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UNA VITA IN FUGA È IL SENILE CAPRICCIO DI UN MITO DECADENTE

SCHEDA

TITOLO ORIGINALE: Flag Day
USCITA ITALIA: 31 marzo 2022
USCITA USA: 20 agosto 2021
REGIA: Sean Penn
SCENEGGIATURA: Jez Butterworth, John-Henry Butterworth
GENERE: drammatico, biografico

VOTO: 4

RECENSIONE:

Sean Penn torna dietro la macchina da presa, dirigendo la figlia Dylan nell'adattamento del libro di memorie di Jennifer Vogel, Flim-Flam Man: The True Story Of My Father's Counterfeit Life. Il risultato è un’opera senile ed egocentrica che tenta di darsi un tono che non le appartiene ed insieme trascinare lo spettatore nell’emotività di una storia che sembra interessato solo a mostrare e non comprendere fino in fondo, che banalizza e non riesce ad inquadrare nella sua problematicità, e che, come se non bastasse, strumentalizza e spettacolarizza platealmente per il solo scopo di strappare qualche risata ironica o lacrima patetica, senza però riuscirci davvero.

SEAN PENN NON È MAI USCITO DA LICORICE PIZZA

Lo abbiamo visto di recente in Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson nei panni di un William Holden ebbro delle sue fantasie e dei suoi deliri di grandezza, ormai caricatura di un vecchio e falso mito, di cui rimane solo l’uomo, svampito, ridicolo, infantile, stordito, come l’America di cui è simbolo. Lo vediamo oggi dietro la macchina da presa ad adattare per il grande schermo il libro di memorie Flim-Flam Man: The True Story Of My Father's Counterfeit Life di Jennifer Vogel, e davanti nel ruolo di un padre assente, sfasciato, fanfarone, menzognero, perennemente nei guai con la giustizia, ridicolo ed abbastanza insopportabile, in Una vita in fuga.

In tal senso, è curioso constatare come, nonostante quella rappresentata da Paul Thomas Anderson sia, a tutti gli effetti, un’America filtrata attraverso il ricordo fanciullesco, l’illusione di un tempo andato ed un racconto che spesso ricorre alla caricatura, alla parodia e alla satira per tratteggiare una visione trasognata e svagata della San Fernando Valley e dei suoi loschi ed eccentrici figuri; lo Sean Penn che ritroviamo in Una vita in fuga non sembra essere mai uscito dalla Los Angeles di Licorice Pizza. Anzi, quella che ci si presenta è forse una versione ancor peggiore del William Holden che si scapicolla in sella ad una motocicletta, tentando di ricreare la scena di un suo iconico film. E, se non proprio iconico, quantomeno emozionante ed interessante, Una vita in fuga vorrebbe esserlo.

Una vita in fuga Recensione Cinemando

UNA VITA IN FUGA È PIÙ INTERESSATO A MOSTRARE CHE A COMPRENDERE

Assecondato dal direttore della fotografia Daniel Moder e dai montatori Michelle Tesoro e Valdís Óskarsdóttir, Penn decide quindi di conferire al proprio film un’allure, un sentore, un’aria da polveroso filmino di famiglia in Super8 ritrovato per caso in soffitta, optando per una fotografia ruvida, granulosa, materica, rugosa, quasi segnata dal tempo, a cui affianca una composizione dell’immagine irregolare, storta, spesso sbagliata, quasi fosse frutto di una mancata messa in pausa della registrazione, ed un montaggio incessante, smanioso, nevrotico.

La macchina da presa inquadra tramonti, campi di grano, momenti intimi, familiari e teneri, sguardi, silhouette, bandiere americane sventolanti, tentando fin da subito di espandere i confini del libro di Jennifer Vogel, trasposto dalla sceneggiatura di Jez e John-Henry Butterworth, e così elevarlo proverbialmente - pur mantenendo la natura di testimonianza intima, personale e confidenziale del rapporto problematico tra una figlia e il padre delinquente - a racconto di altri racconti, a storia di ben più ampio respiro, a cronaca di vent’anni e più di storia americana.

Probabilmente, tutto sarebbe andato per il meglio e Una vita in fuga sarebbe stato un film magari convenzionale, ma comunque discreto, se solo a dirigerlo appunto non vi fosse stato Sean Penn. Quest’ultimo, ancora in sella alla motocicletta di una grande carriera, ormai (e qui, proprio con questo film) arrivata al capolinea, dà vita ad un’opera senile che aggiunge l’ennesimo tassello di modestia e banalità ad una carriera registica costellata di film altrettanto modesti o tutt’al più sopravvalutati. Un’opera che, a partire dalla scelta di girare in pellicola 16mm, passando per il ritmo compassato, fino ad arrivare ad un montaggio scriteriato e pacchiano, tenta di darsi un tono che non le appartiene ed insieme trascinare lo spettatore nell’emotività di una storia che sembra interessato solo a mostrare e non comprendere fino in fondo, che banalizza e non riesce ad inquadrare nella sua problematicità, e che, come se non bastasse, strumentalizza e spettacolarizza platealmente per il solo scopo di strappare qualche risata ironica o lacrima patetica, senza però riuscirci davvero.

Una vita in fuga Recensione Cinemando

CONCLUSIONI

Parlare quindi di Una vita in fuga significa confrontarsi niente più che con la brutta (ed approssimativa) copia di un film di Terrence Malick (con tanto di voice-over pedante e retorico), un racconto, sensazionalista e disonesto nei mezzi (basti pensare all’uso che si fa della colonna sonora) e scolastico nel linguaggio, che ha più cose in comune con Una famiglia vincente, che non con quei grandi film-affresco di un’America chiaroscurale on the road a cui aspira invano, ma anche e soprattutto un’utile dimostrazione dei ridicoli strascichi del concetto di autore. Sempre che di autorialità si possa parlare in riferimento ad una pellicola fintamente sofisticata, pretestuosa, rigida e scialbissima, spesso paragonabile ad un videoclip, o ad uno stillicidio sotto forma di racconto così tanto pieno di sé, artificioso, tronfio, autoreferenziale, addirittura arrogante e paternalistico nei confronti di un paese che poi rappresenta in maniera sciocca, contraffatta e superficiale.

Sarebbe meglio pertanto definire Una vita in fuga per ciò che è realmente (e che non tenta nemmeno di nascondere o dissimulare). Ovvero il pretenzioso capriccio di un sessantaduenne interessato non tanto al cinema, quanto piuttosto ad appropriarsi di una storia qualsiasi e servirsene come mezzuccio per soddisfare un egocentrismo insopportabile e presuntuoso e, al contempo, come mero pretesto per dare alla figlia un ruolo da protagonista, facendo di tutto per metterne in mostra la bravura, la bellezza, l’atteggiamento da aspirante diva.

Ciò detto, più che riflettere sull’effettivo talento di Dylan Penn, bisognerebbe chiedersi cosa rende davvero interessante, irripetibile o preziosa questa vita rispetto ad un’altra. Qualsiasi altra.


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Pubblicato da Nicolò Baraccani il 3 Aprile 2022
Categorie
  • Cinema
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  • 2021
  • BIOGRAFICO
  • Cannes
  • DRAMMATICO
  • Sean Penn
  • STORIE VERE
  • TRATTI DA LIBRI
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