TITOLO ORIGINALE: Madres Paralelas
USCITA ITALIA: 2021
REGIA: Pedro Almodóvar
SCENEGGIATURA: Pedro Almodóvar
GENERE: drammatico
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
A distanza di soli due anni da uno dei suoi migliori film, Dolor y Gloria, Pedro Almodóvar torna sul grande schermo con un racconto completamente femminile che deve la sua forza, la sua unicità e il suo prestigio ad una scrittura pregevole e a grandiose interpretazioni, che diventa poi riflessione sul futuro, sul mistero della vita, sul divario generazionale e sullo sguardo femminile.
Il futuro è ora. Tuttavia, esso non può assolutamente prescindere da un dissotterramento di fantasmi e tragedie del passato (con cui quindi si deve ancora avere a che fare) e da una presa di coscienza dei drammi (universali e non) e realtà del presente.
E’ questo, in soldoni, quello che ci vuole comunicare Madres Paralelas, il 23° lungometraggio scritto e diretto dal maestro del cinema spagnolo Pedro Almodóvar, il quale torna sul grande schermo a distanza di poco più di due anni dal grandissimo e (per noi) sottovalutato - specie quando venne presentato in concorso al festival di Cannes - Dolor y gloria.
Pellicola che ha segnato il ritorno dell’Almodóvar con la A maiuscola - quello di Donne sull’orlo di una crisi di nervi e di Tutto su mia madre - e testamento intimo, privato e spirituale del cineasta, Dolor y gloria è (senza girarci attorno) un piccolo capolavoro e, manco a dirlo, l’opera migliore del regista da cinque, ma anche dieci anni a questa parte.
Dal canto suo, pur non potendosi assolutamente definire un capolavoro al pari del predecessore, Madres Paralelas riesce comunque a sfiorare le corde dell’Almodóvar migliore e ci ricorda ancora una volta perché la sua idea di cinema è forse una delle più stimolanti e atipiche in circolazione; un’idea di cinema, la sua, praticamente impossibile da detestare.
La pellicola racconta la storia di due madri madrilene, entrambe single e rimaste incinte per errore, che si ritrovano a condividere la stessa stanza di un ospedale qualsiasi. La prima, Janis (una Penelope Cruz irresistibile e divina, pur nella fallacia e fragilità del suo personaggio), è una donna di mezza età emancipata, una fotografa affermata ed una personalità forte. Seppur soltanto in apparenza. Questa è afflitta infatti da un trauma familiare, divenuto col tempo una vera e propria ossessione, che è direttamente interlacciato con la guerra civile spagnola e la dittatura franchista (un periodo che - ricordiamo - tanto remoto non è).
La seconda invece è la minorenne Ana (interpretata da una Milena Smit possibile nuova musa), figlia di genitori assenti e (apparentemente) disinteressati, vittima di uno stupro e perciò timorosa nei confronti del futuro.
Quello che entrambe non sanno però è che la loro sarà ben più di una semplice e breve amicizia tra le corsie di un ospedale; un legame unico e singolare che potrebbe rappresentare il domani della Spagna intera.
Madres Paralelas infatti non è solo un melodramma in cui tutto è rigorosamente e meticolosamente disposto, in cui ogni anima del racconto contribuisce ad un effetto di completa e totale immersione in ciò che viene proposto e narrato; oppure un’incantevole e sublime lode al mistero, alla casualità e all’unicità della vita, quella vissuta, desiderata, oppure che è diventata morte, oblio e scomparsa, ma è anche e soprattutto un’allegoria politica che inquadra, nelle storie di queste due madri (imperfette e parallele non solo in quello che gli accade), le due anime della Spagna che è stata, ma che probabilmente è tuttora.
Una Spagna, quella di e oltre Madres Paralelas, in cui la guerra civile forse non è mai finita del tutto (“la guerra non è finita, bisogna decidere dove stare”, dice Janis ad un certo punto del film), dove le vestigia del franchismo sono ancora del tutto visibili o, meglio, invisibili, dal momento che tutt’oggi ci sono ancora migliaia di vittime del regime (i cosiddetti desaparecidos), della cui riesumazione lo stato spagnolo non sembra preoccuparsi seriamente, nonostante le numerose richieste dei familiari.
Allo stesso tempo però, le due potrebbero rappresentare anche la Spagna del passato o, comunque, legata ad esso e ai suoi drammi (Janis) e quella invece che ha vissuto sulla propria pelle una delle più grandi disgrazie (universali, non solo spagnole) del nostro presente, ovvero Ana, che per l’appunto finisce incinta dopo esser stata violentata da tre suoi compagni di classe.
Ciò che ne consegue è che solo attraverso la riappacificazione e l’unione di passato e presente si possa determinare il futuro, a cui Almodóvar associa la scelta del nome del bambino che Janis porta in grembo: se sarà maschio, avrà il nome del nonno, se invece sarà femmina, avrà quello dell’altra madre parallela. Torniamo quindi al principio posto in incipit secondo cui, per far sì che il futuro si compia, sia necessario innanzitutto dissotterrare e dunque venire a patti finalmente con ciò che è stato e risolvere o combattere nel presente una guerra che non è mai finita e che probabilmente non finirà.
Quello concepito, scritto e messo in scena dal regista spagnolo è, in conclusione, un racconto completamente femminile che deve la sua forza, la sua unicità e il suo prestigio ad una scrittura pregevole, al contempo ermetica e limpidissima, fallace e perfetta, dei personaggi, ad una definizione visiva spontanea, immediata e senza filtri dei loro processi mentali e psicologici e ad una direzione magistrale degli attori - su tutti, ovviamente, di una Penelope Cruz in una delle migliori prove degli ultimi anni (per certi versi, anche superiore a quella vista nel già ampiamente citato Dolor y Gloria).
Interpreti che la macchina da presa riesce a comprendere, dissezionare e valorizzare, ora sfiorandoli in maniera delicata e asservita, ora divenendo loro complici nella costruzione di una rivendicazione tutta al femminile dello sguardo dietro e davanti alla macchina da presa o ad una fotocamera.
Non è pertanto un caso che il film si apra su di un set fotografico, che tratti (in un’abbondanza tematico-argomentativa tipica, ancora una volta, del miglior Almodóvar) il bisogno da parte di Janis di avere una foto del bisnonno ucciso dai franchisti o che si chiuda infine con un’istantanea in cui passato e presente diventano un tutt’uno; dunque con una chiamata all’azione per il futuro attraverso la fotografia e il fotografare, qui intesi come possesso, assorbimento, scoperta, necessità e testimonianza della realtà.
Una realtà ed un presente (di nuovo) che possono compiersi solo attraverso questa loro (ri)scoperta e che, come visto durante il racconto, possono benissimo vedere una donna dietro l’obiettivo ed un uomo di fronte (d’altronde, “tutti noi dovremmo essere femministi”, come cita sagacemente la maglietta di Janis).
Un oggi, quello di ed oltre Madres Paralelas, in cui un regista di 71 anni può e riesce ancora raccontare con estrema lucidità (e come solo lui sa fare) il dramma delle passate, ma anche e soprattutto delle nuove generazioni di donne: sole, emancipate e, perché no, muse per un cinema di vibrante intensità.
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