TITOLO ORIGINALE: Ticket to Paradise
USCITA ITALIA: 6 ottobre 2022
USCITA USA: 21 ottobre 2022
REGIA: Ol Parker
SCENEGGIATURA: Ol Parker e Daniel Pipski
GENERE: commedia, sentimentale
Julia Roberts torna al genere rom-com insieme all’amico, collega e complice George Clooney, in Ticket to Paradise di Ol Parker (già regista di Mamma Mia! Ci risiamo), la storia di una coppia di coniugi divorziati che si ritrovano costretti ad appianare i propri dissapori e l’acredine ancora immutata dalla fine del loro rapporto, per prender parte e sabotare il matrimonio della figlia Lily, invaghitasi di un ragazzo balinese durante la sua vacanza post-laurea. Un piacevolissimo gioco allo scherno, immerso in un paradiso tropicale (purtroppo) da cartolina e fotograficamente patinato, che Parker mette in scena in maniera funzionale e per lo più corretta, beandosi, con risultati alterni, di ciò di cui dispone, e tentando di chiudere le falle di un copione indulgente e prevedibile con la chimica attoriale, l’effetto glamoroso e l'istituzione stardom della coppia protagonista. Un revival indubbiamente ma volutamente anacronistico del più appariscente cinema di sistema e della sua irrefutabile dipendenza stellare.
Coincidenza o meno, con il (timido) ritorno post-pandemico nelle sale, ha rifatto capolino sui grandi schermi di tutto il mondo anche un filone di film, già materia prima - insieme ai blockbuster più prettamente spettacolari - dell’offerta multiplex, che da anni apparivano (e sono tuttora) principale merce di scambio e sostentamento delle piattaforme streaming, specie nella loro più contingente ed oggi preponderante veste teen.
Stiamo parlando delle commedie romantiche, che continuano, nonostante tutto e seppur in forma depotenziata e demoralizzata, ad essere un importante corpo di investimento per Hollywood e dintorni; uno dei territori narrativi, a differenza di tanti altri, in cui sopravvive - o, perlomeno, cerca di farlo - il concetto di stardom, in quella che è la sua forma più classica, pura, originale.
Ciò nonostante, le due più grandi produzioni inter-genere che hanno raggiunto i nostri schermi in questo anno e mezzo di pseudo-ripresa dell'esperienza in sala sono entrambe variazioni sul tema. Se da un lato, infatti, Marry Me - Sposami di Kat Coiro, infatti, integra e fonde brillantemente le convenzioni e i luoghi comuni del genere con dettagli, angosce, tratti biografici di Jennifer Lopez, riprendendo e aggiornando dunque la lezione di Guardia del corpo; dall’altro invece The Lost City di Aaron e Adam Nee sfrutta la patina da rom-com dai risvolti avventurosi per condurre, con la complicità dell’esilarante coppia Channing Tatum - Sandra Bullock, un discorso ed un ragionamento inaspettatamente più profondi su quanto e come siano cambiati il concetto di eroismo e gli archetipi del maschile e del femminile nella rappresentazione che, di essi, si propone in termini audiovisivi.
Ecco perché Ticket to Paradise di Ol Parker potrebbe suonare un po’ come un tradimento di questa emancipazione del filone; un’eclatante retromarcia nostalgica agli anni, a cavallo tra ‘90 e 2000, in cui le commedie romantiche erano uno dei filoni di punta della proposta hollywoodiana.
E, qualora fosse questa la vostra impressione al riguardo, tranquilli, non vi sbagliereste poi più di tanto, anzi è forse proprio questo suo velo malinconico la vera essenza del progetto e della sceneggiatura di Parker e Daniel Pipski, rappresentati e animati, non a caso, da uno dei volti più emblematici di quel ventennio di cinema in cui coppie fotogeniche e sfavillanti, ambientazioni tropicali da sogno o romanticamente urbane, ed intrecci tutti affidati al caso, al destino, alla coincidenza, andavano per la maggiore, affollavano le sale e creavano fenomeni di costume che ora - e, soprattutto, al di fuori del mondo seriale - sembrano alquanto improbabili, se non addirittura impossibili. A vent’anni da I perfetti innamorati, Julia Roberts torna infatti a cimentarsi nel tipo di racconto con cui affascinò il mondo intero e divenne la diva che è tuttora. Un ritorno, quest'ultimo, a lungo rimandato per via, come lei stessa ha dichiarato, della mediocrità e dell’opacità di gran parte delle proposte ricevute, che avviene in compagnia dell’amico, collega, complice, oltre che “frequentatore pentito” del genere, George Clooney.
I due interpretano David e Georgia, una coppia di coniugi divorziati della Chicago bene (lui, un grande nome dell'edilizia; lei, una gallerista risoluta ed intraprendente), che si ritrovano costretti a seppellire la proverbiale ascia di guerra, appianare i propri dissapori, le proprie scaramucce sarcastiche e pungenti, l’acredine ancora immutata dalla fine del loro rapporto, per prender parte e sabotare il matrimonio della figlia Lily, invaghitasi di un ragazzo balinese durante la sua vacanza post-laurea.
Esatto, è quel tipo di film: quello di cui si può prevedere e pregustare il finale già solo dai titoli di testa, lo stesso che Hollywood produce (almeno) dai tempi di Scandalo a Filadelfia (1940) di George Cukor. Dunque, anche l'ultima di una lunga schiera di cosiddette comedies of remarriage, di cui, giusto qualche anno fa, lo stesso Ol Parker ha tentato di portare avanti l’eredità (con risultati perlopiù modesti) nel seguito di Mamma Mia!, uno degli esemplari più famosi e di maggior successo commerciale ed immaginario di questo filone dedicato al "ritrovarsi" e alle "seconde possibilità".
Anche qui, come nel musical cult di Phyllida Lloyd, la coppia di ex amanti esige il proscenio, offusca e mantiene sullo sfondo le disavventure dei giovani promessi sposi, riuscendo infine a rimarginare le ferite del passato e comprendendo che forse non è troppo tardi per vivere la vita che si era sognata insieme anni e anni prima.
Ma, per arrivarci, lo spettatore dovrà prima assistere ad un gioco allo scherno tra due divi, immerso in un paradiso tropicale da cartolina, fotograficamente patinato, idealizzato, fatto su misura (salvo qualche parentesi gradita) per un pubblico occidentale; che Ol Parker mette in scena e conduce in maniera funzionale e per lo più corretta, (purtroppo) senza prendersi troppi rischi, ma semplicemente beandosi, con risultati alterni, di ciò di cui dispone e tentando di chiudere le falle di un copione indulgente e prevedibile con la chimica attoriale, l’effetto glamoroso e l'istituzione stardom della coppia Roberts - Clooney.
Ciò nonostante, tra i sorrisi puntati e smaglianti di lei, e le risate sguaiate, gli sguardi imbarazzati e di sbieco di lui, situazioni più o meno riuscite, dialoghi suscettibili di una stucchevolezza per molti insostenibile, Ticket to Paradise scorre piacevolmente di fronte agli occhi dello spettatore, strappando qualche sorriso e qualche sana risata di tanto in tanto (eppure meno di quanto avrebbe potuto, se solo si fosse impegnato quel briciolo in più), soddisfacendo in pieno i magri intenti di partenza ed affermandosi così non solo quale limpida ed eccellente prosecuzione della forma e dell’ideologia più classica di commedia romantica (di cui rispetta fedelmente tutti i canoni strutturali ed estetici, tra cui il freeze frame finale e i bloopers durante i titoli di coda), ma soprattutto in qualità di rievocazione o reviviscenza, indubbiamente ma volutamente anacronistiche (eccezion fatta per un misero motivo ambientalista e naturalista a latere), del più appariscente cinema di sistema e della sua irrefutabile dipendenza stellare.
Un feel-good movie che, a momenti, pare piuttosto un’occasione ed un ambiente protetto, per i propri amabili idoli, per parlare di sé stessi, confessarsi, (auto)punzecchiarsi, o, più semplicemente, divertirsi, in compagnia e (necessaria) connivenza dello spettatore. Se il risultato finale sia o no un biglietto per il paradiso, sta poi a voi deciderlo.
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