TITOLO ORIGINALE: The Father
USCITA ITALIA: 20 maggio 2021
USCITA USA: 26 febbraio 2021
REGIA: Florian Zeller
SCENEGGIATURA: Christopher Hampton, Florian Zeller
GENERE: drammatico
PREMI: 2 OSCAR per il MIGLIOR ATTORE PROTAGONISTA e la MIGLIORE SCENEGGIATURA NON ORIGINALE
La storia di Anthony, un uomo di tarda età, affetto da demenza senile, il cui mondo e la cui vita, di pari passo con la sua mente e quindi con il progredire della malattia, iniziano pian piano a disgregarsi, deformarsi e infine distruggersi.
Il drammaturgo francese enfant prodige Florian Zeller esordisce alla regia cinematografica con l'adattamento di una delle sue pièce più famose e riconosciute. Servendosi di un Anthony Hopkins sensazionale, mai così fragile e solo, e di una Olivia Colman magnifica che lavora attraverso micro espressioni, The Father è un film che colpisce come pochi. La regia, essenziale e misurata, di Zeller funge da direttore d'orchestra per una messa in scena che mantiene l’impostazione teatrale (questa volta, tutto fuorché sinonimo di staticità e verbosità) della pièce di riferimento nell’importanza riservata agli attori, al dialogo e alla scenografia (quest'ultima spaesante e semanticamente complessa), ma che contemporaneamente conosce e sa sfruttare, in modo meticoloso e funzionale, le specificità del linguaggio cinematografico (è il montaggio a produrre il contenuto, a sostanziare e a definire la logica dell’esperienza di visione).
Anthony. 83 anni. Nato il 31 dicembre 1937 (che, quell’anno, cadeva di venerdì. E questo se lo ricorda bene). Ingegnere da tempo in pensione. Vedovo. Padre di due figlie: Anne, la maggiore, e Lucy, la preferita. Amante della musica classica. Residente in un appartamento elegante, raggiante, alto borghese, a pochi passi da Regent’s Park a Londra. Sono loro: lui stesso e questi dettagli (che sono vita, ma al contempo vitali per tentare di comporne un ritratto ed una biografia); i veri protagonisti di The Father (seguíto, nella localizzazione italiana, dal superfluo sottotitolo Nulla è come sembra), esordio alla regia cinematografica del drammaturgo francese enfant prodige Florian Zeller, che, per l’occasione, decide di trasporre su schermo una delle sue pièce più famose e celebrate, già portata al cinema (con tutt’altri toni e tutt’altra impostazione), nel 2015, da Philippe Le Guay, servendosi del volto e del corpo di Jean Rochefort, con Florida.
Quello che fa Zeller è, in tal senso, più o meno simile, con la sola differenza che, a differenza di Le Guay, quello che sceglie di adattare è un testo di cui conosce ogni anfratto ed intercapedine di significato. Inoltre, al posto di un nome e di un retaggio (legati ad un particolare tipo di cinema e ad un particolare tipo di personaggio) come quelli di Rochefort, il giovane drammaturgo francese decide, anzi pretende [senza di lui, non avrebbe girato il film] un nome forse ancor più prestigioso ed un interprete addirittura più riconosciuto ed importante (per la storia del cinema tutta). Non è quindi un caso che anche l’attore che sceglie si chiami Anthony, che lui e il personaggio che questi interpreta abbiano la stessa data di nascita e che, a livello prettamente filmico, Zeller riesca quasi ad unirli in una simbiosi perturbante e profonda.
In The Father infatti, Anthony Hopkins [che, per l'interpretazione, vince il suo (meritatissimo, scusa Boseman) secondo premio Oscar come attore protagonista, a distanza di 30 anni circa da quello, il primo, per Il silenzio degli innocenti] sembra quasi fare sé stesso, si autoelimina come attore e regala la sua prova più lucida e brillante da qualche anno a questa parte (a dispetto dello “svilimento subito” in pellicole qualitativamente o quantitativamente minori). Ed è pressoché paradossale che dimostri questa lucidità nel rivestire il ruolo di un uomo di tarda età, affetto da demenza senile, il cui mondo e la cui vita, di pari passo con la sua mente e quindi con il progredire della malattia, iniziano pian piano a disgregarsi, deformarsi e infine distruggersi.
Ed è altrettanto precisa e lucida la macchina da presa di Zeller che, assistito da Ben Smithard in fotografia, riesce a percepire e registrare ogni minima variazione espressiva del volto e, dunque, della prova di Hopkins, mostrandolo fragile e solo, come mai nessuno prima era riuscito a fare.
A spartire (talvolta soffrendo) la scena con questo gigante della recitazione, troviamo un’attrice altrettanto magnifica. Con The Father infatti, Olivia Colman - che, negli ultimi anni, ha sempre fatto la parte della fredda e autoritaria (Fleabag, La favorita, la terza e quarta stagione di The Crown) - dimostra di saper esprimere l’amore nel prendersi cura di un padre che forse ha sempre preferito l’altra figlia, il dolore nel constatare la propria difficile situazione e il peggioramento rapido e progressivo delle condizioni di salute di Anthony, ma anche il desiderio (misto al senso di colpa) nel voler andare avanti con la propria vita e sognare un futuro diverso, migliore, magari più avvalorante. Il tutto attraverso un impiego ed uno studio impercettibile ma fruttuoso delle micro espressioni.
Segue poi un parterre ristretto di caratteristi, composto da un Mark Gatiss (tra le menti creatrici di quel gioiellino di Sherlock) algido, una Imogen Poots con cui il 83enne ritrova (o perde?) un pezzo di sé, un Rufus Sewell virilmente sprezzante ed una Olivia Williams che, sul finale, sembra quasi recuperare un ruolo ed una dimensione di nido, rifugio e calore materno.
Tra i tanti meriti che ha la pellicola di Zeller (alcuni già elencati, altri seguiranno), il più essenziale (è da lui, infatti, che discendono tutti gli altri) è probabilmente l’inaspettata bravura e maestria, da parte del giovane drammaturgo (al suo primo approccio con la regia cinematografica, ricordiamo!), nel dar vita ad un’opera che mantiene l’impostazione teatrale della pièce di riferimento nell’importanza riservata agli attori, al dialogo e alla scenografia, ma che contemporaneamente conosce e sa sfruttare, in modo meticoloso e funzionale, le specificità del linguaggio e del mezzo cinematografico.
Prima di procedere oltre, è bene però fare un paio di precisazioni rispetto a quanto avete appena letto. Difatti, pur essendo così innegabilmente teatrale e dando importanza ai pilastri del palcoscenico quali attori, dialogo e scenografia (quest'ultima vorremmo però escluderla dal ragionamento in essere), The Father non cade mai in quella paralisi noiosa ed ammorbante tipica di gran parte delle opere teatrali trasposte sul grande schermo e, a dispetto di ciò che si potrebbe pensare, è tutto fuorché un film di (soli) attori o un’opera che deve tutto ciò che è e tutto il proprio senso alle sole interpretazioni.
Infatti, seppur alla sua prima esperienza registica, Zeller non si lascia guidare (o, almeno, non fino in fondo) dai veterani Hopkins e Colman, ma imbastisce una propria idea registica chiara e puntuale fin dall’inizio, ancor prima di sfiorare “gli intoccabili” (appunto, Hopkins e Colman) con il proprio cine-obiettivo. Pertanto, nella concezione (visiva e visuale) che il francese ha del suo The Father, i veri protagonisti - ancor prima degli attori e dei personaggi che questi ultimi interpretano - sono la scenografia (eccola) di Peter Francis e il montaggio di Giōrgos Lamprinos. Dunque, i rispettivi elementi peculiari, specifici e caratterizzanti delle due anime e dei due linguaggi (teatrale e cinematografico) che, come suggerito sopra, nel film di Zeller arrivano a fondersi e a coabitare senza frizione alcuna.
In tal senso, il regista decide di subordinarsi, di acquietarsi, di fungere da mero direttore d'orchestra, di limitarsi solo ed esclusivamente ad un ottimo uso del campo/controcampo, ad uno studio accurato dei punti macchina e a movimenti essenziali e calibrati, così da far emergere maggiormente il lavoro di concerto - l'uno spaesante, l'altro immersivo - compiuto dai due "compagni di viaggio".
Spaesante, infatti, è soltanto uno dei tanti aggettivi che si potrebbero proporre (e nessuno di questi sarebbe sprecato) a definizione del lavoro scenografico, a dir poco magistrale, intrapreso da Peter Francis in The Father. Un dedalo legato a doppio filo con la realtà rappresentata e i suoi personaggi, con i quali sembra interagire e comunicare, ma di cui è anche specchio interiore e psicologico e (per noi spettatori) sintomo (utile alla comprensione) di una condizione esistenziale in lento disallestimento. Uno studio sullo spazio casalingo, quello non solo di Francis ma anche di Zeller [come nella migliore tradizione teatrale, il film è quasi tutto ambientato in interni, è una specie di Kammerspiel], che gioca con l'orrore sotto diversi punti di vista.
In primo luogo, con l'orrore come genere cinematografico e, più nello specifico, come sotto filone: l’home invasion. Numerose sono infatti le sequenze in cui Anthony, da solo in casa, sente entrare dalla porta qualcuno che non conosce proprio o non riconosce più e in cui quindi il senso di invasione del proprio spazio protetto assume e viene percepito in maniera tipicamente thriller/horror.
In secondo luogo, con l’orrore come horror vacui, come paura del vuoto, che qui assume connotazioni più simili alla paura della perdita di un contatto, di un appiglio, di un’ancora di salvezza per e con la realtà (vedi l’insistente ricerca dell’orologio o il guardare fuori dalla finestra come gesto rassicurante di conferma o sogno di una realtà altra, forse migliore, ma pur sempre di una realtà).
In terzo luogo, con l’orrore come (il ben più banale) orrore della malattia, per la cui trattazione Zeller predilige, a differenza dei ben più tradizionali Ella & John o Still Alice, il (vero) punto di vista (spaesato, frammentato e confuso) e il dramma di Anthony, senza però disdegnare comunque quello dei familiari, parimenti doloroso e toccante. Sensazione, quella di chi scrive, confermata proprio dalla stessa scenografia che, alla stregua di quanto visto ne Il cattivo poeta, fabbrica uno spazio etereo e fantasmatico, popolato ed invaso, a sua volta, da fantasmi.
Ed è proprio a quest’ultimo punto e a questo “spazio fantasmatico ed etereo” che si riallaccia, d’altra parte, il montaggio del già citato Giōrgos Lamprinos: probabilmente l’aspetto più “innovativo” e fresco di questo The Father (soprattutto se collochiamo quest’ultimo in quel filone di cui fanno parte, per l’appunto, opere come i summenzionati Ella & John e Still Alice). Immersivo è quindi solo uno dei tanti aggettivi con cui potremmo definire un editing che, da solo, costituisce e costruisce buona parte dei motivi di successo della pellicola. I personaggi avrebbero potuto essere muti, dire due parole in croce o emettere versi per la maggior parte del tempo e non sarebbe cambiato nulla; il senso e la potenza di The Father sarebbero rimasti invariati.
E’ infatti il montaggio (come sostengono molti teorici del cinema, lo specifico filmico; la disciplina propria esclusivamente del cinema e che la contraddistingue da altre forme espressive) a produrre il contenuto, a sostanziare e a definire la logica dell’esperienza di visione, non tanto il racconto, l’intreccio o la sceneggiatura (per la quale comunque, lo ricordiamo, Florian Zeller e Christopher Hampton hanno vinto l’Oscar).
Non è quindi importante cosa si racconta, quanto più come lo si racconta. Ovverosia attraverso una narrazione e sintassi visiva perfettamente coincidenti con la realtà di Anthony e dunque ancor più immersive, scomposte, disordinate, dispersive, mai (im)mediate, fatte di sequenze palindrome, interrotte in un punto e riesumate e concluse in un altro; sempre prossime alla disgregazione, all’implosione, al totale e completo caos. Una narrazione, quella di The Father, che purtroppo trova un proprio ordine ed una coerenza mai avuta (e qui il film cade in fallo) in un finale che, sì, regala il momento emotivamente più alto del racconto, ma appare fin troppo accondiscendente ai bisogni del pubblico e non più alla logica interna della pellicola.
Pur nell’essenzialità a cui prosciuga racconto e messa in scena e negli echi del teatro che si sentono, forti e chiari, ogni qualvolta si gira l’angolo, in ognuna delle inquadrature e nel garbo e nella classe con cui si custodisce gelosamente la chiave di volta dell’intero racconto, pur essendo un giallo senza omicidio(?) od omicida, The Father è un film che colpisce come pochi.
Di lui, apprezziamo la sublime interpretazione di Anthony Hopkins, quella soffocata ma egualmente carismatica di Olivia Colman, l’utilmente sintetico lavoro registico di Florian Zeller, la scenografia strutturalmente e semanticamente complessa, la perfetta fusione di due linguaggi spesso erroneamente equiparati, il montaggio perturbante e disorientante, il ritmo e le accezioni da thriller psicologico (e quindi la contaminazione di generi e filoni opposti), anche i più piccoli dettagli e tutti quegli aspetti apparentemente secondari, come la magnifica colonna sonora di Ludovico Einaudi (The Father è il secondo film da Oscar di quest’anno, dopo Nomadland, che impiega le sue musiche), i bei costumi di Anna Robbins o il trucco di Nadia Stacey (un punto di contatto con il recente Crudelia), che emergono timidamente, ma non per questo si danno per vinti.
Di The Father però, apprezziamo soprattutto l’uso oculato e parsimonioso che un esordiente come Zeller (dal futuro indubbiamente roseo e stimolante) fa del cinema: un mezzo esatto e perfetto, di matrice scientifica; per (rap)presentare viceversa un qualcosa di sconosciuto, imperfetto e misterioso: la mente umana.
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