TITOLO ORIGINALE: La Brigade
USCITA ITALIA: 7 dicembre 2022
USCITA FRA: 23 marzo 2022
REGIA: Louis-Julien Petit
SCENEGGIATURA: Louis-Julien Petit, Liza Benguigui, Sophie Bensadoun, Thomas Pujol
GENERE: commedia, drammatico
DURATA: 97 min
Conscio della ribalta che ha registrato il mondo della cucina negli ultimi anni, Louis-Julien Petit decide di sfruttare la storia di ambizioni e sogni di una sous chef che ha fatto della semplicità e della verità di gusto e sapore la sua filosofia, per raccontare il tema quanto mai attuale dell'immigrazione, dell'integrazione e di tutte le difficoltà e i disagi annessi e connessi. Sì, chef! è una ricetta tutta francese che Petit pratica con grande senso dell'equilibrio, aiutato da un cast assolutamente adorabile, riuscendo non solo a trattare un tema spinosissimo con la massima lievità e delicatezza, ma anche e soprattutto a riservare qualche sorpresa nell’ultimo atto.
È la semplicità, la filosofia con cui la sous chef (l’aiuto cuoco) Cathy Marie, protagonista di Sì, chef!, affronta la cucina; il suo modo di intendere il gusto, i sapori, l’essenza e il fine stesso di ciò che sta pensando e traslando sul piatto. Un approccio, il suo, lontano però dello spirito e delle tendenze che oggi animano un ambiente, quello culinario, riscopertosi eccellente macchina spettacolare, dove conta molto l’apparire, l’estetica, la presentazione del piatto, e meno invece la sostanza morale, l’ideale originario per cui si cucina; una vera e propria industria di nuove star, tratteggiata e dinamizzata emotivamente dalla tensione, dalla sfida, dalla frenesia dei ritmi, ma al contempo cullata e resa empatica, accessibile e confortante per chi guarda grazie all’immancabile narrazione del grande sogno e delle aspirazioni di tutta una vita (meglio se ardua e commovente) che finalmente sono ad un passo dell’esaudirsi.
Lo scrivevamo già nella recensione del recente The Menu: non è un segreto che oggi, in quanto ad impatto sul tessuto socio-culturale e sul discorso popolare, la cucina abbia preso il posto di ciò che, una volta, era (o meglio, lo è ancora, seppur ridimensionato) di pertinenza delle arti visive classiche o della musica.
Conscio di questo, il francese Louis-Julien Petit, assistito in sceneggiatura da Liza Benguigui, Sophie Bensadoun e Thomas Pujol, decide, in Sì, chef!, di sfruttare - in tutti i sensi, fuori e dentro la sua finzione - l’appeal di cuochi, fornelli e brigate, in termini commerciali, di spettacolo e di immaginario, riproporre quell’immancabile leitmotiv dell’ambizione, del credere e realizzare i propri sogni, profumarlo con un pizzico di savoir-faire dramedy, al fine però di portare sul piatto un tema quanto mai attuale, come quello dell’immigrazione e di tutti i disagi, le disparità, le difficoltà del caso, tra richiesta della cittadinanza, accoglienza, integrazione e rimpatri.
Un’impeccabile ricetta francese, quella della commedia sociale, che Petit, reduce dal grande successo de Le invisibili (che faceva praticamente la stessa cosa, solo con i centri di aiuto per donne in difficoltà), pratica in perfetta simmetria con la semplicità di cui si incarica la sua protagonista, grande grazia e senso della misura e dell’equilibrio, una messa in scena funzionale e, in alcuni casi, incredibilmente lucida (si pensi al ristorante in cui lavora Cathy Marie, in cui ancor prima di entrare si ha una bizzarra onnipresenza della TV, ossia dello show-business, della patina, dell’immagine), ed interpretazioni molto attinenti, quando non assolutamente adorabili da parte di un cast su cui primeggiano una Audrey Lamy raffinatissima ed un François Cluzet che buca lo schermo pure in una parte collaterale come questa.
Così facendo, Sì, chef! riesce non solo a trattare un tema spinosissimo con la massima lievità e delicatezza, senza mai peccare di superficialità, (quasi) di retorica o di eccessivo sentimentalismo, ma anche e soprattutto a riservare qualche sorpresa (nella fattispecie, una metamorfosi inaspettata, un cambio di programma e di registro forse frettolosi, ma senz'altro graditi) nell’ultimo atto.
Sì, perché il messaggio del copione è fondamentalmente uno e nemmeno tra i più inediti: non accontentarsi mai di ciò che ci viene dato, concesso, imposto da altri, che siano gli otto euro giornalieri forniti dallo stato francese al direttore di un centro di accoglienza Lorenzo Cardi per accudire i migranti che ospita e instrada verso un futuro (che pare però irraggiungibile) di migliori possibilità, oppure l’eterno ruolo di “secondo” con cui il mondo della cucina sembra punire l’intraprendenza e i desideri di successo di Cathy Marie.
Tuttavia, ciò che lo rende unico, quel messaggio, è come viene sviluppato dall’istanza narrante, come viene raccontato da Petite & co., secondo punti di vista diversissimi tra loro, facendo quindi riecheggiare quello stesso tratto, quella stessa spinta, in molteplici personaggi idealmente contrapposti, eppure uniti l’un l’altro dalla delusione, dal senso di abbandono, dall’essere orfani (nel senso istituzionale, ma anche personale del termine), dal disorientamento, disagio, apatia.
Personaggi, che, solo grazie alla cucina, alla sua natura idealmente solidale, al suo fine primo e ultimo, e dunque alla condivisione di sapori, profumi, storie, ricordi, oggetti, colori, tradizioni; trovano finalmente una coesione, un legame, un motivo ed un’armonia comuni: quelli di una brigata capace di rinunciare, per una volta, all’individualismo, all'egoismo, al solipsismo dei propri piani di vita e di un arco narrativo, disinnescare i meccanismi di un sistema e di una società perbenista, liberale, democratica ma insitamente (ed involontariamente) ancora discriminatoria e razzista e, insieme, di uno dei suoi volti (uno spettacolo in cui, parafrasando, tutto è finto e tutto è falso - un risvolto in cui Sì, chef! si diletta in una rappresentazione grottesca ed eccessiva del dietro le quinte di un noto cooking show), ed infine diventare parte, chi sì e chi no, di una comunità, di un vero melting pot, di un calderone compiuto in cui ogni ingrediente è valorizzato in egual maniera.
Una visione, quest'ultima, leggermente più utopica e trasognata rispetto a quella macroniana e senz’altro più realistica dell’ultimo capitolo di Non sposate le mie figlie!, ma che comunque denota e riconferma la vitalità di un cinema sempre appagante e fresco, pure quando sembra girare intorno e riproporre incessantemente gli stessi modelli.
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