TITOLO ORIGINALE: Licorice Pizza
USCITA ITALIA: 17 marzo 2022
USCITA USA: 26 novembre 2021
REGIA: Paul Thomas Anderson
SCENEGGIATURA: Paul Thomas Anderson
GENERE: commedia, drammatico, sentimentale
A quattro anni di distanza dal meraviglioso Il filo nascosto, Paul Thomas Anderson torna ad illuminare il grande schermo con Licorice Pizza, non solo una complicata storia d’amore intergenerazionale sullo sfondo della San Fernando Valley degli anni '70, ma anche un’opera che vive delle sue ambiguità, dei suoi non detti, dei suoi paradossi. Il cineasta ritrova un’essenzialità e purezza stilistica, formale e compositiva che fa diventare il tratto caratteristico e specifico di una pellicola che vive di personaggi affascinanti, mai pienamente decifrabili, di interpretazioni miracolose, di un montaggio rigoroso e di un'originale colonna sonora d'atmosfera. Un film che pensa per film e che, al pari del petrolio per il vinile - la pizza di liquirizia - vede nel cinema più consapevolmente disilluso la materia prima per mettere in moto un estenuante tour de force emotivo a cui bisogna semplicemente abbandonarsi.
È da 26 anni esatti (dal “lontano” 1996 di Sydney) che Paul Thomas Anderson ha conquistato l'immaginario di tutti noi con i suoi racconti eccezionali, i suoi mondi irripetibili e quello sguardo unico, che rimanda incessantemente ad un qualcosa di complesso, laborioso, estenuante, contorto, ma ciononostante suadente ed irresistibile.
Il cinema per Paul Thomas Anderson infatti non è solo l’espressività ricercata, il virtuosismo ineccepibile ed inconfondibile, la muscolarità prorompente, la scrittura di sceneggiature ambiziose e storie grandiose (in termini qualitativi, prima che quantitativi), ma anche e soprattutto sudore, fatica, sforzo, impegno, eccezionalità, guidati da un bisogno ed una pulsione insopprimibili per l’immagine, con tutto ciò che la precede e ne consegue.
Ricerca, enigmaticità, respiro, intensità, lirismo, audacia, morbosità sono tutte parole che ben si potrebbero associare ai film di questo grande cineasta - oggi come oggi, uno dei pochi, veri discepoli del grande cinema americano -, ma che non riuscirebbero certo a definire e riassumere esattamente le tendenze, l’estensione e la fisionomia di un universo cinematografico sfuggente, proteiforme, sproporzionato che non sembra mai esaurire le proprie possibilità, le proprie sorprese, la propria visione del mondo e delle sue insondabili profondità.
Quello di Paul Thomas Anderson è insomma un cinema di corse affannose e trafelate alla ricerca di qualcosa, di personaggi inghiottiti dagli spazi che abitano, di attrazioni fatali, di rapporti spinosi, universali e facilmente adattabili nella loro disfunzionalità, di sospensioni tormentate ed irreali, di dissonanze e cacofonie. Un cinema al contempo impalpabile e corposo.
Tutto questo ritorna e risiede, pur mostrando un ennesimo, nuovo lato di sé, nel suo ultimo Licorice Pizza, film in cui Anderson ribadisce e rafforza la propria idea di cinema, il proprio uso del mezzo, il suo amore per gli anni ‘70, le sue suggestioni, i suoi evanescenti e trasognati fasci di luce e i suoi assurdi e grotteschi coni d’ombra, la San Fernando Valley dov’è nato e cresciuto, e l'opera di maestri come Altman, Hitchcock, (questa volta, su tutti, Billy) Wilder, Scorsese, Coppola, (senza disdegnare un pizzico di John) Hughes.
Ciò nonostante, questo suo terzo ritorno “a casa, al mondo della mia infanzia, ai miei luoghi, alle mie atmosfere” [FilmTV] nasce e si sviluppa nel segno di un movimento e di intenzioni apparentemente opposte, quasi antitetiche rispetto anche solo al precedente, enigmatico e seducente Il filo nascosto.
Difatti, pur continuando lungo il solco tracciato (specie a livello tematico), con Licorice Pizza il cineasta ripensa, rimette in discussione il proprio modo di pensare e fare il cinema, si mimetizza abilmente tra le pieghe di un racconto che ciononostante è visibilmente ed inconfondibilmente suo, e, così facendo, - un po’ come Sorrentino in È stata la mano di Dio - ritrova un’essenzialità e purezza stilistica, formale e compositiva che fa diventare il tratto caratteristico e specifico di una meravigliosa commedia sentimentale.
Meraviglioso, infatti, Licorice Pizza lo è già nei suoi due protagonisti, Alana (Kane, come la Sugar Kane di A qualcuno piace caldo di Billy Wilder) e Gary (Valentine, un buffo cognome, uno di quei cognomi che si possono incrociare solo in un film). Lei, venticinquenne arguta, pungente, schietta, istintiva, scontrosa il più delle volte, figlia più piccola di una numerosa famiglia di ebrei ortodossi, insoddisfatta assistente di un fotografo, "in ritardo" rispetto alle sue coetanee. Lui, quindicenne ambizioso, intraprendente, arrivista, insistente, affrettato e trafelato, attore bambino dalle ridotte capacità interpretative, ma dal grande senso imprenditoriale, (non) ultimo figlio di una società e di un’America indubbiamente ed impudicamente sessista.
Tutto li divide, tutto li unisce. Dieci anni di differenza, realtà familiari incompatibili, due modi di intendere e vivere la vita accomunati esclusivamente dalla speranza per un futuro migliore, splendente, più grande, due caratteri simili e affini solo nel fervore e nello slancio di intenzioni. Eppure, entrambi vengono all'unisono da un interesse immediato, un fascino scritto e predestinato ed un’attrattiva reciproca di cui non ci è dato conoscere, ma solo intuire il motivo, la tensione, quella forza propulsiva che li porterà poi a rivelarsi quali due riflessi dello stesso sentimento, due metà perfettamente (a)simmetriche e (dis)armoniche della stessa sequenza, due creature cinematografiche che, attraverso il movimento, la luce, i colori, il ritmo, la colonna sonora, si incontrano, si desiderano, si stuzzicano, litigano, si mollano, si riprendono, si lasciano di nuovo, ritornano assieme, si tradiscono, si deludono, si completano, fingono, si amano, insieme rispettano e si ribellano alla loro essenza.
Vanno dunque, come il proprio regista (che li cerca, li trova, li abbandona e li riafferra; che li accompagna e guida in piani sequenza sublimi, li accarezza o interpella insistentemente in primi piani eloquenti, li filtra, cattura ed inscrive in uno spazio fatto, frammentato e ricomposto su misura per i loro gesti, impulsi, bisogni), alla ricerca delle radici più pure, essenziali, vitali, originarie, seducenti, quasi alchemiche del Cinema come stimolo, necessità, richiamo, ma anche collaborazione, lavoro corale, complicità.
Definire Licorice Pizza una complicata storia d’amore intergenerazionale sarebbe riduttivo o, meglio, finirebbe per banalizzare, limitare e ghettizzare un’opera che vive delle sue ambiguità, dei suoi non detti, dei suoi paradossi. Ci troviamo di fronte, infatti, ad un film classico, ma anche moderno e postmoderno. Ad un film in cui tutto è messo nel posto giusto, al momento giusto, in cui tutto è scritto, anzi “scrittissimo”, ma dove, al contempo, tutto pare naturale, istintivo, spontaneo, finanche ingenuo.
Non solo, Licorice Pizza è anche una pellicola che vive di personaggi mai pienamente decifrabili che riservano sempre un lato nuovo, tutto da scoprire, che arrivano pure a fingere e dissimulare la propria vera natura per incontrare il favore della macchina da presa ed ingraziarsi la simpatia dello spettatore. Di personaggi che perciò nascono, dialogano, si muovono, agiscono, ad immagine e somiglianza dell’artificiosità dissimulata ed illusoria del mezzo cinematografico - “sono battute di un copione o è la verità?” (si) chiederà ad un certo punto Alana.
Un’opera che ricava rumore dai silenzi, tensione da ogni singolo squillo del telefono, che usa un montaggio sobrissimo e rigoroso ed un’originale colonna sonora d’atmosfera [da Nina Simone a David Bowie, dai Doors a Paul McCartney] in modo a dir poco miracoloso, che sa dirigere e valorizzare i propri attori - siano essi gli esordienti Alana Haim (splendida, disarmante, una nuova stella pronta per il firmamento divistico) e Cooper Hoffman (figlio del feticcio e compianto Philip Seymour, prodigioso in un ruolo che ricalca ironicamente, con un filo di nostalgia, quello del padre nell’andersoniano Ubriaco d'amore), oppure i ben più esperti e blasonati Sean Penn, Tom Waits e (un pericolosissimo e magnetico) Bradley Cooper, tutti e tre emblemi di un’America svampita, ridicola, persa nei suoi deliri, richiamata con forza al piano della realtà.
In tal senso, a differenza di quello che si potrebbe pensare ad una visione distratta e superficiale, quello di Paul Thomas Anderson è anche e soprattutto il racconto di un rapporto disfunzionale e strampalato, proprio perché disfunzionalizzato ed osteggiato dalle sovrastrutture, dai sistemi, dalle gerarchie, dai non detti (appunto) del mondo che circonda i suoi due protagonisti. Un racconto che suggerisce il tentativo di reazione e ribellione di una ragazza nei confronti di una società maschilista giunta al capolinea della bizzarria e dell'impertinenza, che la desidera, la inganna, la illude, la porta sull’orlo della disperazione. Ma anche un racconto che contemporaneamente indugia sui comportamenti di un ragazzo cresciuto e plasmato da quello stesso retroterra socio-culturale e che, di quell'assetto, diventa insieme vittima e carnefice.
Un film che pensa per film e che, al pari del petrolio per il vinile, la pizza di liquirizia, vede nel Cinema più consapevolmente disilluso il combustibile, la materia prima, per mettere in moto un estenuante tour de force emotivo a cui bisogna abbandonarsi, che non promette nulla oltre il puro piacere del vedere, del provare, del sentire, del seguire, del partecipare, del vivere. Un film definito in sé, per sé. Benedetto dal gesto cinematografico, per il puro e semplice gesto cinematografico.
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