TITOLO ORIGINALE: Il primo re
USCITA ITALIA: 31 gennaio 2019
REGIA: Matteo Rovere
SCENEGGIATURA: Filippo Gravino, Francesca Manieri, Matteo Rovere
GENERE: epico, storico, azione
PREMI: 3 DAVID di DONATELLO tra cui MIGLIORE AUTORE della FOTOGRAFIA e MIGLIOR PRODUTTORE
Il racconto, tra storia e mito, del conflitto fratricida che diede la luce al primo e più grande impero della storia: l’impero romano. Vincitore di tre premi alla scorsa edizione dei David di Donatello, Il primo re rappresenta l’affermazione autoriale del regista capitolino Matteo Rovere (Veloce come il vento), il quale, mediante una regia consapevole ed una messa in scena simbolica, dà vita ad una pellicola cupa e brutale, che umanizza la figura di Romolo e di Remo, offrendo inoltre un approccio personale ed intimista alla grande narrazione della genesi di Roma. La raffigurazione di una pietra fondante la civiltà e la nostra modernità che si converte in fondamento dell’attuale rinascita del cinema italiano di genere.
“Un dio che può essere compreso non è un Dio”. Con questa citazione in esergo dello scrittore e commediografo William Somerset Maugham, noto per il modo cinico, cupo e brutale, ma in fondo sensibilmente umano, con cui trattava vizi e squilibri degli uomini, prende il via la trama de Il primo re - quarto lungometraggio, vincitore di tre statuette agli scorsi David di Donatello, del capitolino Matteo Rovere. E - con riferimento nuovamente ai tratti fondamentali della poetica di Maugham - proprio questo è Il primo re: una pellicola cupa e brutale, ma profondamente umana, che analizza vizi e squilibri di uomini e donne, tuttavia, non a cavallo fra ‘800 e ‘900 (come nel caso dello scrittore britannico), bensì nel ben più remoto ottavo secolo a.C. Nonostante ciò, l’opera di Rovere è, in primis, il racconto, tra realtà e mito, della genesi del primo grande impero della storia: Roma. Una narrazione, quella dell’impero romano, cinematograficamente approfondita e ormai sdoganata, ma manchevole - ora non più - di una pietra fondante, di un punto d’inizio. Ebbene, Il primo re assurge proprio a tale scopo, “sbattendoci in faccia” l'avvento dell’imperialismo e, al contempo, le nostre lontane origini.
Eppure, l’intreccio della pellicola affonda le proprie radici in un’era ancora precedente rispetto a questa monumentale e gravosa fondazione, nata e consumata nel sangue, nel dolore e nelle fiamme; rispetto al momento in cui bisogna iniziare a tremare, poiché “questa è Roma” (per citare il finale del film). Un tempo in cui non eravamo altro che pastori primitivi e rozzi, piegati e definiti dalla forza o clemenza della natura; nomadi istintuali e superstiziosi alla costante ricerca della più basilare forma di sostentamento; uomini fatti di carne prima che di spirito. Pastori, nomadi e uomini come Romolo (Alessio Lapice) e Remo (Alessandro Borghi), i due gemelli avvolti nelle pieghe del mito e della storia; i fratelli - figli del dio Marte e della vestale Rea Silvia - che, abbandonati in una cesta affidata alle correnti del fiume, vennero poi ritrovati e allattati da una lupa; i fondatori, rei di una sanguinosa lotta fratricida, del regno (tramutatosi prima in repubblica e poi in impero) più esteso di sempre. Come intuibile e affermato in apertura, proprio quest'ultimo aspetto - quello della creazione e del conflitto fraterno - è il focus principale della creatura filmica di Rovere che, relegando l’infanzia dei suoi due protagonisti ad un breve e funzionale flashback, scaraventa, fin da subito, lo spettatore nel vivo dell’azione. Difatti, se, per tutta la sua durata, l’impalcatura filmica si dimostra abile nel dosare le fasi più spettacolari ed intrattenenti del proprio racconto, l’incipit de Il primo re si configura come puro spettacolo visivo e sensazionale.
Prendendo in contropiede un pubblico ormai abituato a drammi storici estremamente realistici e concreti (Il primo re è anche questo), la narrazione di Rovere scaraventa i due pastorelli predestinati in un’esondazione del fiume Tevere - il corso d’acqua che bagnerà la città che uno di loro sarà chiamato a fondare e governare - dalle proporzioni bibliche. Questa sequenza, così come tante altre durante il corso del film, si rivela significativa nella comprensione degli intenti narrativi ed argomentativi della pellicola, in quanto brutalità e sofferenza (in questo caso, soprattutto fisica) provate dai protagonisti sono soltanto una piccola parte del dolore che sperimenteranno nel loro percorso di presa di coscienza del proprio fato: fondare o morire per la nascita di Roma - rappresentata, a sua volta, dal fiume che li travolge e abbatte. Quest’azione di stravolgimento di preconcetti e aspettative dello spettatore medio (e di riferimento) è successivamente ribadita dal trattamento ed elaborazione del rapporto tra i due gemelli che, scuotendo ed umanizzando il resoconto convenzionale e rituale di storici come Plutarco ed Ennio, si mostra come compassionevole, premuroso e sincero. Una relazione, quella tra Romolo e Remo, sviluppata senza sentimentalismi inopportuni e senza quell’approccio patetico che tenta di catturare lo spettatore a tutti i costi, facendolo parteggiare inutilmente per uno dei due. Inutilmente proprio perché, nonostante alcuni tratti magico-fantastici e qualche digressione rispetto al mito originale, il mondo de Il primo re risponde comunque a regole e ad una totale fedeltà rispetto agli esiti dello scontro fratricida che decreterà l’alba della Città Eterna. Malgrado ciò e a tal proposito, sceneggiatura e rappresentazione si servono curiosamente degli occhi e del punto di vista dello sconfitto (Remo) - che diventa effettivamente il protagonista assoluto di gran parte del film -, imponendo pertanto un ribaltamento ottico e percettivo che talvolta riesce a sopprimere persino la coscienza storica precostituita dello spettatore. Questa illusione viene però annientata, in un secondo momento, da un finale che è, allo stesso tempo, principio di un qualcosa di ben più grande di quanto presentato poc’anzi (come testimoniato dalla cartina che fa da sfondo ai titoli di coda), e vincolo unitario di elementi e simboli ricorrenti.
Infatti, oltre ad essere il ritratto di un amore fraterno, che si converte poi in omicidio e origine, Il primo re è un film fondato su un contrasto di ideali che, parimenti al conflitto fraterno, non risulta mai in equilibrio o conciliazione tra le due parti. Sullo sfondo e contesto di un duello fisico e reale (anti-eroico e stanco), si avvicendano dunque altrettanti confronti intellettuali e metaforici, idealmente incarnati e sostenuti proprio dai figli della lupa (gli originali). Corpo e anima, miscredenza e fede, autonomia e schiavitù, primordialità e civiltà, superbia e umiltà, fame della carne e fame dello spirito, spietatezza e pietà: queste sono solo alcune delle molteplici dicotomie del racconto de Il primo re, raffigurate e ravvivate posteriormente da una messa in scena abile e sottile che dà vita ad inquadrature significative ed eloquenti, a livello allegorico e di significato. In tal senso, tra le sequenze da citare, vi è sicuramente quella in cui Remo chiede alla vestale di proteggere il fratello, mentre questi si reca nel profondo della foresta per cacciare. Invero, in questo frammento, basato interamente su un campo-controcampo tra i due personaggi, Remo chiede aiuto e protezione alla sacerdotessa - custode del sacro e del divino -, dando le spalle al fuoco (simbolo stesso di suddetto divino) del bivacco. Ciò che superficialmente potrebbe apparire come una semplice scelta rappresentativa (che apre poi la strada ad uno dei ritratti forse più selvaggi e brutali del personaggio), assume tuttavia un significato ancor più profondo e caratteristico nella scena in cui questi si autoproclama Dio, soverchiando figurativamente il volere del fratello e concretamente la figura della custode: la posizione spaziale di Remo rispetto al falò diventa così sintomo del suo pensiero e connessione con il sacro, che egli oscura, ponendosi in primo piano. Questa intuizione potrebbe essere benissimo frutto di un’analisi personale e malintesa dell’immagine. Malgrado ciò, questa assume un barlume di maggior concretezza, se fusa e contestualizzata con il gioco di luce/ombra con cui vengono fotografati la fisionomia e il fisico dei due gemelli, man a mano che questi vengono edotti del proprio destino.
Questa forma e tecnica tanto intense quanto delicate - contraddistinte, in ultima battuta, da una regia che sa bilanciare tutte le componenti (drammatica, action, spettacolare, intimista, storica, fantastica) del proprio intreccio, determinando una progressione ed esperienza filmica dal ritmo inusuale e alterno, ma bilanciato; da un montaggio complessivamente valido, seppur confusionario in alcuni momenti frenetici, da effetti speciali e visivi fenomenali e da una fotografia reale e umidiccia (merito della scelta di riprendere il tutto con l’utilizzo della luce naturale) - non sono però l’unico motivo ed ingrediente dietro l’eccellente riuscita de Il primo re. Infatti, l’opera di Rovere non è soltanto un film visivo e corporeo sulla carne, ma anche uno studio e analisi su parola e oralità, così come testimoniato dalla scelta di far recitare gli attori in protolatino - possibile soltanto grazie ad un lavoro enorme di rivitalizzazione, ricostruzione ed ibridazione, svolto insieme a semiologi e studiosi. A differenza di quanto si potrebbe pensare, questa decisione artistica non ostacola minimamente la comprensione o il naturale fluire del racconto, rendendo il tutto ancor più verosimile - anche gli elementi e tratti più chimerici ed immaginifici - e coinvolgente e presentando su schermo una nuova e coraggiosissima modalità di rilancio e riqualificazione della Storia.
Non riuscirei a trovare parola migliore di “coraggioso” per definire e descrivere Il primo re di Matteo Rovere - che, con questo lavoro, guadagna pienamente e definitivamente lo status di autore a tutto tondo. Un coraggio, quello di Matteo Rovere e dell’intera produzione, che ha trovato fama e successo soprattutto all’estero - dove il film ha registrato un boom di vendite con incassi spesso superiori a quelli del botteghino italiano. Un film, dalla graffiante e violenta potenza, che fa del corpo il proprio fulcro espressivo (basti vedere lo studio compiuto dalla macchina da presa); una pellicola che rappresenta contemporaneamente uno dei punti più alti della carriera di Alessandro Borghi e una sorta di primo approccio al grande cinema da parte di Alessio Lapice; la rappresentazione cinematografica delle nostre radici storiche; un “road movie” che richiede allo spettatore una considerevole, anche se istintiva, dose di concentrazione e partecipazione; una storia dalle punte fantasy che suggerisce allo spettatore la presenza di un mondo ed una cosmogonia ancor più estesa e di ampio respiro: Il primo re è molto più della semplice lotta tra due fratelli. Il primo re è una fusione densa e omogenea di temi, influenze, elementi, simboli; un urlo selvaggio e ferino che, pur riprendendo, rivitalizzando e rendendo appetibile un racconto vecchio di 30 secoli, arriva a rappresentare paradossalmente una delle opere caratterizzanti l’attuale rinascita del cinema italiano di genere e di qualità. Da raffigurazione di una pietra fondante la civiltà e la nostra modernità a vero e proprio fondamento cinematografico.