TITOLO ORIGINALE: Corsage
USCITA ITALIA: 7 dicembre 2022
REGIA: Marie Kreutzer
SCENEGGIATURA: Marie Kreutzer
GENERE: biografico, storico
DURATA: 114 min
Presentato nella sezione Un Certain Regard del 75º Festival di Cannes
Ad un primo livello di lettura, Il corsetto dell'imperatrice, il film che l'austriaca Marie Kreutzer trae dalla biografia dell'imperatrice Sissi, non sembra altro che l'epigono della concezione più moderna del racconto biografico, che tratta la Storia, quindi un soggetto classico e tradizionale, attraverso un impianto filmico moderno, anarchico, anacronistico, sregolato, ucronico. Nel racconto frammentario di una donna che ha precorso il suo tempo e si è ribellata alle sovrastrutture della società e del mondo in cui ha vissuto, si cela però la figura di una donna che viene a contatto, analizza, riflette, conosce ed infine utilizza a proprio vantaggio il suo essere già icona, da cui prende il via un cortocircuito sull'immagine e il cinema a dir poco lucido e splendido.
Che cos’è o, meglio, che cosa racconta o, ancora meglio, di che parla realmente Il corsetto dell’imperatrice dell’austriaca Marie Kreutzer? Alcuni, forse molti di voi direbbero che è, in sostanza, la storia di Elisabetta Amalia Eugenia di Wittelsbach, nata duchessa in Baviera, passata alle cronache, alla storia, alla cultura di massa e, in particolar modo, al cinema col nome di Sissi, imperatrice d'Austria, regina apostolica d'Ungheria, regina di Boemia e di Croazia come consorte di Francesco Giuseppe d'Austria; solo rivisitata secondo le tendenze, i temi nevralgici, le direzioni, le inclinazioni, le correnti, il sentire dell’oggi.
Che è sostanzialmente un modo più complesso per definirla quale figlia, discendente diretta, epigona e, in qualche modo, summa di almeno altre tre più famose e più o meno recenti, specie per il modo in cui affronta e rappresenta il connubio donne-monarchia. Il riferimento è allora a Marie Antoinette di Sofia Coppola, a La favorita di Yorgos Lanthimos e al quasi coevo Spencer di Pablo Larraín.
Ciò che accomuna questi quattro lavori è infatti la trattazione della Storia, e quindi di un soggetto classico e tradizionale, attraverso un impianto concettuale e filmico, al contrario, moderno, anarchico, anacronistico, con spinte addirittura verso l’ucronia.
Come l’ultima regina di Francia dell'ancien régime, infatti, anche la Sissi di Marie Kreutzer, portata su schermo ed interpretata da Vicky “Il filo nascosto” Krieps, fa il dito medio, la linguaccia, è un po’ una rockstar ante-litteram: dalle rivisitazioni di brani brit-pop degli anni della rivoluzione sessuale, alla dipendenza da eroina che, seppur storicamente plausibile ed accerta, la regista riferisce iconograficamente alle decine di centinaia di “artisti maledetti”, la cui immagine dissoluta e tossicomane, con l’ascesa del rock in tutte le sue emanazioni e diramazioni, è stata di fatto sdoganata, fino ad arrivare all’immancabile ed irrefrenabili tendenze suicide.
De La favorita, Kreutzer riprende invece la morbosità dei rapporti, l’idea di una donna che trascende i confini di genere e che, dati la crisi e i complessi del maschio nel senso imperialista, misogino e prevaricatore del termine, diventa ancor più fallocratica, ma anche fluida, ambigua, padrona del proprio corpo e, con esso, dei propri istinti, del proprio piacere, della propria sessualità. Una donna che ciononostante è tutt’altro che perfetta ed immacolata: anzi si mostra con tutti i suoi problemi, le sue difficoltà, le proprie nevrosi, i suoi eccessi di infantilismo, la sua esuberanza e la sua sommaria antipatia.
Infine, dal cinema americano di Larraín - in tal senso, non è poi così casuale ed irragionevole affiancare al già citato Spencer anche il precedente Jackie, specie dal momento che, tolto il fatto che lei si diverta a chiamare il marito “FJ”, all’americana, un po’ come JFK, il quale farà, d’altronde, la stessa fine di quest’ultimo; nella Sissi di Krieps sembra riecheggiare pure qualcosa della Jacqueline di Natalie Portman - Il corsetto dell’imperatrice sottrae la parvenza fantasmatica, spettrale, gotica della sua protagonista, così come gotica, algida, pallida e smunta è la fotografia di Judith Kaufmann, laddove dismessa, polverosa, scrostata, sobria è invece la scenografia di Martin Reiter.
Oppure ancora l’idea di pressione ed oppressione della propria condizione esistenziale, di costrizione e obbligazione ad un ruolo imposto da qualcun’altro, dell’inevitabilità del suo essere donna in un mondo maschilista, patriarcale e fallocentrico. Un’idea, quest’ultima, fornita visivamente - solo depauperata, nel caso della Kreutzer, della predisposizione al genere, di un’estetica body horror, di un’inquietudine allofagica - tanto tramite oggetti di uso comune che imprigionano (la collana di perle in Spencer, il corsetto qui), quanto da quegli ambienti reali ed aristocratici, intesi socialmente ed architettonicamente, che prima definiscono, simboleggiano, legittimano, amplificano e poi annoiano, imprigionano, annichiliscono, sviliscono, debilitano, uccidono.
A tal proposito, la scena carrolliana simil Alice nel Paese delle Meraviglie di questo film vale, per suggestione ed imprevedibilità, tutto l’esercizio anacronistico della Coppola e, allo stesso modo, tutta la decostruzione e riflessione larrainiana di Lady D, le quali mancano entrambe proprio di quella compiutezza, di quell’approfondimento, di quella spinta verso un senso più profondo che rifugga il rischio di indolenza ed indulgenza del proprio testo, di quella ricerca di un senso e di un discorso più radicato e radicale, lucido, stimolante, autentico.
Il corsetto dell’imperatrice è allora, sì, il racconto di una figura femminile che precorre il suo tempo (in questo e per questo, possiamo rintracciare qui anche echi della trilogia di Susanna Nicchiarelli), evade e si ribella lentamente, progressivamente, da piccoli atti di pura e semplice disobbedienza, fino all’estremo, ucronico gesto; alle imposizioni, alle sovrastrutture, ai dettami matematici [notate bene quanto ci si fissa e si presta attenzione alle misure e ai numeri nei primi minuti] di un tempo, un mondo, una società.
Ma è anche e soprattutto, seppur sempre a partire e nel segno di codesta fuga insopprimibile e mortifera, un film su una donna che viene a contatto, analizza, riflette, conosce ed infine utilizza a proprio vantaggio il suo essere già icona. Il vero mistero del ritratto frammentato, frammentario, indiziario di Marie Kreutzer; l’enigma nascosto, come si dice ad un certo punto, fra le pagine dell’esistenza di una Sissi che è, al contempo, sé stessa e qualcun’altra - solo ed unico merito di una Vicky Krieps perfettamente ambigua, disallineata rispetto all'istanza narrante, eterea ed (in)visibile - è quindi il suo essere anacronisticamente [il film infatti è ambientato tutto nel 1878, quando ancora un capriccio di Muybridge, lontano da come lo vediamo qui] precorritrice, regista, inventrice e prima, vera teorica dell’arte delle immagini in movimento, meglio conosciuta come cinema.
Quest'ultimo, l’unica, possibile via di fuga da una costruzione iconografica falsa ed artificiosa, oggettiva ed oggettivata, fatta nient’altro che di copie senz’anima - un motivo, quest’ultimo, che viene presentato nei primi momenti, quando Sissi parla del ritratto irrealistico della primogenita, morta a due anni per una febbre fulminante, e protratto per tutta la durata del racconto - è quindi la scoperta di un nascondiglio eccellente, l’adattamento visuale, il potenziamento visivo e quindi credibile di quella stessa iconografia e di tutti i suoi lati più oscuri e disumani (e quindi della sua opera di annullamento), la riaffermazione di uno sguardo parziale e soggettivo (perché “nulla è oggettivo”), di quello sguardo, di quella indole, di quell’anima che l’arte figurativa classica o pittorico-derivata rendeva immobile, rigida, costretta e che il cinema permette finalmente di liberare, emancipare, rendere vera e viva.
Il cinema, per Marie Kreutzer, non solo è intrinsecamente ed inderogabilmente soggettivo, ma è anche un atto di ribellione. La ribellione, l’anticonformismo, l’opposizione, la sottrazione ultima di Sissi, che asseconda la sua immagine, esplora il concetto intrinsecamente visivo ed idealmente cinematografico del doppelgänger - il quale diventa, a sua volta, scacco masochistico a quella condizione di nullità ed inutilità del proprio ruolo istituzionale ed umano - ed infine compie la scelta più sovversiva di tutte, ossia nascondersi dietro l’immaginario e l’iconografia che altri hanno creato per lei.
Sceglie quindi l’oscurità, Sissi, il buio, le ombre del cinema, che ci costringono a guardare, ma al contempo proteggono lei e il suo mistero dall’essere realmente guardati. Un cortocircuito splendido, come splendido è appunto Il corsetto dell’imperatrice.
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