TITOLO ORIGINALE: Nomadland
USCITA ITALIA: 29 aprile 2021
USCITA USA: 29 gennaio 2021
REGIA: Chloé Zhao
SCENEGGIATURA: Chloé Zhao
GENERE: drammatico
DISPONIBILE ANCHE SU: Disney+
PREMI: LEONE D'ORO al Festival del Cinema di Venezia; 2 GOLDEN GLOBE come MIGLIOR FILM DRAMMATICO e MIGLIOR REGISTA; 3 OSCAR tra cui MIGLIOR FILM e MIGLIOR REGISTA
In seguito alla morte del marito e alla crisi in cui versa la cittadina in cui vive, una donna decide di montare su un furgone, che converte in una vera e propria casa su ruote, ed iniziare a viaggiare gli Stati Uniti occidentali.
Premiato del Leone d'oro 2020 e di 3 premi Oscar, tra cui quello per il miglior film, Nomadland di Chloé Zhao è un film eccezionale e sublime non tanto per la magniloquenza tecnico-registica o la complessità narrativa, ma per come coniuga cinema d'autore e cinema commerciale e, soprattutto, per come lavora sugli spazi, sui paesaggi e sull'iconografia del cinema americano classico e sul nostro rapporto con questi ultimi. Una Frances McDormand discordante con il contorno, ma perfettamente a suo agio domina la scena in un film di sguardi che si incontrano, di momenti di e durante un viaggio - che è anche un viaggio nel paesaggio interiore dell'animo umano - e di incontri arricchenti, delicatamente tratteggiati dall'esile colonna sonora di Ludovico Einaudi. L'opera di un'autrice che, con la sua visione anti-epica, intimista e superficialmente “neorealista”, ci parla di una libertà che è resa tale proprio grazie al mezzo cinematografico.
Leonard Cohen, in una delle sue canzoni (Anthem), recita i seguenti versi: “Suona le campane che ancora possono suonare/Dimentica la tua offerta perfetta/c'è una breccia in ogni cosa/ed è da lì che entra la luce”. Una breccia - “in ogni cosa”, anche in un animo umano parte di una condizione collettiva -, che, ad occhio nudo e nella frenesia della vita moderna, difficilmente riusciremmo a notare. Ma che, se colta e registrata dal “cineocchio” di un(a) regista abile e sensibile e vista ed auscultata nell’intimità ed immersione di una sala cinematografica, può aprire e condurre lo sguardo su un’essenza autentica, significativa e, in quanto tale, vitalmente illuminata.
Una di queste brecce è quella attraverso cui ci fa sbirciare Chloé Zhao con il suo Nomadland, suo terzo film da regista e sceneggiatrice, premiato, tra i tanti, del Leone d’oro 2020 e dell'Oscar 2021 come miglior film (a cui seguono quello al miglior regista e alla migliore attrice protagonista) - che si ricongiungono per la prima volta dai tempi de La forma dell’acqua (2018) di Guillermo del Toro.
Immettendo lo spettatore (e mostrandosi) nello spazio, di un paese, di un way of life, di una storia e di un’eredità, che ha profondamente condizionato il cinema statunitense classico (soprattutto western) - che, quello spazio, lo ha conquistato e sfruttato per mettere in scena mitologie ed iconografie, liturgie ed icone, sogni e speranze -, Nomadland è la personale rilettura ed interrogazione di una regista [cinese di nascita, ma che ciononostante sembra conoscere quell’universo di rappresentazione e quella classicità come le sue tasche] che si rimette in marcia, con l’intento di riscoprire quei luoghi e quella tradizione in chiave interiore ed intimista. (E non più monumentale e significante di un’ascesa della civiltà e di uno scoprire per possedere.)
Luoghi e panorami, quelli cavalcati e solcati da personaggi (maschili) nerboruti e moralmente inflessibili come quelli interpretati da John Wayne e Henry Fonda, che qui diventano donna, ritratto selvaggio e lirico, casa "che è solo una parola? O qualcosa che porti con te?" collettiva ed unitaria, viaggio di momenti e incontri, consapevolezza della propria libertà, del proprio passato e del proprio futuro, metafora del mezzo cinematografico e rapporto necessario e vincolante.
Nell’intraprendere questo viaggio, profondo non tanto a livello geografico ma spirituale, la cineasta - assistita, in fotografia, da un Joshua James Richards orizzontalmente (il paesaggio e le ambientazioni) elegiaco e verticalmente (coloro che quel paesaggio lo attraversano) morbido - sembra quasi cancellarsi, fidandosi e facendo coincidere il proprio (e il nostro) sguardo con quello, femminile e confidenziale, della sua protagonista, Fern, interpretata da una Frances McDormand discordante con il contorno, ma perfettamente a suo agio.
Sessantenne del Nevada “senza fissa dimora, non senzatetto” (che è diverso), questa, in seguito alla perdita del marito e alla crisi in cui versa la cittadina in cui vive, decide di montare su un piccolo furgone - caricato di tutti i ricordi e degli oggetti a lei più cari e sistemato a vera e propria casa su ruote - e di iniziare a viaggiare gli Stati Uniti occidentali, diventando così una nomade a tutti gli effetti.
Durante questo suo viaggio, Fern incontrerà tutta una serie di persone e personaggi che, come lei (ma molto prima di lei), hanno deciso di intraprendere questa avventura e dal cui dialogo, di volta in volta, la nostra amplierà la propria coscienza e consapevolezza nei confronti sia della sua esperienza di vita e stato d’animo attuale sia di quello che la attenderà alla fine del percorso.
Quello che, ad una prima occhiata, potrebbe sembrare un road movie convenzionale ed ordinario, fin dai primi minuti si dà, viceversa, in tutta la sua atipicità e particolarità. In Nomadland infatti, ciò che conta non sono tanto l’epica e la magnificenza del viaggio in sé per sé, à la Into the Wild (nondimeno, ambientazioni e loro modalità di rappresentazione costituiscono due aspetti affabulatori di cui bisogna tener conto), bensì la ricchezza e l’unicità dei piccoli momenti solitari e riflessivi, in cui, a fare rumore, sono solo i pensieri (nostri e di Fern) e la sterminatezza dei luoghi; e dei dialoghi concreti, genuini e sinceri. Che sono condivisione (attorno ad un fuoco) di stralci e ricordi esistenziali, di filosofie e lezioni (mai saccenti o pretenziosi) di vita; e caratterizzazione di persone [Linda May, Swankie e Bob Wells sono nomadi nella vita] e personaggi, facenti parte di una vera e propria odissea degli ultimi e degli invisibili.
Odissea che, grazie anche alle musiche esili e dolci di Ludovico Einaudi (che entrano ed escono di scena sempre con assoluta disinvoltura), la sceneggiatura dipinge e descrive con sensibilità, delicatezza e naturalezza, quivi (quasi) mai sinonimo di pietismo o patetismo. E non solo nei momenti di fraternità e di calore, ma anche nelle debolezze e in tutti quegli aspetti che, in altre mani, sarebbero risultati volgarmente banali o sensazionalmente disonesti.
Dunque, un film di momenti che, unitamente a quanto sopracitato, trova la sua massima forma d’espressione nella semplicità e nello pseudo-documentarismo del primo piano, dei campi lunghi (e lunghissimi) e di movimenti di macchina apparentemente semplici ed elementari, ma concepiti con il preciso intento di non prevaricare o, addirittura, sopprimere la già forte significatività del profilmico; nell’essiccamento e linearizzazione dell’intreccio e nell’estrinsecazione di psiche, ideologie e messaggio mediante un realismo corporeo e fenomenico.
Momenti durante e di un viaggio, che è anche “Il viaggio dell'eroe” (struttura narrativa alla base di quel cinema classico a cui la Zhao guarda con insistenza), che, nella concezione vogleriana, viene rappresentato nella forma di un cerchio, il cui percorso inizia con un attraversamento, da parte dell’eroe, della soglia del mondo conosciuto e la successiva entrata in un mondo straordinario. Solo in seguito al superamento di un numero indefinito di prove, il nostro protagonista termina il proprio viaggio, ritornando al mondo ordinario (quello d’origine) con un beneficio o elisir per sé o per la comunità. Questo ritorno, tuttavia, non si esaurisce intrinsecamente, ma conduce l'eroe sulla soglia di un ennesimo viaggio, solo ad un livello e in una circolarità superiori (poiché cresciuto e maturato dall’esperienza precedente). A questa nuova soglia seguirà un altro ritorno e così via, fino alla sua morte.
Un cerchio ed una circolarità che, in Nomadland, tornano nell’itinerario (che è anche un itinerario narrativo, per l’appunto) del viaggio di Fern attraverso un paesaggio, uno spazio e luoghi diegetici che hanno funzione di ritratto sintomatico del suo paesaggio interiore.
Per abbracciare il futuro, l’avant-garde (guarda caso, anche nome del suo furgone), la donna dovrà fare pace con il suo passato - che è anche il passato di un mondo creato da piccoli frammenti di stelle, popolato da dinosauri a quattro zampe e quattro ruote, ora disilluso e disincantato - e farci ritorno fisicamente. E’ nella sua cittadina/mondo ordinario d’origine, infatti, che accoglierà e comprenderà appieno l’immensità dello spazio (prima dietro, oggi) davanti casa sua e del suo futuro e darà il via, con la coscienza e la consapevolezza acquisite, ad un nuovo viaggio (dell’eroe).
Detto ciò, la circolarità è anche riconducibile al suo anello di matrimonio (che Fern non potrebbe mai togliersi), rappresentante emblematico di una schiera di oggetti che sono casa, ma anche concretizzazione preziosa ed insostituibile di un passato, il cui superamento passerà anche attraverso il loro abbandono affettivo.
Unitamente a ciò, Nomadland di Chloé Zhao è un film che, al di là dei primati e dei riconoscimenti (tutti meritati, a nostro parere), fonda buona parte delle proprie speranze di successo e consenso presso il grande pubblico su un dettaglio (che, in fin dei conti, tanto dettaglio non è) connaturato che poche opere prima di lui avevano proposto con cotanta armonia ed ispirazione.
Nomadland ha infatti il pregio di congiungere e mescolare, in un pastiche equo e naturale, un cinema d’autore - rivolto agli Stati Uniti (all’opera di registi come Ford, che sembra citare nell’inquadratura subito antecedente quella finale, Hawks, Aldrich e Walsh per quanto riguarda il western e la classicità. Ma si può ritrovare anche un po’ del cinema di Malick) e all’Europa (con riferimento allo stile di maestri come Wenders e Angelopoulos e a tematiche come quelle della filmografia del nostrano Garrone) - ed un’esteriorità editoriale e produttiva (emblematica la scelta di porre nel ruolo di protagonista assoluta un’attrice, la McDormand, nota, pluripremiata e dal volto a dir poco carismatico), tipica di un cinema più commerciale. Perciò, benvoluto in ottica Oscar (che ha sbancato, per l'appunto) e facilmente digeribile da un pubblico massificato e cosmopolita.
Questa coesione tra indipendente/autoriale e popolare, posta su una bilancia perfettamente allineata, è il motivo per cui il film di Chloé Zhao potrebbe sembrare derivativo e “nulla di che”. Per come la vediamo, tutto ciò è invece la riprova della coscienziosità e della sensibilità - certo manchevoli in alcuni frammenti della pellicola - di un’autrice che, con la sua visione di un’epopea anti-epica, intimista e superficialmente “neorealista”, ci parla di una libertà (di vita, come di interpretazione e giudizio soggettivi dell’opera) che è resa tale proprio grazie al mezzo cinematografico e al suo potere di costruzione e organizzazione spaziale e temporale.
Il futuro di Fern, così come il suo sguardo, arriva ad essere un unicum con quello della sua regista - che si diverte a disseminare brecce coheniane (il cantautore) di quello che sarà “lungo la strada” o, meglio, sull’insegna di una sala cinematografica -, del mondo in cui (Fern & co.) vivono e (noi spettatori) viviamo e del Cinema vissuto al cinema, che un bentornato più opportuno di Nomadland non avrebbe mai potuto desiderare...
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.