TITOLO ORIGINALE: King Richard
USCITA ITALIA: 13 gennaio 2022
USCITA USA: 19 novembre 2021
REGIA: Reinaldo Marcus Green
SCENEGGIATURA: Zach Baylin
GENERE: drammatico, sportivo, biografico
PREMI: Golden Globe per il Migliore attore in un film drammatico
Recente vincitore del Golden Globe al miglior attore in un film drammatico, King Richard di Reinaldo Marcus Green è il biopic con cui Will Smith punta all'Oscar, per la terza volta dopo Ali e La ricerca della felicità. In tal senso, la pellicola sceglie di prendere e condensare alcuni degli elementi migliori di questi due "quasi favoriti" e dare vita ad un racconto che elevi le capacità attoriali di Smith e racconti una storia familiare perfettamente inserita nelle correnti di rivincita ed emancipazione cinematografica di icone afroamericane e femminili. Il risultato finale è un'opera in cui il dramma non è mai tale o credibile, la drammaturgia è trattata in modo elementare, retorico, finanche puerile, la scrittura si riduce ad una manciata di frasi fatte. Dove insomma tutto ciò che, di cinematograficamente interessante, avrebbe potuto esserci, viene soffocato dalla necessità di primeggiare da parte di una delle idee di cinema più antiquate, sprovvedute, egocentriche ed innocue che esistano.
(Auto)celebrazione. Con tutta probabilità, è questa la parola chiave per comprendere il senso di un’operazione come (Una famiglia vincente -) King Richard, biopic di Reinaldo Marcus Green volto a raccontare la storia di Richard Williams, padre, mentore, allenatore, agente e chi più ne ha più ne metta, delle campionesse di tennis Venus e Serena Williams.
Come se già non bastassero il titolo (di shakespeariana memoria) o la presenza di Will Smith nei panni di Mr. Williams (e quella di sua moglie nel ruolo di produttrice) a sottenderne la palese natura, quello diretto da Marcus Green è sostanzialmente un film che parla o, meglio, celebra l’istinto, il coraggio, la sfrontatezza, la dedizione, la paternità di un re (nero) vincente.
Recentemente premiato con il Golden Globe al miglior attore anche e soprattutto per questo motivo, King Richard è "un film tratto da storia vera" come non se ne vedevano da tempi (per fortuna). Una di quelle opere, magari anche solide e convincenti dal punto di vista prettamente cinematografico, il cui unico, evidente obiettivo è però far raccattare quanti più premi al loro attore protagonista (e non solo). Scopo, quest’ultimo, spesso raggiunto, ma che, con ben più frequenza, le porta presto a cadere nel dimenticatoio (i titoli 12 anni schiavo, Revenant o Lion vi dicono qualcosa?).
Posto che, per Will Smith, King Richard rappresenta la terza (e forse ultima?) possibilità di vincere il tanto agognato Oscar come miglior attore protagonista, dopo Ali e La ricerca della felicità, Marcus Green sceglie pertanto di prendere e condensare nello stesso racconto alcuni degli elementi migliori(?) di questi due "quasi favoriti".
Da un lato, ritroviamo perciò l’idea di un film sportivo sulla nascita di un campione o, meglio, del mentore e (primo) allenatore di due campionesse; di un'opera che pieghi l’immagine pubblica di Will Smith quanto basta per mostrarlo agli occhi del grande pubblico (e dell’Academy) come un attore camaleontico capace di reggere sulle sue spalle un intero film. Dall’altro invece, King Richard si prefigura come il racconto di un padre che compie grandi sacrifici per fare la felicità dei propri figli e dimostrare a tutti quanto vale. Che aveva sempre avuto ragione.
E il fatto che, alla base di questo film, vi sia un'idea di Oscar-centrico sarebbe pure logico e “tollerabile”. Purtroppo però, ci troviamo di fronte ad uno degli esemplari più cinematograficamente fiacchi e svogliati del genere sportivo, soprattutto in termini di regia, fotografia e montaggio: veramente banali e proverbiali nel restituire il dinamismo, la velocità e la tensione dei match, ragion per cui tutto è lasciato alla bravura e convinzione dei propri interpreti.
Per non parlare del suo lato da dramma familiare ed esistenziale, dove King Richard dimostra tutta la propria ingenuità nel cedere a tutte quelle tentazioni che Muccino, ne La ricerca della felicità, era riuscito - talvolta abilmente - ad evitare.
Il tutto assume connotati ancora più inquietanti ma, nonostante tutto, tremendamente comprensibili, se pensiamo a come la sceneggiatura e, in secondo luogo, la messa in scena facciano di tutto per sopprimere o, alla meglio, attenuare i lati più oscuri, controversi, ma anche maggiormente realistici (trattandosi di un biopic) dietro la figura di Richard Williams. Un uomo dai gesti e dalle intenzioni considerevoli e, alla fin fine, efficaci (ha comunque plasmato e cresciuto due campionesse del tennis), ma che però, al contempo, non è mai stato in grado di conciliare agonismo e ossessione psichiatrica. “La sua mania di grandezza e il suo delirio ossessionato - scrive Moris Gasparri in una brillante disamina di Nel nome del padre, il libro biografico di George Mecca sull’epopea sportiva delle sorelle Williams - sono paragonabili a quelli dei grandi personaggi cinematografici del regista tedesco Werner Herzog. A differenza del titanismo di Aguirre, che finisce in tragedia, o a quello di Fitzcarraldo, che trova un compimento dimezzato, quello di Richard Williams trova invece perfetta realizzazione”.
Oltre a ciò, basti pensare anche solo all’idea che, in fondo, dietro tutti i perbenismi e i buoni sentimenti, questi si è impegnato per fare di Venus e Serena praticamente due modelli per la comunità afroamericana; due campionesse per “arricchirsi e prendersi la propria rivincita sui bianchi, del cui razzismo era stato vittima in gioventù, utilizzando i corpi neri delle proprie figlie e lo sport più lontano dalla condizione materiale e spirituale degli afroamericani, il tennis”.
Una visione problematica e freudianamente nevrotica che al film di Marcus Green parrebbe interessare, ma dalla quale - poiché al servizio di Will Smith e delle sorelle Williams, che qui figurano come produttrici - è costretto a deviare, anzi ripensandola ed inserendola, con caratteri totalmente positivi, negli attuali discorsi di rivincita, rappresentanza ed emancipazione cinematografica da parte di icone afroamericane e/o femminili.
L’immagine più cristallina di King Richard è allora quella di una pellicola in cui il dramma non è mai tale o credibile, la drammaturgia è trattata in modo elementare, retorico, finanche puerile, la scrittura si riduce ad una manciata di frasi fatte. Dove insomma tutto ciò che, di cinematograficamente interessante, avrebbe potuto esserci, viene soffocato dalla necessità di primeggiare da parte di un Will Smith inizialmente quasi caricaturale, poi sempre ingobbito, rigido, tarchiato ed insistente al limite dell’autismo, costantemente alla ricerca del favore e dell’empatia del pubblico. Questa presenza soffocante di Smith non impedisce però ad un Jon Bernthal inaspettatamente convincente e alle vere due star del film - Saniyya Sidney nei panni di Venus e Demi Singleton come Serena - di rubare la scena.
Detto ciò, non vogliamo dire per forza che King Richard sia un film totalmente da buttare o addirittura inguardabile - anzi, è una pellicola furbissima, fatta apposta per piacere ed ingraziarsi le masse -, ma quella dimostrata qui da Reinaldo Marcus Green è probabilmente l’idea di cinema più antiquata, sprovveduta, autoreferenziale, egocentrica ed innocua che esista. Il che è pure peggio.
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