TITOLO ORIGINALE: Il cattivo poeta
USCITA ITALIA: 20 maggio 2021
REGIA: Gianluca Jodice
SCENEGGIATURA: Gianluca Jodice
GENERE: drammatico, biografico, storico
Nella primavera del 1936, il giovane neofederale di Brescia Giovanni Comini viene inviato al Vittoriale, per conto del regime fascista, con la missione di sorvegliare, spiare e dissuadere ogni tentativo di opposizione da parte di un Gabriele D'Annunzio sempre meno fiducioso e confidente dell’avvenire, della piega filotedesca che sta prendendo il paese e delle decisioni del Duce.
L'esordio cinematografico di Gianluca Jodice è un dramma storico dagli slanci filologici che, in apparenza, vorrebbe raccontare gli ultimi istanti di vita del poeta vate Gabriele D'Annunzio al Vittoriale, ma che in realtà mette in scena una convergenza politico-generazionale che è anche un omaggio alla dissidenza. Forte di una regia dalla concettualità solida e precisa, di alcune ottime interpretazioni (tra cui quella di un ispiratissimo Sergio Castellitto) e di un comparto tecnico-estetico sempre funzionale al senso ultimo del racconto, Il cattivo poeta è il ritratto crepuscolare di un uomo piccolo, vecchio, disilluso e fragile che si sente tradito da coloro che, fino a qualche anno prima, lo elevavano ad eroe nazionale. Un ritratto che intercetta precisamente il contesto e il dramma di un paese sull'orlo di una guerra inutile e sanguinaria. Il ritratto di un uomo nel suo ultimo tentativo di "scrivere un romanzo che superi tutti gli altri" di condizionare la Storia di un popolo che di lui ricorderà soltanto "piume di pavone". Un'ottima opera prima che riesce a toccare le vette del grande cinema in più di un'occasione.
“D’Annunzio è come un dente guasto. O lo si ricopre d’oro o lo si estirpa”. Con queste esatte parole, nella primavera del 1936, il segretario del partito fascista Achille Starace e alcuni tra i maggiori gerarchi fascisti assegnano al giovane neo federale di Brescia Giovanni Comini una missione (a loro avviso) vitale per il futuro della patria. Questi viene pertanto inviato al lago di Garda, più precisamente al Vittoriale, per spiare e dissuadere ogni tentativo di opposizione da parte di una delle figure più importanti ed influenti del paese, subito dopo Mussolini.
Alcuni “uccellini” attesterebbero infatti che il poeta vate, “l’Immaginifico” Gabriele D'Annunzio sembrerebbe sempre meno fiducioso e confidente nel futuro e nella piega filotedesca che pian piano sta prendendo il paese, così come nelle decisioni del Duce - che ormai lo ignora e disdegna completamente. Per la reggenza, queste sue posizioni sediziose ed insurrezionali, a lungo andare, potrebbero rappresentare un problema per l’equilibrio, il prestigio e l’immagine del fascismo e il generale clima di utopica positività che sta attraversando il paese.
In particolare, vista la nomea che l’artista si è costruito e il rispetto e i consensi che ha ottenuto a seguito della rocambolesca impresa di Fiume - avvenuta poco dopo la fine della prima guerra mondiale - e che tuttora pare conservare presso il popolo italiano.
Così (e con il cantato di Rodolfo De Angelis in Ma cos'è questa crisi?) prende il via Il cattivo poeta, opera prima del “groenlandese” Gianluca Jodice (impegnato in regia e sceneggiatura), con produzione di Andrea Paris e Matteo Rovere, che mette in scena, attraverso l’incontro con una figura più giovane, incantata ed acerba di lui, il ritratto crepuscolare di una personalità controversa, ambigua, talora paradossale, di un intellettuale poco conosciuto dagli italiani (al di dentro e) al di fuori dell’ambito scolastico, di un uomo disprezzato specie per l’ultima porzione della sua biografia (dalla questione di Fiume all’aderenza al fascismo), di un esteta familiare ai più per la sua trivialità e “le storielle (leggende) piccanti” [la rimozione di una costola per l’auto fellatio su tutte].
Ciò nonostante, Il cattivo poeta si libera fin da subito dei cliché, dei luoghi comuni, dell’aneddotica, del detto e ridetto, operando un lavoro di sintetizzazione ed introspezione della persona dietro al personaggio interamente concentrato su uno studio metodico, accurato, quasi filologico degli scritti del periodo gardese dell’autore e ad un’estrapolazione e reimpiego di questi ultimi per fini drammaturgici.
Si viene a creare così un intreccio che, per certi versi, ricorda le premesse e i pretesti iniziali di Apocalypse Now!: ad un soldato giovane, fedele e ligio viene assegnata una missione speciale coeva al conflitto e alla tragedia (la guerra del Vietnam) alla ricerca di un vecchio e fu fedelissimo, ora disertore, che ha perso il lume della ragione e si è ritirato nel fitto entroterra cambogiano. Ma che, per la crepuscolarità biografica, l’importanza storica e l’italianità della figura trattata potrebbe anche essere accostata (seppur con un carosello di differenze) al ben più recente Hammamet, in cui ritroviamo, anche se in maniera più flebile, la questione dell’incontro tra vecchia e nuova generazione.
Prendiamo quindi in prestito l’incipit del capolavoro di Coppola, sostituendo al contesto bellico vietnamita l’Italia fascista di fine anni ‘30 - sempre più vicina all’asse Roma-Berlino -, e al capitano Willard il federale Comini. “Preferiamo” a Marlon Brando/colonnello Kurtz un Sergio Castellitto (nei panni de ”il comandante” Gabriele D’Annunzio) fisionomicamente azzeccato e perfettamente in parte - come non bastasse, facendogli pronunciare parole o pensieri realmente scritti o espressi dal vate. E diamo maggior risalto (di quanto non abbia fatto Amelio nel biopic con Favino) all’incontro e alla confluenza politico-generazionale, con tutte le conseguenze e le risultanti del caso.
Avremo così la perfetta definizione e radiografia de Il cattivo poeta, un’opera che certo non raggiungerà (e non vuole neanche paragonarsi a) l’afflato e l’iconicità del cult movie del 1979, ma che, a nostro avviso, si dimostra decisamente superiore al e con una concettualità più robusta e consistente rispetto a quella del già citato Hammamet.
Ebbene, Gianluca Jodice imbastisce e confeziona un dramma storico che ribalta ogni qualsivoglia aspettativa in merito a quanto si poteva scorgere da trailer, clip e materiali promozionali. Innanzitutto, a differenza degli ultimi sei mesi di vita di Bettino Craxi così come visti nella magniloquente pellicola di Amelio, o anche solo dell’ottimo neo vincitore di 7 David di Donatello Volevo nascondermi, Il cattivo poeta è un film che non si prostra ai piedi e in funzione di un grande attore, la cui interpretazione determina la buona o la mala sorte del prodotto. Al contrario, esso presenta e ribadisce in modo premuroso ed insistente la presenza di una struttura, di un’anima compositiva complessa e dettagliata, di un’istanza visuale e narrante a cui spetta sempre e comunque l’ultima parola. Castellitto appare quindi più contenuto, servizievole nei riguardi della pellicola e dei suoi scopi ultimi, si potrebbe dire quasi ingabbiato e sovrastato in alcune sequenze.
Tuttavia, questa sua posizione interpretativa all’interno del film - ma anche dello stesso fotogramma - coincide con un ruolo intradiegetico, quello del personaggio di Gabriele D’Annunzio, a sua volta spesso defilato, sottratto, celato ed ermetico rispetto allo sguardo introspettivo della macchina da presa, a quello dello stesso federal Comini e, di conseguenza, rispetto a quello dello spettatore. Federalino, quello interpretato da un Francesco Patanè che “sembra arrivare da un film di Pupi Avati” e la cui espressività ed evoluzione diegetica - da “ragazzino” ottimista, tronfio, un po’ insolente a dissenziente deluso - la macchina da presa di Jodice sa restituire molto bene; e suo naturale percorso di incontro con il vate e di seguente disillusione e presa di coscienza, che a conti fatti costituiscono gli effettivi protagonisti del racconto.
Il nostro Comini serve perciò da “strumento per appianare il dissenso”, ma anche da strumento narrativamente funzionale - vista la sua inesperienza e la sua ingenuità rispetto al mondo (diegetico), al reale contesto storico e allo stesso D’Annunzio (che conosce, come noi spettatori del resto, solo per sentito dire) - al fine di instaurare e puntellare una compartecipazione (umana ed esperienziale prima, ideologica poi) del pubblico nei confronti della vicenda e così favorire la creazione di aspettative, che sono poi le stesse che prova il personaggio ogniqualvolta debba presentarsi “al cospetto” del poeta. Ecco quindi che il punto di vista dello spettatore si allinea perfettamente e precisamente con quello del federalino e, col passare dei minuti e dei (quattro) capitoli, aderisce sempre più alla sua percezione e prospettiva rispetto a quanto sta avvenendo su schermo e davanti ai suoi occhi.
Tuttavia, nell’abbracciare la scoperta di Comini del D’Annunzio segreto ed intimo, lo spettatore partecipa anche e soprattutto al suo individuale disvelamento del vero volto del fascismo (che, ovviamente, il giovane ignora e noi, pubblico edotto dei fatti, probabilmente dovremmo conoscere), nella cui rappresentazione Jodice rivela la stoffa di un possibile nuovo e futuro grande cineasta. Difatti, mentre il racconto ci introduce alle dinamiche dei primi incontri tra il fascista e il vate e al dramma dei due personaggi principali, il regista narra e mostra - quasi di sfuggita, tra un’inquadratura e l’altra, negli interstizi dell’immagine - tutt’altra tragedia, ben più ampia, collettiva e totalizzante.
Un dramma - che è poi quello del confino di intellettuali e personalità scomode, della soppressione dei contestatori, del dilagare del germe del sospetto - che, verso la metà del racconto, irrompe e si converte in un elemento drammaturgico centrale e determinante che incontra il suo massimo punto di climax in due momenti ben precisi. Uno è quello della visita “a sorpresa” del federale ai genitori, l’altro invece è l’interrogatorio del professore nei sotterranei del palazzo del fascio di Brescia.
E, se nel primo il fine ultimo è mostrare la rapida diffusione del morbo del terrore (di essere arrestati e confinati per dissidenza) a livello psicologico e in maniera semplice ma efferata (i genitori iniziano quasi a temere il figlio e il suo ruolo, tanto da sentirsi colpevoli anche solo per avere macchiato con del vino una fotografia del Duce sul giornale); nel secondo il dramma del sospetto e della “caccia alle streghe” è rivelato in tutta la sua immediatezza, con un occhio di riguardo alla banalità e alla pretestuosità del male (in questo caso, del fascismo), personificata incisivamente da un ottimo Lino Musella: solo uno dei tanti e talentuosi caratteristi (Tommaso Ragno, Elena Bucci e Massimiliano Rossi su tutti) che arricchiscono la fauna attoriale - purtroppo non sempre valorizzata al meglio - della pellicola.
Detto ciò, sono però i momenti in cui D’Annunzio è presente (direttamente o indirettamente) in scena che Il cattivo poeta realizza le sue massime aspirazioni tecnico-concettuali. Un vate che, seguendo il summenzionato taglio sintetico ed essenziale della storicità della figura, Jodice sceglie astutamente di (rap)presentare nella forma e nelle fattezze di un uomo piccolo, vecchio, avvizzito, disilluso, nervoso, probabilmente impotente, e quindi fragile, che si sente tradito e disprezzato dal paese che, fino a qualche anno prima, lo inneggiava ed elevava ad idolo intoccabile. Un piccolo uomo la cui grandezza non è insita ed esibita tanto da quello che dice o quello che fa, quanto più da dove e come appare: attraverso il vestiario, il modo di fare e di muoversi, i rapporti che intrattiene con coloro che lo circondano, il contesto e l’ambiente in cui si trascina.
Jodice pertanto scinde il D’Annunzio monumentale ed irraggiungibile da quello umano, gracile e crepuscolare, pone in secondo piano il ritratto più didattico, agiografico e Storico a favore di un recupero della storia di un eroe del passato mostratoci in tutte le sue frustrazioni, nell’avvilimento e nella depressione più totali, nella malinconia, nello struggimento e nei rimpianti della sua ultima fase di vita. Così apparentemente superiore e sovrastante, ma allo stesso tempo così mortale e comprensibile. Re di un mondo, il Vittoriale (non una ricostruzione in studio, ma quello autentico), che costituisce una specie di proiezione geografica e spaziale della sua condizione individuale e psicologica e che, in quanto tale, il regista scompone, riassembla e restituisce cinematograficamente a proprio usufrutto e convenienza.
E’ in questi particolari frangenti che Jodice (di)mostra un'inattesa abilità nella costruzione e nella composizione registica dei luoghi e dei luoghi in funzione dei propri personaggi. Di conseguenza, del Vittoriale non si offre una visione da cartolina o da tour guidato, ma piuttosto quella di un ambiente soffocante e soffocato, ontologicamente ossimorico (d’altra parte, come fa un poeta ad essere cattivo?), figlio dell’inganno, del tradimento, del compromesso (il dente ricoperto d’oro perché “guasto”), traboccante di fantasmi del passato. Un vero e proprio universo in cui ogni angolo, ogni pezzo di arredo od oggetto esposto fa subodorare - pure quando questi non è effettivamente in scena - la presenza (fantasmatica) di D’Annunzio, la quale si rifrange anche su tutti coloro che vivono al suo interno (e vicino a lui) o che solo osano varcarne la soglia.
Unitamente a ciò, quello che realmente conta nel processo di composizione spaziale - al contempo, proiezione del paesaggio interiore dei personaggi e significazione implicita di rapporti, situazioni ed ideologie - è la contrapposizione tra le due principali tipologie di location su/in cui si dipana il racconto. E non solo dal punto di vista registico, ma anche e soprattutto fotografico. Da un lato abbiamo quindi il Vittoriale e quanto appena riportato, unito ad un lavoro fotografico (di Daniele “Il primo re” Ciprì) che non fa altro che rinforzarne la semantica e la parvenza fantasmatica ed angosciata (così come angosciato è D’Annunzio). Dall’altro abbiamo invece i luoghi del potere, saloni anatomicamente imponenti (a concretizzazione del dominio fascista in Italia) ma internamente vacui e freddi (quasi metaforici della vacuità morale dell’ideologia di chi, da quei luoghi, guida il paese). Palazzi del fascio o governativi che regista e direttore della fotografia rappresentano con egual e coerenti freddezza e distacco.
Tale contrapposizione di luoghi e di ecosistemi - da cui non si riesce ad evadere o a cui si dovrebbe appartenere per conformismo, convenzione ed autoconservazione -, che è poi il naturale prolungamento dell’opposizione, non sempre ben delineata ed espressa dal mezzo cinematografico, tra D’Annunzio e stato fascista (con, come soggetto di contesa, la fedeltà del neo federale); vede come valvola di sfogo uno, se non il miglior frammento de Il cattivo poeta. L’arrivo di Mussolini - di ritorno dalle trattative con Hitler in Germania - alla stazione di Verona Porta Nuova e il coevo tentativo (ovviamente superfluo), da parte di D’Annunzio, di dissuaderlo dal stringere un’alleanza con “quel nibelungo con i baffetti da Charlot” è probabilmente il momento in cui la macchina di Jodice arriva a toccare le vette del grande cinema, conducendo l’intreccio e i discorsi del film verso lidi che chi scrive francamente riteneva impensabili.
La regia precisa e rigorosa nel delineare - senza che alcuna parola venga proferita - i rapporti di forza tra i due, la prova di un Castellitto che dimostra veramente la propria sinergia con ed immedesimazione nei panni del vate, una colonna sonora (di Michele Braga) che non disdegna una tensione epica ed epocale - quasi da last minute rescue -, il montaggio meticoloso ed equilibrato, la scelta di casting semanticamente funzionale per l’interprete di Mussolini (non riusciremo a trovare parole più azzeccate di quelle di Francesco Alò: “una maschera grottesca in movimento [...] che non è nemmeno più umana, ma un pupazzo”).
Tutto quanto mostrato (e non) contribuisce all’ultima fatica di questo uomo vecchio, avvilito e disilluso che - resosi conto dell’evidenza dei fatti e dell’impossibilità di cambiare il corso degli eventi; dell’essere stato espropriato del proprio “palcoscenico”; del fatto che ora agli italiani piacciano solo le “cattive rappresentazioni” - non gli resta altro da fare se non abbracciare un soldato che, qualche anno più tardi, combatterà, magari perdendo la vita in una guerra violenta, sanguinaria e pressoché inutile. Una guerra che egli, in quanto vate (che significa anche profeta), tenta invano di bloccare e destabilizzare.
L’ultimo tentativo di un uomo, che “ha più passato che futuro” e che ha fatto della propria vita il suo massimo capolavoro; che - all’incontro con un altro uomo “che ha più futuro che passato” - decide di scrivere “un romanzo che superi tutti gli altri” e condizionare un domani che di lui ricorderà soltanto “piume di pavone”. Una forza - quella di questi pochi, ma notevoli minuti - che nessuna svista tecnica (nei movimenti di macchina, l’obiettivo utilizzato dà adito ad un’immagine convessa e dagli estremi orizzontali sfocati) o banalità di mezzi drammaturgici (come nel caso dell’amorazzo tra Giovanni e Lina) potrà mai vincere.
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