TITOLO ORIGINALE: Freaks Out
USCITA ITALIA: 28 ottobre 2021
REGIA: Gabriele Mainetti
SCENEGGIATURA: Gabriele Mainetti, Nicola Guaglianone
GENERE: drammatico, fantastico, storico
In concorso alla 78ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Un Gabriele Mainetti al suo secondo film da regista (sei anni dopo Lo chiamavano Jeeg Robot) e Nicola Guaglianone in sceneggiatura mettono a nudo le loro anime artistiche, le loro esperienze estetiche e cinematografiche e i loro riferimenti iconografici e mitologici in Freaks Out, il primo blockbuster italiano dai tempi del Pinocchio di Benigni. Un monito per le produzioni italiane e dimostrazione che, con una grande idea e i mezzi per farla, possiamo ancora essere tra i grandi. In una parola, futuro.
È dal classico del macabro di Todd Browning datato 1932 che prende il titolo Freaks Out, secondo lungometraggio scritto (insieme al sodale Nicola Guaglianone) e diretto dal capitolino Gabriele Mainetti, che nel 2015 stupì il pubblico e la critica italiani con il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, un dramma di raffinata scrittura e di interessante discorso che trasla il topos del superuomo nella malfamata realtà periferica della capitale e che allora portò una vera e propria ventata di aria fresca all’interno del panorama produttivo nazionale, oltre che ad una tanto agognata rinascita del cinema fantastico italiano.
Un titolo, Freaks Out, che può sì essere inteso come “to freak out”, ovvero uscire di senno, ma di cui preferiamo la traduzione letterale: “i mostri (o gli strambi) fuori”. Più precisamente, fuori dal Circo Mezzapiotta, loro habitat naturale, rifugio sicuro, lontano da occhi sprezzanti e malelingue; l'unico luogo in cui possono essere veramente sé stessi e mostrarsi senza veli per intrattenere e far divertire il pubblico.
Padrone di questo Circo, l’ebreo Israel, prestigiatore ed artista eclettico che sembra uscito direttamente dalle pagine di Collodi e del suo Pinocchio, interpretato da un Giorgio Tirabassi estremamente convincente, il quale funge un po’ da padre putativo, capofamiglia e mentore per un quartetto di “fenomeni da baraccone” dotati di poteri ed abilità straordinarie.
Abbiamo quindi Fulvio, una specie di uomo lupo dal corpo coperto di peli, tenebroso, forzuto, estremamente diffidente e sempre incazzato con qualcosa o qualcuno, a cui presta il corpo e la voce un Claudio Santamaria irresistibile (soprattutto quando Mainetti gli fa fare "quella cosa con la testa").
Segue poi Cencio, l'anima sarcastica del gruppo, oltre che principale comic relief del racconto: un coattone romanaccio a cui sembra(!) importino solo il sesso e le belle donne, il quale è capace di comandare qualsiasi tipo di insetto con il pensiero (“tranne le api, che mi stanno sul cazzo”, una delle battute più esilaranti del film), interpretato, a sua volta, da un Pietro Castellitto memorabile, seppur fin troppo invadente.
Un po’ più in basso (letteralmente) troviamo invece Mario (il membro meno approfondito dell’ensemble, purtroppo), un nano affettuoso, fanciullesco e piacione con il potere dell’attrazione magnetica, di cui veste i panni un Giancarlo Martini a dir poco perfetto.
È però vitale citare Matilde, una ragazza apparentemente normale e molto fragile, tuttavia afflitta da un grave trauma infantile legato ad un potere, quello di riuscire a condurre ed incanalare l’elettricità in modi del tutto misteriosi, che utilizza di rado per paura di fare male a qualcuno. Quest’ultima, vera protagonista del film, è portata in vita da una Aurora Giovinazzo eccezionale e veramente sorprendente, specie in termini espressivi.
Come suggerito dal titolo dunque, questi quattro o, meglio (contando anche Israel), cinque reietti, emarginati appunto da una società che non li accetta per il loro aspetto e la loro diversità, sono costretti ad uscire dalla loro zona sicura, dalla loro bolla, quando il circo che popolano con la loro unicità viene distrutto dai bombardamenti che i nazisti lanciano su Roma. È il 1943, la seconda guerra mondiale è agli sgoccioli, ma anche in una delle sue fasi più sanguinarie e la capitale dei nostri freaks è quella in cui, un paio d’anni più tardi, un collettivo di registi ed intellettuali raccatterà ciò che potrà, che sarà sopravvissuto all'azione distruttiva dei nazisti, e scenderà in strada, macchina da presa in spalla, per filmare la dura realtà delle vittime, della gente comune, dei nullatenenti, dando così il via ad una concezione rivoluzionaria di far e pensare il cinema (che raggiungerà poi i palchi e gli schermi di tutto il mondo), giunta a noi con l’appellativo, manco a dirlo, di neorealismo.
Questa uscita dei nostri “mostri” dal loro Circo, da questo loro rifugio (che è possibile intendere anche sotto il profilo di un’esternazione intima ed emotiva), Mainetti la rappresenta in modo esemplare e puramente cinematografico (nel senso di esclusivamente visivo) nel segmento che apre Freaks Out.
Qui, dopo aver fatto assaporare allo spettatore l’aria, il fascino e la suggestione malinconica e favolosa dell’ambiente circense, introducendo parallelamente (e senza bisogno di dialoghi o spiegazioni) le indoli, le personalità e i poteri dei nostri protagonisti, il regista fa calare sulla rappresentazione e sul racconto, con la sorpresa e la furia di una tempesta, la dura e pura realtà della guerra, con tutti gli annessi e connessi (tra cui scissione familiare, scompiglio, paura, morte e violenza, quest’ultima assioma fondamentale dell'opera nei vari significati cinematografici che può assumere).
Il tempo di uno stacco di montaggio e il cineasta risponde (ricordiamo, senza che alcuna parola di rilievo venga spiccicata) al secondo bisogno impellente di qualsivoglia spettatore, quello di una precisa ed inconfondibile contestualizzazione storica, facendo capire allo spettatore di trovarsi in pieno secondo conflitto mondiale mediante frammenti di bandiere e, in maniera ancor più lampante, grazie ad una foto di Hitler.
Una foto dalle proporzioni di un grande quadro appeso al muro delle stanze di Franz, gerarca nazista che, con i nostri quattro freaks, condivide l’emarginazione, l’empietà e lo sdegno che gli altri (in questo caso, i suoi compagni di guerra e di governo) provano alla sua vista. Questi infatti possiede un sesto dito in entrambe le mani e, come non bastasse, sostiene di aver avuto delle visioni del futuro, grazie alle quali dice di aver visto la caduta del regime e, addirittura, il suicidio di Hitler. Di conseguenza, sia per farsi bello agli occhi dei "colleghi", sia per ottenere l’approvazione del Führer (una sorta di padre putativo per Franz, alla stregua di Israel per i freaks), questi si mette alla ricerca di quattro esseri dalle capacità talmente soprannaturali e chimeriche da poter quindi salvare il Terzo Reich e la Germania dalla disfatta...
Come riportato in una nota di produzione... “Si dice che il secondo film sia il più difficile da realizzare, soprattutto quando il primo ha generato un riscontro positivo. Non sarà facile soddisfare le aspettative ora che l’asticella si è alzata ulteriormente. Come nella precedente esperienza faremo del nostro meglio per fare di più di quello che potremmo permetterci. Alla fine l’approccio produttivo sarà com’è stato con Jeeg… solo su una scala più grande”, Freaks Out è sostanzialmente un’evoluzione ed un ampliamento del discorso narrativo e registico affrontata da Mainetti nel suo esordio al grande schermo.
, nonostante possa e potrà (quando uscirà nelle sale) apparire ai più come un testo meno armonioso, intonato ed ordinato di Lo chiamavano Jeeg Robot (colpevole anche una gestazione non proprio facilissima), è proprio questa ambizione a permettere all'opera di Mainetti di fare breccia nei cuori di (speriamo) tutti. L’ambizione di fare un cinema che vada oltre il mero campanilismo, puntando ai mercati internazionali, all’esportazione, a dar vita ad un testo che non possa sfigurare se accostato ai grandi blockbuster suoi coevi (anzi).
Quello che però ci appassiona ancor di più di questa ambizione che permea ogni singolo fotogramma della pellicola (e che porta provocatoriamente chi scrive a dire che Freaks Out è il suo Dune o, meglio, ciò che avrebbe voluto fosse stato Dune), è l’autentica, sentita e vivida azione di messa a nudo compiuta dal regista (e simmetricamente dai suoi personaggi, seppur sul piano della scrittura e della caratterizzazione) nei confronti della sua anima artistica e dei suoi riferimenti iconografici e mitologici, siano essi di natura cinematografica o meno.
Freaks Out ha praticamente tutto: la sottile ironia e la capacità registica dell’azione massiva di Sergio Leone [l’arrivo dei freaks con il loro carretto che sembra quasi provenire da un altro mondo o da un altro film, in una periferia romana distrutta dalle bombe pare l’inizio di Per un pugno di dollari, così come leoniano è il lunghissimo segmento di battaglia finale, simile, per certi versi, a Giù la testa]; l’esplosività e la follia anticonformista di Robert Aldrich; la capacità di costruzione e composizione (specie nelle sequenze di grande azione) di un intreccio di microstorie e microuniversi che arrivano a sfiorare quelli principali, tipico di maestri come Jackson e Cameron.
O ancora, un finale che, in termini iconografici, ricorda quello, stupendo, della prima stagione de Il trono di spade; un’idea di banda scalcinata e malconcia (ravvisabile, in particolare, nei confronti on the road tra i vari freaks) che sembra uscita direttamente da L’armata Brancaleone di Monicelli; l’azione di riscrittura della Storia (geniale il modo in cui gli anacronismi vengono introdotti nella narrazione) sulla falsariga di quanto compiuto da Quentin Tarantino in Bastardi senza gloria (con cui la pellicola ha Mainetti ha tanto da spartire).
Ma anche il topos fumettistico di “superfamiglia disfunzionale” introdotto da Stan Lee e Jack Kirby con il gruppo de I Fantastici 4 (tra l’altro, citati all’interno del film); e, soprattutto, la lezione fantastico-avventurosa dei grandi registi degli anni ‘80 come - per citarne alcuni - Spielberg, Lucas e Landis. Una lezione che consiste nel dar vita ad una storia dalle dinamiche sintetiche e dall’intreccio fruibile, ma che, al contempo, si fa silenziosamente carico della trattazione di argomenti di particolare importanza socio-politica. Nel caso di Freaks Out, quella tematica, la diversità, Mainetti e Guaglianone la raccontano con grande delicatezza e coscienza, seppur in modo semplice e sfruttando alcuni elementi in modo, talora, fin troppo ridondante e ripetitivo.
Ciò che ci porta a definire quella di Mainetti un’opera magnifica (pur con i suoi difetti, a cui ci sentiremmo di aggiungere un montaggio eccessivamente schematico ed una durata spropositata) è dunque proprio la sensazione di crescita, di maturazione e di dilatazione, tanto narrativa, quanto registico-cinematografica, che riesce a trasmettere. Man mano che il racconto progredisce infatti, lo sguardo di Mainetti si apre a nuovi orizzonti, l’intreccio incorpora personaggi sempre più singolari e memorabili e la macchina spettacolare ed affabulatoria che è Freaks Out si mostra - con le dovute eccezioni - sempre più coesa, compatta ed incantevole. U
Unitamente ad interpretazioni e sceneggiatura, la fotografia fangosa e polverosa di Michele D’Attanasio (concentrata ad integrare esteticamente questo elemento stravagante, i freaks, con la realtà violenta e sanguinaria della guerra, e a costruire un mondo diegetico che è un po’ Roma, ma anche un po’ frutto di immaginazione, reinvenzione e traslazione), le scenografie curatissime, immersive ed altamente immaginifiche di Massimiliano Sturiale, gli strepitosi costumi di Mary Montalto, l’ottimo trucco, un comparto effettistico (più virato sul digitale) tra luci ed ed ombre, ed infine una colonna sonora eclettica e sensazionale composta dallo stesso Mainetti assieme a Michele Braga [la quale integra anche cover classico-orchestrali di brani famosi e, per il film, anacronistici come Sweet Child O’ Mine e Creep] contribuiscono a calare lo spettatore in una realtà fantastica e sorprendente, nonostante i vari e palesi riferimenti storici.
Una realtà ed un mondo, quelli di Freaks Out, che Mainetti riesce a dirigere, valorizzare e regolare con una lucidità, un senso dell’epica e dell’avventura, una capacità drammatica ed una specificità insperate, specie dal momento che stiamo parlando di un’opera seconda.
“La forza dei sogni può cambiare il futuro” dice, ad un certo punto del racconto, il personaggio di Franz, interpretato da un magnetico ed espressivo Franz Rogowski, ed - eccezion fatta per il riferimento ai sogni per un futuro di incontrastata dominazione nazista - è forse questo l’estratto che meglio riassume l’anima e la natura di Freaks Out, o, per meglio dire, il primo grande blockbuster del cinema italiano dai tempi del Pinocchio di Roberto Benigni.
Un film che rappresenta un ritorno in pompa magna ed una rivendicazione del palcoscenico produttivo nazionale (che avrebbe potuto essere più graduale, ma tant’è) da parte del fantastico. Un racconto di formazione prima silenzioso, quasi invisibile, ma progressivamente significativo. L’opera di cui avevamo bisogno in questa sezione di chiusura della 78ª edizione della Mostra del cinema di Venezia. La dimostrazione di quanto inutile e pretestuosa sia la distinzione tra cinema d’autore e cinema di genere o largo consumo. Oppure semplicemente quello che speriamo sarà un grande successo al botteghino alla sua uscita nelle sale italiane.
Un film assolutamente da non perdere, anche e soprattutto poiché monito per le produzioni italiane e dimostrazione che, con una grande idea e i mezzi per farla, possiamo ancora essere tra i grandi.
In una parola, futuro. Un futuro che ha inizio in una tenda figlia di Collodi, di Fellini, di esperienze estetiche e cinematografiche e di un’arte d’altri tempi, che invece si conclude sullo sfondo di un’alba di speranza e nuovi orizzonti.
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