TITOLO ORIGINALE: Falling
USCITA ITALIA: 26 agosto 2021
USCITA UK: 4 dicembre 2020
REGIA: Viggo Mortensen
SCENEGGIATURA: Viggo Mortensen
GENERE: drammatico
La storia di Willis Peterson e del rapporto con i suoi familiari (soprattutto con il figlio omosessuale John), prima e dopo lo sviluppo di una forma iniziale, ma, a dirla tutta, abbastanza pesante e violenta di demenza senile.
L'attore Viggo Mortensen firma il suo esordio alla regia cinematografica con Falling, un film che, seppur tratti un tema caro al The Father di Florian Zeller, ha molti più punti di contatto con Una donna promettente di Emerald Fennell. Difatti, pur trattando una tematica verso cui provare comprensione e solidarietà dovrebbe essere se non altro umano, il cineasta è alla costante ricerca del consenso e dell’approvazione del pubblico e questo finisce per rendere il film una lunghissima e tediosa ripetizione di situazioni e sequenze il cui principale fine semantico è sempre uno e uno soltanto. Non migliorano certo le cose una ripetitività semantica, momenti dall’evidente caratura metaforica, inquadrature simboliche, sì, visivamente considerevoli ma oltremodo proverbiali e quella che definiremmo una pornografia della parolaccia. Meritevoli invece un collettivo di attori e di interpretazioni che Mortensen riesce ad “ascoltare” in maniera rispettosa e devota, una colonna sonora ben amalgamata ed una fotografia che lavora bene con gli spazi.
“Mi sento come un albero che perde le foglie”. Così Anthony, interpretato da un magistrale, magnetico e vincente (di un Oscar) Anthony Hopkins, traduce in forma metaforica la propria condizione di disorientamento e disallineamento dalla realtà (successiva a quella che parrebbe essere una forma evoluta di Alzheimer) nelle note finali di The Father di Florian Zeller, un esordio meraviglioso di cui colpisce soprattutto l’uso oculato e parsimonioso che quest'ultimo fa del cinema: un mezzo esatto e perfetto, di matrice scientifica; e di alcuni suoi specifici (su tutti, il montaggio) per (rap)presentare viceversa un qualcosa di sconosciuto, imperfetto e misterioso.
Vale a dire la mente umana, la quale viene intesa come “un albero che perde le foglie” anche da e dal titolo di Falling (- Storia di un padre, noi italiani esageriamo sempre), che, dalla pellicola di Zeller, riprende la tematica della demenza senile, imbastendo tuttavia un testo multipuntuale, ma insieme ben più convenzionale nella forma e nel contenuto e non sempre corretto.
Falling non è solo l’esordio di Viggo Mortensen - uno dei più grandi attori ed uno dei volti più riconoscibili della sua generazione - alla regia cinematografica, bensì una sua creatura, un suo bambino, che (come raccontato nel film, del resto) egli ha seguito, nel bene e nel male, sin dai primi giorni di vita, da quando mosse i primi passi; fino alla selezione nel listino della 73ª edizione del Festival di Cannes (poi annullata per Covid). Infatti, oltre a dirigerlo, Falling, Mortensen, l’ha scritto, prodotto, interpretato e, addirittura, musicato.
Dedicato ai fratelli Charles e Walter Mortensen, il film racconta appunto la storia di Willis Peterson (Lance Henriksen) - persona dai principi conservatori, non proprio amorevole e non sempre dignitosa - e del rapporto con i suoi familiari, prima e dopo lo sviluppo di una forma iniziale, ma, a dirla tutta, abbastanza pesante e violenta di demenza. A subire maggiormente il peso e le conseguenze di questa precaria condizione degenerativa è senz’ombra di dubbio il figlio John (Mortensen), omosessuale dichiarato nonostante la contrarietà e i continui insulti del padre, e persona condiscente, tranquilla e dal grande cuore.
Come potete constatare quindi, la pellicola è più concentrata e parimenti interessata ad indagare tanto le relazioni e i legami tra i vari membri della famiglia Peterson, quanto le loro reazioni di fronte ad una condizione di grande tensione e di grande conflittualità, dovuta ad un peggioramento di una personalità e di una persona non proprio caste e pure già in gioventù.
Pertanto, all’infuori del titolo e, come riportato sopra, della questione Alzheimer, l’esordio di Viggo Mortensen condivide ben poco con quello meraviglioso (ed indubbiamente superiore) di Florian Zeller. Anzi, oseremmo dire che, specie nel modo in cui sviluppa la propria semantica e le proprie argomentazioni, Falling abbia più affinità con un altro esordio, più mite e dimenticabile: quello dell’attrice Emerald Fennell in Una donna promettente, di cui cura regia e sceneggiatura.
Una pellicola, quest’ultima, il cui più grande difetto sono proprio i modi e le forme con cui tenta di comunicare le proprie intenzioni e il proprio messaggio (sostanzialmente, che gli uomini sono tutti pezzenti). Difatti, pur trattando una tematica verso cui provare comprensione e solidarietà dovrebbe essere se non altro umano, la cineasta è alla costante ricerca del consenso e dell’approvazione del pubblico e questo finisce per rendere il film una lunghissima e tediosa ripetizione di situazioni e sequenze il cui principale fine semantico è sempre uno e uno soltanto.
Ecco, in Falling di Viggo Mortensen accade praticamente la stessa cosa, se non addirittura peggio. Il regista scrive e compone infatti un racconto che fondamentalmente vuole esprimere quanto sia brutto assistere alla lenta distruzione di un uomo e, di conseguenza, di tutti coloro che lo circondano che, soffrendo, finiscono per distruggersi a loro volta.
Tuttavia, il modo in cui questi formula e propone tutto questo (in una pellicola che dura all’incirca un paio d’ore) si fonda solo ed unicamente su due grandi espedienti: da un lato, sulla costruzione di momenti che puntano, attraverso parolacce, frasi sempre più offensive e scurrili, urla e violenze di ogni tipo, a scioccare, ad incontrare il favore o a lasciare interdetti gli spettatori, dall’altro, su un continuo andirivieni temporale tra passato e presente, introdotto ed accentato da raccordi di posizione, parallelismi visivi o inserti intra- ed extra-diegetici.
Bene, se a questa ridondanza narrativo-concettuale (di momenti che conducono sempre allo stesso fine) e formale (di una messa in scena sempre giocata sullo stesso assioma compositivo e di montaggio), sommiamo una ripetitività semantica, momenti dall’evidente caratura metaforica, inquadrature simboliche, sì, visivamente considerevoli ma oltremodo proverbiali e quella che definiremmo una pornografia (poiché fin troppo marcata e sfruttata per fini sconcertanti) della parolaccia, otteniamo un’opera che sembra quasi girare su sé stessa, non conducendo dunque il proprio intreccio e contemporaneamente lo spettatore verso qualsivoglia sviluppo e/o espressione degni di nota, siano essi narrativi, affabulatori o semplicemente artistici. Vedasi anche solo l’indecisione che coglie il cineasta all’approssimarsi delle battute finali, la quale fa sì che questi opti per una chiusura porosa, frammentata, estremamente aleatoria e (per noi) sbagliata.
Tutt’altro che sbagliati, anzi valevoli di una menzione - come minimo - sono invece un collettivo di attori e di interpretazioni che (questi sì) Mortensen - che nel film regala una prova più controllata del solito - riesce ad inquadrare, a restituire e ad “ascoltare” in maniera rispettosa e devota - il che coincide e permette, nonostante tutto, momenti di grande emotività come, per esempio, quello (finale) del cruciverba -; una colonna sonora ben amalgamata e coerente con quanto rappresentato, ed una fotografia (di Marcel Zyskind) che lavora bene con gli spazi, specie quelli naturali e campestri.
Elementi, questi ultimi, che purtroppo non bastano a Falling per definirsi un film del tutto riuscito, profondamente personale o, anche solo, memorabile. Un consiglio: espandere ed approfondire con maggior consapevolezza ed originalità premesse, contenuto e tematiche, oppure, in alternativa, puntare tutto sulla forma, sull’ingegnosità della messa in scena, su un qualcosa di meno narrativo e più visuale e suggestivo. Solo così otterremo l’esordio di un attore che, in questo suo primo approccio, nonostante tutto, accenna prospettive che non vediamo (sinceramente) l’ora di vedere.
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