TITOLO ORIGINALE: Cry Macho
USCITA ITALIA: 2 dicembre 2021
USCITA USA: 17 settembre 2021
REGIA: Clint Eastwood
SCENEGGIATURA: N. Richard Nash, Nick Schenk
GENERE: drammatico, western
Per la sua 43ª regia, l'immortale Clint Eastwood sceglie di venire a patti con uno dei tanti fantasmi della sua carriera, ovvero l'adattamento dell'omonimo romanzo di N. Richard Nash che gli fu proposto da attore protagonista nel 1988. Nuovamente su sceneggiatura di Nick Schenk, il fu Uomo senza nome confeziona un racconto che, pur nella sua problematicità ed imperfezione, non è che la summa (e la somma) di Gran Torino e Il corriere. Un fervido interesse per i singoli momenti, le pause, gli intervalli tra un’azione e l’altra, i dialoghi che trasportano i personaggi da una posizione all’altra, è la cifra stilistica più riconoscibile di una pellicola che è, al contempo, la più disperata e confortante del cinema eastwoodiano.
Secondo quali principi, una sconfitta dovrebbe essere peggio di una vittoria? Non può semplicemente trattarsi invece di una realtà dei fatti a cui arrendersi senza combattere più del dovuto, tanto ormai nulla può essere veramente cambiato? Il cinema infatti non può più essere veicolo di messaggi salvifici, rassicuranti o totalizzanti; non può più creare simboli che, con il passare degli anni, potrebbero diventare marchi di quello che, secondo il senso del presente, prima non andava, e che oggi viene allora tramutato in qualcosa di sbagliato. In tal senso, ciò e coloro che stanno di fronte alla macchina da presa devono quindi accontentarsi della loro fragilità; di essere entità raggrinzite, sconfitte, acciaccate e mortali, ma vive più che mai.
Si potrebbe riassumere così il senso ultimo - e solo apparentemente pessimista - di Cry Macho, ultima fatica (dietro e davanti la macchina da presa) di Clint Eastwood, che - dopo i meravigliosi Gran Torino, Sully, Il corriere - The Mule e Richard Jewell - continua a sorprendere, destrutturando e ribaltando tutti quegli ideali, certezze e punti fermi con cui meglio e più lo si inquadrerebbe, sulla base sia degli ideali che traspaiono dalla sua vasta filmografia da attore, sia dello status di esemplare icona americana che, con gli anni (probabilmente suo malgrado), si è costruito addosso.
Nella continuazione di questo percorso, che è appunto Cry Macho, il cineasta rivisita pertanto uno dei nodi ancora irrisolti della propria carriera. Infatti, il romanzo omonimo di N. Richard Nash da cui è tratta la pellicola, era già stato oggetto di un tentativo di adattamento nel 1988. Traduzione che, quantomeno sulla carta, avrebbe visto proprio lo stesso Eastwood nel ruolo del protagonista. All'epoca però, l’attore decise di rifiutare la proposta, preferendo vestire nuovamente i panni dell’ispettore Callaghan in Scommessa con la morte. (Forse i temi di cui il libro di Nash è infarcito erano ancora troppo per lui?)
Ad ogni modo, ciò che ci interessa è che oggi, a ben 33 anni di distanza, a seguito di una florida carriera da regista ed una parimenti profonda messa in discussione dei propri valori, il buon Clint decida di tornare sui propri passi e fare pace (presumiamo) proprio con uno di questi suoi fantasmi. Il tutto, in compagnia non solo di quello stesso, fantomatico N. Richard Nash, ma innanzitutto di Nick Schenk, il firmatario delle sceneggiature di due dei suoi lavori migliori, quali i succitati Gran Torino e Il corriere.
Non è quindi un caso che, seppur indubbiamente più problematico, Cry Macho sia, alla fin fine, una somma ed una summa di questi due titoli, dei loro contenuti (da un lato, la decostruzione del maschio-bianco-americano-veterano-repubblicano, dall’altro, il tema del viaggio) e del ritratto che questi dipingono di Eastwood quale emblema socio-culturale e sintesi di valori ben precisi.
Una star del rodeo texana ormai decaduta, di nome Michael “Mike” Milo (Eastwood), ritiratasi alla vita da ranchero dopo un grave lutto in famiglia ed un incidente a cavallo che gli ha rovinato, per sempre, la carriera; viene incaricata dal suo ex-capo, nonché amico di lunga data, di partire per il Messico e riportare a casa il figlio Rafo (un eloquente Eduardo Minett), sottraendolo alla “tutela” di una madre alcolizzata e, di conseguenza, ad una vita che si prospetta alquanto miserabile.
Questa, in breve, la trama da cui prende il via il racconto di Cry Macho, nel cui sviluppo Schenk e Nash dimostrano anzitutto un fervido interesse (simile, per certi versi, a quello di Chloé Zhao in Nomadland) per i singoli momenti, le pause, gli intervalli tra un’azione e l’altra, i dialoghi che trasportano i personaggi da una posizione all’altra, a discapito invece della costruzione di un intreccio avvincente, teso e pieno di colpi di scena. Invero, la coppia di sceneggiatori ed Eastwood di riflesso, asciugano il dramma, impediscono ogni forma di retorica spettacolarizzazione e annullano la tensione quanto basta per permettere comunque al film di scivolare dolcemente davanti agli occhi dello spettatore.
Va bene, magari, con quest'ultima frase, sembra che si stia parlando quasi di un film piatto, monocorde e privo di qualsiasi guizzo. In realtà, è proprio grazie a questa totale soppressione di ogni strumento affabulatorio che Cry Macho scopre ed inventa le sue migliori intuizioni. Anzi, esso è disposto pure a sospendere il rigore, il senso o l’incredulità pur di esprimere ciò che di innato e profondo ha da dire. Dunque, non prendete chi scrive per squilibrato, quando digita che "pur non essendo l’opera maestra dell’autore, questa 43ª fatica eastwoodiana è piuttosto uno dei suoi lavori più sorprendenti, dissacranti e disperati".
Nondimeno, nonostante lo sconforto che la morale della pellicola ed Eastwood portano con sé, e che guiderà Milo a “sacrificare” ugualmente il giovane, malgrado la bugia (quella stessa bugia che spinse i coloni, alla ricerca dei padri - fondatori - verso la terra delle possibilità e dei sogni?); Cry Macho è anche una delle pellicole più confortanti, vivide e vitali del regista.
Constatata allora l’inscalfibile esistenza di cotanta desolazione, in questa route ai cui lati scorrono le immagini, i totem e gli idoli di un passato sconfitto, impossibile, nonché figlio di un’illusione, Eastwood riesce a ritagliarsi delle sieste, dei momenti di riflessione, delle fermate, che diventeranno eventualmente soste. Rassicuranti rifugi eterni dove, sulle romantiche note di un jukebox, possa permanere un dialogo intergenerazionale ed interculturale. O, più semplicemente, l’amore. Quello più semplice, delicato e puro.
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