TITOLO ORIGINALE: Spencer
USCITA ITALIA: 2021
REGIA: Pablo Larraín
SCENEGGIATURA: Steven Knight
GENERE: drammatico, biografico
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Terzo approccio (dopo Neruda e Jackie) del regista cileno Pablo Larraín al biopic, Spencer adotta, reinterpreta e mette in scena uno dei periodi più bui della vita di Lady Diana per analizzarne la figura in un film atipico, libero e multiforme che, pur mostrando il fianco a qualche pigrizia di scrittura e ad una serie di ridondanze, offre una visione interessante e visivamente valida di una storia, per certi versi, celeberrima.
Così come Madres Paralelas, dove un Almodóvar in gran spolvero sfrutta la storia di due madri madrilene per condurre un discorso sul passato e sul presente e su come solo attraverso la loro riappacificazione, (ri)scoperta ed unione si possa determinare il futuro, anche Spencer di Pablo Larraín - che, oltre a segnare il ritorno dell’autore cileno sul red carpet veneziano un anno dopo Ema (il suo film precedente), costituisce il suo terzo approccio con il film biografico - incorpora tra le fila del suo racconto un discorso su un passato inaccessibile, un presente di privazione, vessazione ed angoscia ed un futuro impossibile.
Dopo essersi confrontato con il poeta e politico cileno Pablo Neruda in Neruda e con la vedova Kennedy in Jackie (che, tra i due, è il più simile a Spencer), il cineasta adotta, reinterpreta e mette in scena un particolare momento della vita di Lady Diana per analizzarne la figura in un biopic atipico, libero e multiforme (ma non certo perfetto), ambientato appunto nei tre giorni che la principessa passò insieme alla famiglia reale nella dimora di campagna di Sandringham House, nel Norfolk, durante le vacanze di Natale del 1991. Forse il periodo più oscuro della vita di Diana, allora in piena rotta di collisione con il principe Carlo (quest’ultimo già invaghitosi di Camilla), vista con disprezzo da quasi tutti i membri della famiglia, regina Elisabetta inclusa, e già ampiamente afflitta da numerosi e seri problemi fisici e psicologici (tra cui depressione e bulimia).
Larraín apre il film con quella che potrebbe sembrare una dichiarazione di intenti poetici o una chiarificazione di ciò a cui stiamo per assistere: Spencer è infatti “una favola tratta da una tragedia vera”. Al centro delle vicende troviamo pertanto una principessa rinchiusa - come tante altre prima di lei - in quello che sembrerebbe essere un palazzo dorato, immenso e sfarzoso.
A salvarla (e qui inizia a farsi avanti la tragedia), non vi sarà però un principe e, fin dai primi minuti, intendiamo che quella che potrebbe dar l’idea di essere una residenza da sogno, è in realtà una prigione da incubo, una casa austera e fredda popolata da presenze fantasmatiche (più o meno positive). Una casa delle bambole in cui questa principessa deve sottostare agli ordini che gli vengono impartiti da persone intoccabili e potenti che però vediamo di rado e sempre di sbieco. Una casa dai muri che vedono e ascoltano tutto (come ricordato dal cartello appeso nelle cucine “fate poco rumore, loro possono sentirvi”) dove questa viene ripetutamente ostacolata ed oppressa (specie a livello psicologico) da tradizioni centenarie, regole assurde ed usi e costumi vetusti. Un luogo inquietante e vitale pur nella sua parvenza mortifera e soffocante, in cui tutto - dalla scelta del vestiario al cibo, dalla routine giornaliera al modo di comportarsi - è sempre più complicato di quanto e come dovrebbe essere.
È quindi a partire da una scenografia vitale in termini semantici, pittorica esteticamente parlando ed affascinante dal punto di vista cinematografico, a sua volta malinconicamente fotografata da Claire Mathon, che Larraín costruisce Spencer, un racconto (firmato dalla penna di Steven Knight) che appunto si serve di uno dei più terribili momenti della vita della nostra Lady anche e soprattutto per favorire una commistione di atmosfere, echi e stilemi, finalizzata ad esprimere e mettere in luce l’idea (di estrazione quasi kubrickiana) dell’annientamento del singolo o, in questo caso, di una rappresentante del popolo come Diana (amata, aiutata e sostenuta, nel film, da una serie di esponenti del popolo) di fronte e per colpa delle istituzioni, dei potenti, dell’establishment o, più precisamente, di un’organizzazione secolare come la famiglia reale inglese.
Partendo dal dramma, sfociando poi nel thriller psicologico, nel body horror alla Swallow di Carlo Mirabella-Davis (che la pellicola ricorda nell’irrequieta ed apparente pacatezza), fino ad arrivare, esagerando, al torture porn, Pablo Larraín dà forma, mediante una regia composta, meticolosa, consapevole, funzionale nella scelta dei punti macchina e paradossalmente silenziosa (specie per un testo che tocca pure temi come l’autolesionismo); ad un film di spazi che vede proprio nello stretto legame tra esteriorità ed interiorità, tra scenografia e scrittura, uno dei principali mezzi di espressione ed indagine della condizione esistenziale di Lady Diana. Quest’ultima, disallineata, disorientata e disobbediente nei confronti di tutto ciò e (quasi) tutti coloro che la circondano (non a caso la prima battuta che pronuncia è “dove cazzo sono?”), tuttavia desiderosa di cose reali, vere e semplici e di quella stessa libertà di cui la regina, nel consueto discorso di Natale, ribadisce l’importanza.
Sandringham House e dintorni diventano quindi rappresentazioni di questo suo disagio crescente e della consapevolezza, più volte ribadita, che per lei non esiste alcun futuro. Il maniero di campagna diventa perciò la raffigurazione del presente di Diana, determinato da regole e dettami del passato che lo stesso maniero simboleggia ed incarna nella sua superficiale ed architettonica opulenza, mentre la casa lì vicino - che si scoprirà essere la vecchia dimora della sua famiglia e che, guarda caso, è difesa da un cancello con filo spinato (quasi a lasciar intendere che, per riprendersi il proprio passato, questa debba soffrire, sanguinare e prendere coraggio) - esprime, in tutto la sua putrefazione e decadenza (essa è la vera casa dei fantasmi del film), il vero passato di Diana. Quello che le è stato privato dalla casa reale e sulla cui riscoperta appunto dipende un futuro tutto da scrivere e da inventare.
Tuttavia, è purtroppo in una scrittura fin troppo agiografica proprio del personaggio di Lady D, nell’interpretazione che di quest’ultimo ne fa Kristen Stewart, così come negli espedienti utilizzati - in sede di sceneggiatura quanto di messa in scena - per convogliare quella stessa condizione esistenziale (e dunque il proprio nucleo narrativo principale) che Spencer mostra il fianco ad una serie di difetti. Se da un lato infatti abbiamo una prova attoriale (quella della Stewart) incostante, talora convincente, magnetica e peculiare, altre volte fin troppo forzata, rigida e perspicua (è d’obbligo citare anche la metrica e l’immedesimazione, non sempre persuasive), dall’altro invece troviamo un costante, poi ripetitivo e ridondante ricorso a parallelismi (Diana come un fagiano, una valuta, un cavallo imbizzarrito), simbiosi e fusioni (anche grafiche) con personaggi storici come Anna Bolena, simbolismi, astrazioni ed allegorie [la collana di perla regalatale da Carlo a memoria del giuramento che il popolo stipula con i reali, ovvio simbolo di sottomissione], a loro volta mai intellettualmente stimolanti e sempre e comunque asserviti ad un unico e solo fine argomentativo.
Malgrado tutto, è però nel finale liberatorio, pop e semplice (pur arrivando in ritardo e dopo molteplici sequenze che avrebbero potuto prenderne tranquillamente il posto) che il film di Pablo Larraín ci fa dimenticare tutti gli scivoloni, le prolissità e le mancanze, proiettandoci in un futuro che non risponde al nome di Lady D., ora non più beniamina dei giornalisti (chiudi le tende!) e burattino dei potenti, ma a quello di (Diana) Spencer. L’ingegno del cileno sta però nell’ultima inquadratura, in cui, con un solo sguardo della Stewart, riesce a riportarci alla realtà, alla cronaca e alla “tragedia”, tingendo quel neonato ed impossibile futuro, fatto di amore, speranza e libertà, in uno viceversa pessimistico. Che solo un miracolo (parafrasando la canzone dei Mike & The Mechanics che chiude il film) potrebbe prevenire.
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