TITOLO ORIGINALE: Cruella
USCITA ITALIA: 26 maggio 2021
USCITA USA: 28 maggio 2021
REGIA: Craig Gillespie
SCENEGGIATURA: Dana Fox, Tony McNamara, Aline Brosh McKenna, Kelly Marcel, Steve Zissis
GENERE: drammatico, commedia
DISPONIBILE ANCHE SU: Disney+
Nella Londra di metà anni '70, la giovane aspirante stilista Estella De Vil decide di assumere l'identità segreta di Cruella e organizzare una vendetta particolarmente poetica ai danni della baronessa von Hellman, spietata direttrice della più prestigiosa casa di moda della città, quando scopre che quest'ultima potrebbe essere coinvolta nella morte della madre.
Craig Gillespie, regista di Tonya (2017), dirige il quattordicesimo live action Disney che vede una Emma Stone stellare, magnifica e vincente (forse anche troppo) alle prese con la sua versione di uno dei villain, se non dei personaggi più iconici e memorabili del pantheon animato della casa di Topolino: Cruella De Vil. Una regia ipercinetica ma funzionale guida, attraverso movimenti di macchina e long take artificiosamente magniloquenti, una messa in scena che fa dell’estetica (semanticamente vacua) e della fascinazione visiva i suoi cavalli di battaglia. Tutto ciò, a fronte invece di un racconto purtroppo instabile, annoiato, prevedibile, nonché ritmicamente altalenante, che mischia il cinecomics con l'heist movie e il classico melò disneyano. Riabilitano (in parte) la situazione un cast che, nonostante tutto, riesce a mostrarsi immedesimato, divertente e divertito, una colonna sonora forte ed incisiva e alcune intuizioni legate soprattutto a trucco e costumi.
E’ (veramente) Il diavolo veste Prada, ma non vede Meryl Streep e Anne Hathaway tenersi testa e affrontarsi su schermo. Ha per protagonista un’antieroina schizofrenica, eccentrica e folle che vorrebbe (e dovrebbe) essere cattiva, ma la cui apparente malvagità è soltanto uno specchietto (commerciale e pubblicitario) per le allodole, poiché, in fin dei conti, è quasi sempre a favore di camera e/o nelle grazie del pubblico. Un po’ come Harley Quinn. O come il Joker, quello di Joaquin Phoenix, che, squilibrato e stravagante come lei, riesce a smuovere le folle, tenere in pugno una città intera e affermarsi come re del crimine. Il tutto “cantando” Smile di Jimmy Durante.
Ciò nonostante, come avrete già avuto modo di capire, quello che andremo a recensire nelle righe che seguono non è né il sequel de Il diavolo veste Prada o del Joker di Todd Phillips, né tantomeno (e per fortuna) un nuovo capitolo dell’odissea cinematografica del DCEU. Bensì Crudelia, quattordicesimo remake live action del nuovo ciclo disneyano, per la regia di Craig “Tonya” Gillespie, che vede una Emma Stone stellare alle prese con la sua versione di uno dei villain, se non dei personaggi più iconici e memorabili del pantheon animato della casa di Topolino.
Creata dall’autrice inglese Dodie Smith nel suo La carica dei 101 (1956) e trasposta al cinema cinque anni più tardi dai creativi Disney [tra cui Wolfgang Reitherman, Hamilton Luske e Clyde Geronimi] nell’omonimo classico d’animazione, la figura di Crudelia De Mon era già apparsa sul grande schermo “in carne ed ossa”, per di più con le fattezze di una straordinaria Glenn Close (qui in veste di produttrice esecutiva), in due dei remake live action disneyani vecchia scuola (La carica dei 101 e La carica dei 102).
Eppure, con l’arrivo di Gillespie in cabina di regia, la comparsa della Stone sotto i riflettori, di fronte alla macchina da presa, e in virtù di quella che probabilmente è l’attuale politica produttivo-distributiva Disney [vedasi quando, all’acquisto della Lucasfilm, la principessa Leila divenne la principessa Leia e Darth Fener Darth Vader], colei che, dal 1961, abbiamo imparato ad amare e detestare con il nome di Crudelia De Mon, ora, anche nella localizzazione italiana, risponde a quello (inglese) di Cruella De Vil. Come (Sympathy for the) Devil, ma anche come de ville, ovvero (regina)“della città” in francese.
La città in questione altra non poteva essere che Londra. Tuttavia, a differenza di quella, umida ma accogliente, mostrataci all’inizio de La carica dei 101 (e le cui strade la fu Crudelia De Mon agitava e sferzava con la sua fragorosa e affilata Panther De Ville), la Londra del racconto di Cruella - scritto a dieci mani da Dana Fox, Tony McNamara [lo sceneggiatore de La favorita, in cui la Stone figurava tra le protagoniste], Aline Brosh McKenna [la sceneggiatrice de Il diavolo veste Prada], Kelly Marcel e Steve Zissis - è quella di metà anni ‘70, dei Sex Pistols e di Anarchy in the UK. La Londra che veniva dalla primavera di Lou Reed, degli Stooges e di David Bowie e che, proprio in quegli anni e appunto con la rock band di Johnny Rotten & co., assiste alla genesi del punk, forse il movimento più anticonformista di tutto il decennio.
E’ quindi in un clima e in uno scenario di totale contestazione e rivoluzione culturale che Estella (questo il suo nome prima di diventare)/Cruella, talentuosa aspirante stilista e ladruncola a tempo perso, da sempre perseguitata dalla morte della madre - di cui pensa di essere la principale responsabile -; muove i primi passi nel mondo della moda, in compagnia dei suoi due migliori amici (e complici), Jasper e Horace, che ormai per lei sono come una seconda famiglia.
Ed è sempre a Londra che, in seguito ad una serie di fortuite coincidenze, la ragazza viene assunta come assistente della baronessa von Hellman, spietata direttrice della più prestigiosa casa di moda della città. Tuttavia, quando scopre che quest’ultima potrebbe avere qualcosa a che vedere con la morte della madre, la giovane De Vil decide di organizzare una vendetta particolarmente poetica, dire addio all’identità di Estella e diventare Cruella, la perfida regina del crimine - con una particolare ossessione (freudianamente nevrotica) per i dalmata - che tutti noi conosciamo.
Un’opera dalle forti ed evidenti aspirazioni che vorrebbe osare, ma che purtroppo si ritrova costretta e condizionata da esigenze - interne, intrinseche e ben più urgenti - di carattere industriale e commerciale. Questa è la sensazione che si ha in più di un’occasione durante la visione di Crudelia, un film che poteva dare molto di più, ma anche molto di meno, soprattutto se si è consci dell’effettivo e attuale stato di salute dei remake live action Disney.
La direzione intrapresa da Gillespie - che, con il succitato Tonya, aveva dimostrato una certa bravura sia nella direzione degli attori [per il film, Allison Janney ha vinto l’Oscar] sia nella produzione e messa in scena di un biopic dinamico e vivace, quando non provocatorio e dissacrante - e soci è chiara. Infatti, tanto il progetto in sé quanto l’effetto che, da esso, si vorrebbe ottenere sono più che simili a quello che, nel lontano 2014, fu ed è tuttora il Maleficent di Robert Stromberg e Linda Woolverton.
Quello che fanno Gillespie e soci è quindi prendere una delle villain più amate e celebrate dell’animazione disneyana, porla in qualità di protagonista assoluta e sovvertire, più o meno drasticamente, alcuni suoi tratti caratteristici e caratterizzanti, al fine di rendere lei e la sua mitologia più attuali e dunque accattivanti per il grande pubblico. Purtroppo, se in Maleficent questi cambiamenti non stonavano né con l’idea originale del personaggio, né con il racconto e i toni della pellicola - anzi forse la arricchivano ulteriormente -, in Crudelia queste piccole rivoluzioni non solo non portano alcuna ventata di aria fresca e salutare al personaggio, ma ne pregiudicano rovinosamente la quasi certa carriera futura (ora come ora, ci è impossibile pensare alla Cruella di Emma Stone come alla scuoiatrice di cani de La carica dei 101).
E questa scelta, che sembra più un prendere la strada più semplice ma anche più futuribilmente sterile, è solo il manifesto di una sceneggiatura instabile nel suo voler dar vita ad una storia dai canoni supereroistici (l’identità segreta, gli aiutanti e la moda che diventa quasi un superpotere) che mescola l’heist movie con il classico melò familiare Disney, annoiata nel delineare caratterizzazioni realmente solide, e prevedibile in ogni suo punto di svolta (anche quello più potenzialmente sorprendente). Un intreccio, quello di Crudelia, dalle meccaniche e dai tessuti narrativi talmente ridondanti e didascalici (il voice-off imperituro ed insistente della protagonista che non lascia nulla all’espressività degli attori e ai sottintesi) che ci sorprende riesca comunque a divertire, intrattenere e dar vita a personaggi che, pur nella loro stereotipia, risultano simpatici e “riusciti”.
“Forse anche troppo”. Così si potrebbero riassumere le caratterizzazioni dei personaggi protagonisti e non di Crudelia. Sunto che si può applicare giocoforza anche alle stesse interpretazioni.
Ad accompagnare una Emma Stone stellare, magnifica e vincente (forse anche troppo) che fa dimenticare completamente quanto poco lavoro di costruzione sia stato fatto in sede di sceneggiatura - ma non certo quanto poco il suo personaggio sia veramente cattivo -; troviamo allora una perfida Emma Thompson (anch’essa, forse anche troppo), così brava ed immedesimata da sormontare in carisma la collega, pur apparendo talora come la brutta copia e/o la parodia della Miranda Priestly del già citato Il diavolo veste Prada; un Joel Fry “anti-principe azzurro” ed un Paul Walter Hauser purtroppo sacrificato, ma divertente e divertito (il suo doppiaggio italiano però è ai limiti del sostenibile), rispettivamente nei ruoli di Jasper e Horace; ed un Mark Strong “prezzemolo” che dove lo metti sta e fa la sua parte.
Impossibilitato da una sceneggiatura difettosa e blanda, affetta inoltre da indiscutibili problemi di ritmo (134 minuti sono decisamente troppi), Crudelia è costretto così a riporre la quasi totalità delle proprie speranze su un comparto tecnico-estetico che funga da palliativo e renda la percezione del risultato finale perlomeno godibile e positiva. Le forti ed evidenti aspirazioni dell’opera (tarpate però dalla propria intrinseca commercialità) si concretizzano quindi nella regia iper-cinetica di Gillespie che, attraverso movimenti di macchina e long take artificiosamente suadenti ed un uso misuratamente e narrativamente funzionale della macchina da presa, guida una messa in scena, totalmente rivolta alla resa su schermo dei personaggi, che fa dell’estetica, del look e della fascinazione visiva i suoi cavalli di battaglia.
Purtroppo, questa attenzione ai personaggi da un lato, all’estetica dall’altro, porta con sé un grave e grande peccato: cioè la poca complicità, la minima interazione e la totale assenza, a livello sia di percezione sia di manifestazione, del contesto storico-culturale nell’economia del racconto e ai fini del film.
Lo dimostrano le comparsate inaspettate e stupefacenti di Cruella - volte a creare scompiglio, far parlare di sé e, al contempo, danneggiare l’immagine della baronessa (simulacro della tradizione, del sistema e della convenzionalità) - che, se potrebbero teoricamente costituire una sorta di valvola di sfogo espressiva di quella Londra dissidente ed anticonformista sopra menzionata, vengono svuotate di tutta la propria (potenziale) consistenza semantica e ridotte a mere sfilate di glamour, di apparenza e superficie dal modo in cui l’istanza visuale le (rap)presenta.
Difetto, quest’ultimo, che - unito alla sceneggiatura e ad una manciata di sbavature annesse e connesse (non ultima il modo erroneo e lesivo con cui si costruisce la rivalsa femminile di Cruella) - riduce sensibilmente le possibilità del live action Disney di affermarsi facendo affidamento solo sulle proprie forze e colpire, con decisione e personalità, la mente e il cuore di chi guarda.
Constatata pertanto la vacuità di racconto, personaggi, atmosfere ed estetica (come discorso sociale, politico e culturale), quello che resta a Crudelia - e su cui Gillespie e soci fanno totale e cieco affidamento per spiccare il volo della sufficienza - sono le continue strizzate d’occhio al brand madre e a cui inevitabilmente si farà ritorno (vedasi la sequenza mid-credits); le intuizioni di Jenny Beavan ai costumi (da nomination e vittoria ai prossimi Oscar), della scenografa Fiona Crombie (ciò nonostante, il suo lavoro risente di quella castrazione di contesto e atmosfere), di Nadia Stacey al trucco e del direttore della fotografia Nicolas Karakatsanis, che pur si limita al minimo indispensabile; e l’energia della colonna sonora, ultima ma non certo per importanza.
I Bee Gees, i Queen, Ike e Tina Turner, i Doors, Blondie, i Clash: se questo accostamento di artisti e quindi di generi completamente diversi, ai più, potrebbe sembrare caotico, confusionario, nonché sintomatico di una cultura musicale approssimativa, la soundtrack/playlist di Crudelia riesce invece a trovare una sua coerenza, una ragion d’essere, affermandosi sovente come sola ed unica colonna portante della produzione o, addirittura, come vera e propria protagonista del racconto, capace, per forza e permanenza (talvolta sembra di star guardando un videoclip fatto e finito), di penetrare il quadro filmico e corroborare l’affabulazione di quanto rappresentato.
Con Crudelia, si avvera l’ennesima dimostrazione che, quando la Disney si cimenta in soggetti che vanno a stravolgere (seppur parzialmente) la mitologia originaria e fondativa di determinate storie, o che raccontano quello che già sappiamo, solo da una prospettiva diversa, oppure ancora che non intendono produrre una copia carbone dell’opera di riferimento, i risultati si vedono. E anche molto bene.
Senza voler sminuire altri prodotti che comunque seguono le regole appena elencate - film come il già citato Maleficent (il primo, il secondo neanche lo prendiamo in considerazione), Ritorno al bosco dei 100 acri, Dumbo di Tim Burton (forse uno dei migliori rifacimenti, più per la presenza di Burton dietro la cinepresa, che per eccezionali sforzi produttivi) e ora questo Crudelia (senza dubbio il più debole tra quelli appena menzionati) sono la prova tangibile, seppur imperfetta, di quello che potrebbe essere la realtà dei remake live action disneyani. Ovvero una finestra su infiniti scenari che, per il troppo vento (imposizioni produttive, standardizzazione commerciale, semi-limitazione autoriale), ogni volta sfortunatamente si chiude con un fragore che risuona di occasione sprecata e mediocrità.
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