TITOLO ORIGINALE: Rapiniamo il Duce
USCITA ITALIA: 26 ottobre 2022
REGIA: Renato De Maria
SCENEGGIATURA: Renato De Maria, Federico Gnesini, Valentina Strada
GENERE: drammatico, avventura, azione, storico
PIATTAFORMA: Netflix
Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma 2022
Incontro ideale tra un’estetica patinata, pop, fumettistica, una trama da heist movie e l’allure da kolossal made in Italy, magniloquente, sontuoso, prestigioso, di indole spielberghiana ed ambientazione storica, corredata qua e là da anacronismi votati ad una resa più appetibile e moderna, il netflixiano Rapiniamo il Duce di Renato De Maria vuole ricordarci, ancora una volta, che il cinema italiano è tornato, o meglio, tornerà ad essere grande. Tuttavia, il messaggio che intercetta e riproduce è già vecchio, proverbiale, sdoganato, così come il modo in cui, questo stesso messaggio, lo mette in scena e propone a schermo.
Sembra quasi il prodotto di un parto a tre tra Smetto quando voglio, Non ci resta che il crimine e Freaks Out, Rapiniamo il Duce di Renato De Maria, ultima grande produzione italiana targata Netflix dopo L'incredibile storia dell'Isola delle Rose.
Un incontro ideale tra un’estetica patinata, pop, fumettistica, una trama da heist movie - avente come protagonista una banda, o famiglia che dir si voglia, di criminali tanto sgangherata quanto adorabile - ed infine l’allure da kolossal made in Italy, magniloquente, sontuoso, prestigioso, di indole prima monicelliana e spielberghiana, poi tarantiniana e soderberghiana, ed ambientazione storica (anche qui l’Italia fascista), corredata qua e là da anacronismi (soprattutto musicali) votati ad una resa più appetibile e moderna del prodotto.
Ed è forse questa sua diretta e svogliata discendenza da una costola del cinema italiano che ha già stupito migliaia di spettatori, che si è emancipata - nel bene e nel male - rispetto all’immobilismo decennale della produzione nostrana, che si è già contaminata con influenze ed ispirazioni dai cugini hollywoodiani, che ha osato e riacceso la speranza per un futuro di riappropriazione, riqualificazione e riabilitazione del genere che tanto e ottimamente praticavamo, di ridestamento della creatività, di aggiornamento e di rivalorizzazione dell’invidiabile talento e primato della nostra bottega e dei suoi mestieranti; il più grande punto debole dell’intera operazione. O meglio, del colpo.
In altre parole, finché vuole convincerci del fatto che, sì, il cinema italiano è tornato, o piuttosto tornerà ad essere grande, ad avere un respiro, un’aspirazione, una proiezione internazionali, ad “essere come quello di una volta”; Rapiniamo il Duce non ha praticamente nulla fuori posto. Quando invece è chiamato, o per meglio dire, dovrebbe portare questo discorso anche solo un passetto più avanti, ecco che, dalla sua, non presenta nulla di davvero autentico, proprio, peculiare.
Ben poco è dunque grammaticalmente sbagliato o realmente discutibile nella storia (quasi vera) di un gruppo di ladruncoli da strapazzo, capeggiati da un imprenditore milanese, soprannominato Isola perché tendenzialmente lavora da solo (circa), che, come da titolo, tentano di impossessarsi di un leggendario tesoro, frutto di anni di soprusi, ruberie, sottrazioni (il)lecite ed inganni, custodito dai fascisti all’interno di un campo base super sorvegliato.
Anzi, il soggetto è di per sé intrigantissimo, i personaggi e la vicenda sono scritti nel più pragmatico dei modi, ossia rispettivamente con un tratto netto ed un concept a metà tra il cartoon e la graphic novel. E, in tal senso, anche il casting è a dir poco azzeccato: partendo dal volto e dal corpo di Pietro Castellitto, tra gli attori più alieni, plasmabili e fumettistici che abbiamo, già sfiorato dalla “matita” di Zerocalcare ne La profezia dell’armadillo, passando per la sfolgorante ed incantevole Matilda De Angelis, qui un po’ Isabella Rossellini nel ruolo di una cantante di night della Milano bene; un Filippo Timi nei panni di un villain macchiettistico (purtroppo non abbastanza), ed una Isabella Ferrari come femme fatale/ibrido tra una diva del muto e la protagonista di un film nazisploitation anni ‘70; fino ad arrivare ad un Maccio Capatonda (fortunatamente non ingombrante), un Tommaso Ragno, una Coco Rebecca Edogamhe, un Luigi Fedele ed un Alberto Astorri che fanno il loro, ma avrebbero potuto dare molto di più.
Eccezion fatta forse per un montaggio che, pur nella sua buona fattura, opera una serie di tagli evidenti che fanno apparire il tutto molto più frettoloso, raffazzonato, talora accidentale; e malgrado qualche svista o puerilità di soluzioni ed espedienti, sono altrettanto composti, precisi ed efficienti pure tutti gli altri reparti su cui si erge la resa di ambientazione ed atmosfera e il ritmo del racconto - dalla fotografia alle scenografie, dai costumi alla colonna sonora.
Tuttavia, nulla di tutto ciò contribuisce a donare un minimo di sapore, gusto, brivido, (vera) verve, violenza, colore, o anche solo carattere ad un prodotto che non può ambire a qualcosa di più del mero compitino. Uno che certo azzecca tutte le risposte, che segue con rigore e rispetto tutti i passaggi obbligati di un intreccio di questo tipo, ma pur sempre un compitino.
Dunque, un nuovo vecchio film o, se preferite, una confezione a modo, senz’altro appariscente, per qualcuno pure invitante, ben infiocchettata e ben fatta, eppure in fin dei conti insipida, oltre che sommariamente sbiadita nel ripercorrere la strada già battuta da altri, nell’atteggiamento anarchico (di cui si rintraccia erroneamente una parentela nei primi venti neorealisti) che pare quasi autoimporsi per prassi, addirittura nel progetto di saga che sembra impostare ridicolmente sul finale.
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