TITOLO ORIGINALE: Volevo nascondermi
USCITA ITALIA: 4 marzo 2020
REGIA: Giorgio Diritti
SCENEGGIATURA: Giorgio Diritti, Tania Pedroni
GENERE: biografico, drammatico
PREMI: Orso d'Argento per il MIGLIOR ATTORE al FESTIVAL DI BERLINO; 7 DAVID DI DONATELLO tra cui MIGLIOR FILM e MIGLIOR REGIA
La vita e le opere dell’artista Antonio Ligabue tra genio, sregolatezza, brutalità ed infantilismo. Giorgio Diritti, alla sua quarta esperienza registica, firma un biopic dalle intenzioni espressive chiare e limpide. Un’interpretazione mastodontica di Elio Germano, un comparto tecnico curato e preciso ed una caratterizzazione tenera e dettagliata del protagonista sono le colonne portanti del racconto di un uomo che, sacrificando tutta la sua vita in nome dell’arte, voleva raggiungere l’immortalità.
In seguito ad una distribuzione travagliata per via dell’emergenza sanitaria, esce, o meglio torna, nelle sale di tutta Italia Volevo nascondermi, biopic di Giorgio Diritti - premiato alla Berlinale con l’Orso d’argento per il miglior attore - che racconta la vita e le opere di Antonio Ligabue. Pittore e scultore autodidatta italiano, nato e cresciuto in Svizzera, questi è conosciuto principalmente per i suoi lavori brutali, diretti e graffianti, talvolta infantili, attraverso cui esprimeva sensazioni e sentimenti che, a parole, non era in grado di comunicare. Ed è proprio questo particolare lato della sua arte a ricoprire un ruolo fondamentale nel film di Diritti, diventando leitmotiv di un variegato mosaico di momenti, ricordi e memorie del Ligabue persona - prima che artista -, interamente fondato su un forte desiderio: nascondersi dietro le proprie creazioni. Raccogliendo il testimone della recente corrente di film biografici italiani - che vede in Il traditore di Bellocchio e Hammamet di Amelio, le sue vette maggiori -, Volevo nascondermi si configura, nell’ambito del panorama cinematografico nostrano, come un passaggio imprescindibile che, pur godendo di numerose influenze estere, diverrà punto di riferimento per tutti i cineasti che, in un prossimo futuro, vorranno cimentarsi con il genere.
Come specificato sopra, dietro la macchina da presa troviamo Giorgio Diritti, già vincitore di un David di Donatello nel 2010 per L’uomo che verrà, qui, alla sua quarta esperienza registica. Facendo completamente sua la psicologia e l’interiorità di una figura così sfaccettata e controversa come quella di Ligabue, Diritti riesce ad incuriosire lo spettatore sin dai primi istanti, catapultandolo nell’atipico e riservato mondo dell’artista - di cui ne coglie alla perfezione tratti distintivi e peculiari. Questo interesse e curiosità iniziali sono frutto di una gestione sapiente e tutt’altro che ammorbante del prologo riguardante l’infanzia e giovinezza del protagonista. Con relativa sorpresa, Diritti sceglie infatti di strutturare questa porzione di film - obbligatoria per comprendere la natura di traumi psicologici e nevrosi del protagonista - come agitato frutto della mente dello stesso Ligabue, mescolando, grazie ad un montaggio puntuale e preciso - supervisionato dallo stesso cineasta insieme a Paolo Cottignola - e sulla base di reiterazioni sonore e topoi narrativi caratterizzanti, flashback risalenti all’infanzia e gioventù dell’autore.
Queste prime sequenze non servono però soltanto a delineare, in modo essenziale ma meticoloso, il profilo di Ligabue, ma anche ad impostare la visione registica di Diritti e il ruolo che la sua macchina da presa ricoprirà per tutta la durata del film. Questa si pone infatti come un testimone oculare invisibile che non vuole e non tenta minimamente di penetrare l’interiorità del personaggio, pur mostrandolo talvolta in situazioni private ed intime e sfruttando occasionalmente la soggettiva. Fautrice di sequenze memorabili, simboliche e suggestive, la regia di Diritti conserva perciò, in tutto e per tutto, il mistero e il fascino del personaggio, senza mai “imboccare” ed aiutare eccessivamente lo spettatore nella piena comprensione del pensiero del Ligabue umano. Il pubblico deve impegnarsi attivamente nell’entrare ed immedesimarsi nei panni dell’artista. A questo proposito, una possibile chiave interpretativa è data proprio dalla sua pittura che, al contrario della soggettività, viene toccata in una maniera molto più ampia ed esauriente dalla sceneggiatura, scritta da Diritti insieme a Tania Pedroni.
Ligabue non può non scuoterci, non convincerci.
E’ indubbio che, nel momento in cui si decide di narrare la vita di un artista, grande enfasi è da riservarsi alla sua produzione artistica che, in molti casi, risulta indispensabile per comprenderne biografia e pensiero. Nel caso di Ligabue, questa caratteristica è quanto mai rilevante e centrale. Come già affermato, l’arte è una chiave interpretativa della soggettività dell’autore, proprio perché egli ha convertito tutta la sua vita alla composizione di opere, divenute celebri anche al di fuori dei confini nazionali. Proprio questo stretto legame tra vita ed artisticità - che, nella sua trattazione, ricorda moltissimo il lavoro compiuto da Schnabel in Van Gogh - Sulla soglia dell’eternità -, oltre ad essere uno dei fil rouge principali del racconto che si viene a costruire, permette agli autori di sviscerare tutti i differenti aspetti che vanno a comporre la figura e l’arte di Ligabue.
Rispettando fedelmente l’essenza comunicativa dei lavori del pittore/scultore - in cui, come ricordato sopra, questi, non potendo esprimersi correttamente, coadiuvava tutte le proprie sensazioni -, la sceneggiatura di Volevo nascondermi si affida principalmente all'espressività visiva delle diverse inquadrature, preferendo limitarsi, di conseguenza, a pochi dialoghi semplici ed essenziali. Trattando argomenti come, per esempio, il rapporto di Ligabue con la figura materna - e, di conseguenza, femminile -, con la natura, con la fama, con gli amici, con la religione, con la morte, il film di Diritti traccia un ritratto tangibile e umano che difficilmente scorderemo. Tutti questi temi confluiscono in una pittura vitale, aggressiva ed irruente che, nel corso del racconto, si converte in una perfetta sintesi del contesto rustico e contadino - ulteriormente sottolineato dalla scelta di mantenere i dialoghi in dialetto - di un’Emilia in pieno periodo fascista.
Questa caratterizzazione, così dettagliata e concreta, è successivamente potenziata ed elevata da un Elio Germano in stato di grazia che, in alcuni momenti, non solo ricorda, ma supera addirittura la mastodontica interpretazione di Favino ne Il traditore. Difatti, un grandissimo studio e consapevolezza interpretativa nella preparazione del proprio personaggio hanno permesso a Germano di autoeliminarsi come attore, lasciando il posto ad un’incarnazione di Ligabue che non lascia spazio a momenti imbarazzanti o macchiettistici. Questa decostruzione psicologica del personaggio trova il proprio riflesso in un’ambientazione incontaminata, messa in rilievo da una fotografia a metà tra l’idilliaco e il pittorico, e da una colonna sonora delicata e coerente con il cuore narrativo dell’opera.
Con Volevo nascondermi, Giorgio Diritti firma una collezione di istantanee della vita di un uomo che vedeva l’arte come un mezzo sia per comunicare sia per celare (o anestetizzare) tutti i lati sgradevoli e brutti concernenti il proprio passato e la propria persona - da qui il titolo del film. Nonostante i ripetuti sforzi, il suo aspetto e la propria esteriorità venivano comunque e ripetutamente a galla, risultando, a volte, talmente evidenti da oscurare le sue stesse opere d’arte. Un’interpretazione colossale di Elio Germano ed un ottimo comparto tecnico-narrativo sono le colonne portanti del racconto tenero e fragile di un uomo (prima che artista) che, votando tutta la sua vita all’arte e all’espressione di sé, voleva raggiungere l’immortalità.