TITOLO ORIGINALE: Swallow
USCITA USA: 6 marzo 2020
REGIA: Carlo Mirabella-Davis
SCENEGGIATURA: Carlo Mirabella-Davis
GENERE: thriller
Hunter conduce una vita avvilente e straniante, nonché completamente dipendente dal marito - narcisista ed egocentrico - Richard, quando scopre di essere incinta. Nel tentativo di sottrarsi a questa degradante condizione esistenziale e così “riprendere il controllo”, la ragazza inizierà ad ingerire le sostanze più ripugnanti e gli oggetti più disparati. Un esordio all’insegna del thriller psicologico/body horror (all’inverso e dall’interno), quello del newyorkese Carlo Mirabella-Davis. Una costruzione dell’immagine consapevole degli spazi e della loro influenza sulla caratterizzazione e valorizzazione dei personaggi, una meravigliosa interpretazione principale ed una riflessione, attraverso il disgusto e il ribrezzo, su temi attuali come emancipazione, abuso e violenza psicologica e mascolinità tossica sono le principali virtù di Swallow.
Biglie, puntine, batterie, spille, piccole gioie e piccoli soprammobili. Oggetti comuni che ognuno di noi può trovare in casa propria (e non solo) e con cui ciascuno si rapporta (normalmente) secondo un principio di mera utilità. E se invece questi comunissimi oggetti diventassero appetitosi a tal punto da volerli ingoiare? E’ questo il curioso spunto e pretesto da cui prende il via Swallow, debutto alla regia del newyorkese Carlo Mirabella-Davis.
La pellicola vede come assoluta protagonista una Haley Bennett alienata nei panni di Hunter, una giovane casalinga sposata con Richie (Austin Stowell), un altrettanto giovane esteta, narcisista ed egocentrico, figlio di una famiglia influente e ricca e manager di una grossa azienda. La vita quotidiana di Hunter è fatta di lavoretti domestici, giochi sullo smartphone, schizzi su un quadernino e - sempre però in compagnia del marito - cene con parenti ed amici. Una vita, in due aggettivi, fatua e vacua.
La ragazza dipende completamente - in termini emotivi ed economici - da Richie, che vede come la fonte della sua fortuna; la ragione per cui riesce a condurre una vita piccolo-borghese, agiata e con tutti i crismi di sorta. Pertanto, fa di tutto per essergli riconoscente e grata, pur ricevendo in cambio soltanto sufficienza e compatimento. Qualcosa si inverte, quando Hunter scopre di essere incinta. Infatti, quasi a salvaguardia della propria discendenza, Richie inizia a riempire la ragazza di attenzioni e così fa anche la famiglia di lui. In particolar modo, la madre, che non perde occasione per rammentare ad Hunter che il figlio è stata la sua salvezza e che quindi lei dovrà esaudire ogni suo capriccio e richiesta.
Unitamente a questi "preziosi" consigli di vita, la suocera regala alla futura mamma un libro riguardante la gravidanza, al cui interno è inserita una frase, o meglio un proverbio che incuriosirà Hunter in maniera insolita: “fa ogni giorno qualcosa di inaspettato”. Quell’inaspettato - che attende la gravida dietro l’angolo - risponde al nome di allotriofagia, un tipo di perversione del gusto che la porterà ad appetire ed ingerire le sostanze più ripugnanti e gli oggetti più disparati.
Come intuibile fin dal titolo stesso, l’ingoiare è l’azione che determina, domina e definisce l’esordio di Carlo Mirabella-Davis e la sua regia. Questa viene infatti introdotta e presentata fin dalla seconda inquadratura del film, nella quale vediamo Hunter sul terrazzo della propria casa di vetro, mentre beve qualcosa da una tazza e osserva l’orizzonte. Oppure, se proprio vogliamo generalizzare, mentre osserva il mondo là fuori; quello oltre le quattro mura della propria abitazione.
Già dai primi frammenti, Mirabella-Davis riesce dunque a mostrarci, senza bisogno di discorsi altisonanti o di maniera, la condizione esistenziale della sua protagonista: sola, pensosa (rispetto al proprio futuro e alla vastità del mondo), estraniata e nell’atto di ingoiare qualcosa. E saranno proprio queste quattro accezioni a caratterizzare in toto il suo percorso narrativo: quello di una ragazza proiettata in avanti, che vuole (o vorrà) abbandonare questo contesto degradante ed avvilente (difatti, dà le spalle sia al marito sia alla casa che i genitori di lui gli hanno regalato per il matrimonio) che la rende estranea ed isolata dal mondo esterno.
Emblematica, in tal senso, l’inquadratura di poco successiva, in cui la macchina da presa, posta sulla terrazza - quindi, al di fuori della casa e del contesto familiare -, mostra i due coniugi a cena: lui intento a mandare messaggi, lei - che aveva fatto di tutto per preparare questa cena romantica, così da esprimere la propria riconoscenza nei confronti dell’uomo - completamente trascurata e assecondata; mentre in sottofondo si sentono rumori ambientali; rumori di vita e di energia, ma di una vita e di un’energia totalmente avulse alla coppia e, con ciò, alle speranze di Hunter.
Pur muovendo e ponendo la macchina da presa secondo motivi allegorici tutt’altro che originali o tanto meno innovativi, con Swallow, Carlo Mirabella-Davis dimostra comunque una visione accorta e meticolosa di quello che le sue immagini devono rappresentare e comunicare allo spettatore. Una composizione dell’immagine consapevole degli spazi e dell’influenza che questi hanno nella caratterizzazione dei personaggi e nella valorizzazione degli attori - spazi che diventano quindi fulcro del lavoro organizzativo compiuto sui piani e specchio del dramma che si vuole narrare - è il maggior pregio di una direzione solida, armoniosa e quadrata, in cui ogni minima scelta intra- ed extra-filmica risponde ad una precisa finalità rappresentativo-espressiva.
Pertanto, oltre ad un paio di movimenti, compiuti quasi esclusivamente con macchina a mano (in corrispondenza dei frammenti narrativi d’impatto e carica emotiva più elevati), Mirabella-Davis opta per inquadrature a camera fissa che fondano la propria riuscita su un’ottima scelta dei punti macchina e sul dominio scenico di Bennett/Hunter e della sua espressività, ben sintonizzandosi con l’interiorità di quest’ultima e con la sua esistenza nevrotica e straniata.
Per abbandonare questa vita avvilente e condizionata (e qui riprendiamo in analisi la seconda inquadratura), la ragazza dovrà però superare un calvario, una sorta di via crucis che avrà a che vedere, per l’appunto, con l’ingestione [ricordiamo, come indicato sopra, che in suddetto piano Hunter sta bevendo da una tazza; sta quindi ingerendo qualcosa]. Pertanto, in seguito alla lettura di quella fantomatica frase motivazionale sopra riportata da parte sua, il racconto, da dramma individuale che era, viene condotto su tutt’altro piano, genere e gravità.
Swallow fa così il suo ingresso ed esplora i territori continuamente riciclati del thriller psicologico e di un tanto estremo quanto rischioso body horror all’interno e all’inverso. Fuorviante ed estremo, questo mix di derive thriller-horror avrebbe potuto compromettere quella iniziale sensibilità e quello scrupolo attuativo, a favore di uno sviluppo caotico, graffiante e perciò sbilanciato, completamente votato allo shock psico-visivo dello spettatore. Fortunatamente, nulla di tutto questo è Swallow, che, pur sottoponendo ai nostri occhi un paio di momenti effettivamente ripugnanti e “solo per stomaci forti” - perfezionati da un sonoro efficacissimo -, riesce a mantenere garbo, indole e carattere per tutta la sua durata, preferendo la teoria e l’anima psicologica alla pratica e ad una mostrazione esplicita e disturbante.
Si passa quindi da semplici pezzi di carne o “ammalianti” cubetti di ghiaccio a tutti i più piccoli (o quasi) oggetti ed accessori che Hunter trova per casa. Tuttavia, contrariamente a quanto si penserebbe, tali oggetti sono tutto fuorché fini a sé stessi o allo shocking della pellicola, trasformandosi bensì in veri e propri “rospi da mandar giù” per emanciparsi rispetto ad un passato popolato da fantasmi, traumi ed un mancato riconoscimento genitoriale (a cui la ragazza farà ritorno, in termini psicologici e comportamentali) e ad un presente di depressione, sconforto, umiliazione ed abuso; e da conservare, riacquisendo così il controllo sulla propria vita e sul proprio futuro.
Questo rapporto tra "ingoiatore" ed ingoiato/i, ancor prima che nell’allegoria e nella riflessione (sempre presenti nel cinema horror sin da L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel, 1956, e dallo Zombi di Romero, 1978) dell’emancipazione, trova spazio e respiro nella rappresentazione, nella descrizione visiva e nei dettagli che la macchina da presa di Mirabella-Davis dedica a questi ultimi, manifestando così una sorta di attenzione morbosa, di feticismo, di atteggiamento ossessivo-compulsivo e rendendoli quasi vivi e pulsanti, oltre che invitanti per la protagonista.
Detto questo, non bisogna però sottostimare l’importanza e il rilievo della sceneggiatura - anch’essa firmata dal newyorkese -, i cui meriti principali - alla base, per di più, del parallelismo ingestione-emancipazione - sono, senz’ombra di dubbio, il modo in cui il dramma viene allestito e la caratterizzazione di Hunter, della sua psicologia e dei suoi rapporti. In quest’ultimo caso, è d’obbligo citare l’importanza dei dialoghi e della loro scrittura nell’imbastire il clima di partenza e d’innesco degli eventi. Hunter viene quindi presentata come una bambola - in questo, aiutano il trucco e i costumi - che vive in una casa dei sogni (delle bambole, appunto), come un agnello che viene ucciso e spellato; e dunque considerata come tale - alla stregua quasi di arredi, mobili e soprammobili - da tutti coloro che la circondano.
A partire dal marito Richie, che utilizza il “noi” soltanto in riferimento alla gravidanza [nel comunicare alla madre la lieta notizia dice “we are pregnant”], preferendo piuttosto anteporre il proprio status, le proprie urgenze sessuali, i propri valori, il proprio mondo, i propri bisogni a quelli della partner e trattando quest’ultima come moglie soltanto per il gusto di averne una (come affermato sopra, quando la ragazza sarà incinta, lui e la sua famiglia saranno preoccupati soprattutto per la salute del bambino, per la progenie). Fino ad arrivare ai suoceri, i quali non mostrano mai alcun segno di vero affetto nei confronti della nuora, rivolgendosi ad essa come ad un prolungamento del loro amore e della loro ammirazione per il figlio e del grande senso pietistico e caritatevole di quest'ultimo.
D’altro canto, anche se eliminassimo (quasi del tutto) il parlato, la scrittura intrinseca delle sequenze, unita alla magistrale interpretazione di Haley Bennett (qui, in una delle sue migliori prove) - che vive del contrasto tra una bellezza candida ed ingenua e gli estremi imbruttenti, umilianti e sudici a cui Mirabella-Davis la sottopone - e a quelle (più sottotono ma riuscite) dei colleghi, riuscirebbe a trasmettere comunque e perfettamente tutto ciò che la sceneggiatura di Swallow ha e vuole offrire. Tanto è efficace la messa in scena e la narrazione visuale, che il cineasta avrebbe potuto produrre un film completamente privo di dialoghi e il risultato finale non sarebbe stato poi così distante dalla realtà.
Eppure sembra quasi che, ad un certo punto, questi abbia avuto un breve lapsus o ripensamento e abbia deciso di intraprendere una strada totalmente opposta. Tra secondo e terzo atto infatti, Swallow attraversa una fase (tipica da road movie) di transizione, durante la quale, oltre ad incorrere in un notevole rallentamento di ritmo e tensione, i dialoghi e le esternazioni verbali di nevrosi, disagi e pensieri si fanno sempre più presenti ed invadenti. Malgrado un paio di momenti di ottima narrazione, la pellicola pare quindi perdere la retta via, ritrovandosi sul bordo di un dirupo pericoloso e deleterio.
Fortunatamente, il tutto si ristabilisce con il finale, che, nel più completo mutismo, mostra il tanto agognato, sofferto e sofferente compiersi del processo emancipatorio (come donna) e pacificatorio (con i demoni del passato) di Hunter. Come? Posta in corrispondenza della porta d’uscita, la macchina da presa (fissa, ovviamente) inquadra la tipica fila di lavandini che si possono trovare nei bagni di un qualsiasi centro commerciale. Tuttavia, una volta che la nostra si è lavata le mani e fa per lasciare il posto, questa rimane ferma ad inquadrare la fila di lavandini, mentre altre donne iniziano ad entrare ed uscire, a loro volta, dal bagno, dunque separandosi da Hunter e decretando, di conseguenza, la fine della pellicola e del suo racconto.
Così facendo, Hunter si emancipa e prende il controllo della propria vita in termini narrativi, d’intreccio e di allegoria, ma lo fa anche rispetto al voyeurismo della macchina da presa e della visione registica, rimpossessandosi pure della propria figura e del proprio corpo, attraverso una (volontaria o meno?) sottrazione allo sguardo spettatoriale e alla dimensione cinematografica. In secondo luogo inoltre, questa scelta di proseguire nella mostrazione delle successive “visitatrici” della toilette potrebbe stare ad indicare un’omologazione ed uniformazione di Hunter, data la fine del suo travaglio psicologico, con le altre donne.
Swallow trova quindi la sua principale virtù non tanto nella piena adozione di un soggetto originale, mordace e pieno di spunti e di possibilità rappresentativo-narrative, quanto nella sua più completa marginalizzazione e totale sfruttamento. La forza del debutto di Carlo Mirabella-Davis si misura infatti nel senso della misura e dell’equilibrio - non si riduce tutto ad un mero shock movie che fonda tutte le proprie speranze nel cosiddetto e tanto amato “pugno nello stomaco” - ma, anche e in particolar modo, in quello dell'usufrutto di una perversione - l’allotriofagia - così insolita ed inconsueta (non solo a livello cinematografico, provare per credere) come tramite, pretesto ed allegoria di una condizione e di una realtà, quella dell’abuso, delle violenze, della mascolinità tossica e dell’emancipazione femminile, viceversa estremamente concreta ed attuale. Al punto che il film, senza uno di questi due elementi, non esisterebbe o, comunque, non avrebbe raggiunto lo stesso risultato.
Swallow si inserisce pertanto in quella scia e filone di produzioni horror recenti che, prendendo spunto dai sopracitati Siegel e Romero, hanno reiniziato ad intrecciare le proprie trame, i propri modelli e la propria iconografia di riferimento a discorsi ed argomenti di forte pressione sociale. Per citarne alcuni, Scappa - Get Out di Jordan Peele, La notte del giudizio di James DeMonaco, Gretel & Hansel di Oz Perkins e L’uomo invisibile di Leigh Whannell. Ed è proprio con quest’ultimo che l'esordio di Mirabella-Davis, seppur radicalmente e produttivamente opposto, ha più da spartire, sia in fatto di tematiche sia di stimoli riflessivi.
Certo, tecnicamente il film è tutt’altro che avanguardia (e, di sicuro, nemmeno quanto di più sbalorditivo e sorprendente avrete il piacere di vedere quest’anno). Ciò nonostante, sarà per il modo intelligente, sintetico e compatto con cui viene organizzata la narrazione, per la folgorante interpretazione di Haley Bennett e la sua emancipazione in e fuori campo, per la fotografia espressiva, introspettiva ed esteticamente ben orchestrata, per il finale dalla semantica semplice ma funzionale, per le sequenze di ingestione raccapriccianti (specialmente se si soffre di anginofobia), per il sadismo e feticismo di fondo; Swallow è una puntina che, a differenza di Hunter, difficilmente riusciremo/riuscirete a mandar giù.
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