackie tenta, a tutti i costi, di convincerci di essere “Whitney Elizabeth Houston”. In questa riduzione audiovisiva, priva di (vera) enfasi, (vere) emozioni e personalità, della pagina Wikipedia a lei dedicata.
Si apre e si chiude come Bohemian Rhapsody, Whitney - Una voce diventata leggenda di Kasi Lemmons, e non c'è da sorprendersi, dal momento che questo nuovo biopic Sony che ripercorre la vita e i grandi successi di una delle artiste, cantanti e cantautrici più talentuose ed influenti della storia del pop è scritto e co-prodotto nientemeno che da Anthony McCarten, già autore della sceneggiatura di quella travagliatissima, ma fortunatissima (in termini di successo commerciale, culturale e di premi) pellicola di Bryan Singer.
Come quest’ultima infatti, il film di Lemmons sceglie di accogliere e salutare il pubblico con il momento più glorioso, il picco più elevato, il lampo di massimo splendore e potenza espressiva della cantante, nonché l’esibizione subito precedente al suo lento, ma rovinoso declino nel turbine della droga. Stiamo parlando invero del difficilissimo medley di tre brani (I Loves You, Porgy / And I Am Telling You I'm Not Going / I Have Nothing) che Houston eseguì il 7 febbraio 1994 in occasione della 21ª edizione degli American Music Awards.
Un episodio, quest’ultimo, che ci viene solo suggerito, fatto assaporare nei primi attimi della pellicola, fungendo di fatto a mò di promessa, di dichiarazione, di proemio, rispetto a ciò che andremo a scoprire e vedere nelle seguenti due ore, le quali saranno, a loro volta, un medley (di vita, di memorie) che parlerà “d’amore, di quanto lo cerchiamo e di cosa siamo disposti a fare per difenderlo”. Un amore per la musica in tutte le sue forme, per grandi canzoni che rappresentino sempre una sfida per l’estensione e le capacità canore dell’artista, per il talento che le è stato concesso. Un amore ed un dono forse troppo grandi da convertirsi praticamente in una maledizione, specie quando, distrutta dalla pressione di essere sempre tutto per tutti (o, più trucemente, dall'assuefazione e dalla tossicodipendenza), la sua voce non rispetterà più gli standard a cui, da decenni, aveva abituato il suo pubblico.
Una voce, o meglio, “la voce”, come ci ricorda uno degli immancabili e didascalici cartelli prima dei titoli di coda, che la renderanno unica, ma anche irrimediabilmente sola, profondamente bisognosa e desiderosa di “ballare con qualcuno”.
È d’altronde proprio questo il titolo di una delle sue canzoni più note e amate e - perlomeno in originale - di questo racconto con cui si è tentato e si tenta disperatamente di dar vita ad un altro Bohemian Rhapsody, ergo ad un altro grande successo commerciale, in grado inoltre di fare incetta di premi nella corrente stagione dei premi. Un esito ambizioso, ma tutto fuorché inappropriato per una figura, quella di Whitney Houston, che, oltre ad aver avuto un rapporto stretto col cinema, si presta moltissimo ad essere riscoperta sul grande schermo, sia per le sue vicissitudini biografiche, sia per ciò che ha rappresentato e continua a rappresentare in accordo con le tendenze e gli orientamenti attuali della macchina hollywoodiana.
Tutto questo semplicemente per dire che è abbastanza facile scorgere e comprendere i motivi per cui si sia deciso di ordinare un simile progetto. Meno evidenti ed encomiabili sono, al contrario, le ragioni per cui tutto risulti poi esser stato portato a casa col minor impegno e passione possibili. Le stesse ragioni per cui Whitney probabilmente non raggiungerà l’esito preventivato, ma anzi verrà più che altro ricordato come un biopic scialbo, basico e preconfezionato con un’attrice che tenta, a tutti i costi, di convincerci di essere “Whitney Elizabeth Houston”, come le piace più volte pronunciare.
Naomi Ackie (che molti ricorderanno per il ruolo comprimario di Jannah in Star Wars: L'ascesa di Skywalker) è infatti, se non proprio il peccato originale, comunque il difetto più grosso ed evidente del film. E non esclusivamente per doti espressive davvero inesistenti od un catalogo interpretativo ai minimi storici - cosa che porta irreparabilmente alla rottura dell’illusione (specie durante le sequenze di canto, dove, malgrado tutto, è evidentissimo il ricorso al playback) -, ma anche e soprattutto per il modo in cui Lemmons la dirige e tenta di sostituirla ed inserirla filologicamente nelle immagini, nell’immaginario e nei ricordi che tutti noi abbiamo di Whitney Houston, a partire da un invecchiamento inesistente (che sia il 1984 o il 2012 la Ackie non cambia quasi per niente), passando per l’uso scolastico di materiali d’archivio, fino alla più totale incapacità nel canalizzare, riproporre, ricreare o anche solo suggerire un briciolo del vigore e del potere iconico dell’artista.
In questo caso, la principale responsabilità è tuttavia da ritrovare, per gran parte, nella sceneggiatura del già citato McCarten, la cui concezione compositiva ed approccio nei confronti della biografia, oltre che della statura artistico-musicale di Houston, sembra limitarsi ad un mero resoconto di date ed eventi, all’incirca ad una riduzione audiovisiva della pagina Wikipedia a lei dedicata. Ci si limita dunque ad un semplice e proverbiale chiaroscuro, alla banale correlazione e allo stantio dualismo fama-eccessi, senza approfondire nulla in particolare, trovare un senso più profondo, tracciare un sottotesto oltre una rappresentazione patinata, scavare a fondo nella sua personalità o nella sua costruzione divistica, eccezion fatta per un’essenziale, al limite del compilativo, discorso sull’etero-normalizzazione che Whitney-star subì, in particolar modo dal padre.
Per scriverla con altre parole, il copione di Whitney rifugge quelle che, ad oggi, sono due delle possibili vie da seguire, dei possibili stati dell’arte del filone biopic musicale; due dei suoi esponenti più interessanti e fulgidi, ovvero Rocketman di Dexter Fletcher, con la sua esuberanza e rilettura musical, ed Elvis di Baz Luhrmann, che, dal canto suo, parte dal racconto di vita, morte e miracoli del Re del Rock per dare il là ad una rivisitazione di Faust e ad una pellicola sull’artificio dello spettacolo, su un'illusione che diventa una prigione d’oro che toglie aria, respiro, vigore, su una dipendenza che non può che risolversi in una morte precoce.
A questo, bisogna poi aggiungere la banalità e sciatteria con cui Kasi Lemmons - totalmente sprovvista dell’adeguata costituzione e consapevolezza registica per il ruolo che deve ricoprire - mette in scena e traspone questo concentrato di approssimazione, questo tributo lezioso, patetico, idealmente abbagliante, ma in fondo votato al risparmio (complice un budget ristretto, mai dissimulato od intelligentemente celato, anzi messo inconsapevolmente in mostra con inquadrature sul rado pubblico ai concerti o con establishing shots riprovevoli e posticci). La regia di Whitney non conosce invero il significato dell’intensità drammaturgica, del cosiddetto momentum e, di concerto con la sceneggiatura, tratta tutto in egual maniera, conferendogli lo stesso valore, la stessa gravità, la medesima attenzione.
Il risultato finale consiste in due ore e venti indolenti, monocorde, invariate e ridondanti, a loro volte funestate da un montaggio eccessivamente ellittico e da una serie di tagli originariamente volti a rendere il tutto più fluido, che ciononostante finiscono per ottenere solo l’effetto contrario; in cui, a forza di fornire allo spettatore le cause, le prove, gli elementi che possano portarlo a riconoscere l’eccezionalità, la grandezza, la bontà e la bravura artistica, nonché le difficoltà esistenziali (in primis, come donna in una società fallocentrica) di Houston, riesce nell’arduo compito di renderla inavvertitamente quanto più antipatica e fastidiosa.
Pur con tutti i suoi difetti e i suoi incidenti di percorso, Bohemian Rhapsody era davvero tutt’altra storia; un film che, quantomeno, un minimo di passione e di piacere per le vicende e i personaggi che portava in scena, ed una cura per le interpretazioni li aveva e li dimostrava con cognizione di causa ed una resa sommariamente coinvolgente.
Al contrario, a salvarsi, in questo film semplicemente anacronistico, che, a momenti, pare uno sceneggiato televisivo di venti, venticinque anni fa, abulico e pigro, privo di personalità, uno in cui tutto, pure i sentimenti, sembra stato preso altrove o, ancora, sembra frutto di un’intelligenza artificiale; sono soltanto Stanley Tucci, impegnato nel ruolo di adorabile padre putativo, alias insostituibile manager di Whitney Clive Davis, e Nafessa Williams [che aveva già partecipato ad un altro film dedicato alla cantautrice, questo davvero per la TV, diretto da Angela Bassett] nei panni della migliore amica/ex amante Robyn Crawford, capace, pure con una sola smorfia, di mettere in ombra la Ackie - e questo la dice lunga sull’inadeguatezza di quest’ultima nel calzare simili scarpe.
Ed infine, ovviamente, ci sono le canzoni, le uniche in grado di restituirci l’idea di artista che il film tenta, in tutti i modi, di inculcarci, e di farci credere davvero che colei che dovrebbe essere raffigurata su schermo è stata e sempre sarà un’icona imprescindibile della musica tout-court; una personalità indelebile del ‘900; una donna che si meritava il più grande amore di tutti. Quello che Kasi Lemmons & co. non sono riusciti nemmeno ad immaginare.
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