TITOLO ORIGINALE: The Lord of the Rings: The Return of the King
USCITA ITALIA: 22 gennaio 2004
USCITA USA: 17 dicembre 2003
REGIA: Peter Jackson
SCENEGGIATURA: Fran Walsh, Philippa Boyens, Peter Jackson
GENERE: fantastico, avventura, azione, epico, drammatico
PREMI: 11 OSCAR tra cui MIGLIOR FILM e MIGLIOR REGISTA
La battaglia per la Terra di Mezzo entra nel vivo dell'azione, quando Sauron, furioso della sconfitta delle forze di Isengard, invia le proprie truppe all'attacco di Minas Tirith, capitale del regno di Gondor.
Recensire ed analizzare Il Signore degli Anelli: una delle trilogie migliori della storia del cinema, uno dei mondi più vivi e vibranti che mai siano stati creati (su carta e su schermo), un’autentica rivoluzione del modo di fare e concepire il blockbuster; non è certo cosa semplice.
Confrontarsi con un’opera che non solo è riuscita a sdoganare il fantasy presso il grande pubblico, librandolo e liberandolo quindi dalla nomea e dalla reputazione di “cosa da nerd” quando ancora alla parola corrispondeva un’accezione sminuente, ma che aveva altresì il compito - a dir poco titanico - di trasporre e tradurre per il grande schermo uno dei testi più complessi, vasti, articolati e venerati della letteratura del Novecento, è una sfida equiparabile al viaggio intrapreso dal nostro Frodo per distruggere l’Unico Anello e così salvare la Terra di Mezzo dalle mire e dall’oscurità di Sauron.
Ciò nonostante, pur non sapendo ancora quale sarà l'esito e come questo nostro tris di articoli verrà recepito, sarà questo il viaggio che Cinemando intraprenderà nelle prossime settimane. Si avvicinano infatti i 20 anni dell’uscita de La Compagnia dell’Anello nelle sale italiane e, per l’occasione, tutti e tre i film torneranno in sala, per la prima volta, nella versione rimasterizzata in 4K. È e sarà quindi un onore, da parte nostra, accompagnarvi in questo ritorno nella mitica Terra di Mezzo con una retrospettiva dedicata ad ognuno dei tre capitoli di questo miracolo cinematografico, che poi non è altro che il racconto e il compimento di un sogno.
Clicca qui per la prima e qui per la seconda parte della retrospettiva.
C’è del buono in questo mondo, è giusto combattere per questo.
È, in parte, con una ritrovata speranza - seppur intrisa della consapevolezza che “la battaglia per la Terra di Mezzo sta per cominciare” - che cala il sipario su Le due torri e si apre quello de Il ritorno del Re, atto conclusivo, massimo apogeo emotivo ed epilogo della trilogia dell’Anello, ma soprattutto pietra miliare del cinema americano del XXI secolo (e non solo) e del genere fantasy così come (rap)presentato su grande schermo.
A questa speranza si accompagna però l’oscurità che, proprio con l’ultima sequenza de Le due torri, rivendica il palcoscenico della Terra di Mezzo, servendosi del monologo, poi dialogo, di uno Sméagol sentitosi tradito da Frodo e Sam e che perciò accoglie e abbraccia nuovamente Gollum (lo aveva scacciato in uno dei momenti registicamente più alti ed ispirati di suddetta pellicola), la propria metà malvagia e bramosa. Con tali premesse, quale migliore inizio, per Il ritorno del re, se non il racconto delle origini di Gollum e, con esso, l’ennesima (stavolta allucinatissima) riproposizione visiva del potere corruttore dell’Unico Anello?
Il film si apre infatti con l'inquadratura di un verme in mano a qualcuno, un quadro ironico per una pellicola che “non ha tempo di mostrare nulla di più piccolo di un rinoceronte”, così come sostiene Jonathan Romney di Independent. Successivamente ad uno zoom all’indietro e ad una messa a fuoco, capiamo però che questo qualcuno altri non è che un hobbit, Sméagol per l’appunto, e che suddetto verme è un’esca che questi - con un’espressione morbosa ed insensibile, molto simile a quella che lo caratterizzerà poi nei panni di Gollum - prontamente infilza ad un amo.
A questo punto, si procede con un establishing shot che riporta lo spettatore ai colori e ai profumi della Contea, rigogliosa e verdeggiante patria degli hobbit, in pace con sé stessa, nascosta da tutto e da tutti, cristallizzata nel tempo e nello spazio. Un luogo da sogno che, ciononostante, per volere di un destino beffardo ed imprevedibile e in seguito al ritrovamento di un misterioso anello, si macchia di un orribile delitto. Difatti, dopo essere riemerso con il premio in mano, Déagol, cugino e compagno di pesca di Sméagol, viene brutalmente ucciso da quest’ultimo, che, così facendo, si impossessa dell’Anello ed intraprende la strada che lo porterà alla pazzia, all’ingordigia e all’ambiguità. A diventare Gollum, in poche parole.
Ebbene, seppur apparentemente riepilogativo e di minor importanza, questo breve frammento, con i suoi cambi di tono e atmosfere (si sfiorano i confini dell’orrore) e le sue varie interpretazioni, è, a tutti gli effetti, un nucleo semantico imprescindibile ai fini di un’analisi de Il ritorno del re che esuli da commenti o frasi triviali (di cui, ancora una volta, non potremo fare a meno). In tal senso, il racconto delle origini di Gollum assume un importante valore metaforico e simbolico rispetto alle varie sfaccettature di questo atto conclusivo.
La Contea qui rappresentata potrebbe sostituire perfettamente la Terra di Mezzo: un luogo solo formalmente magico ed incantato che, in una frazione di secondo, si tinge di un’oscurità corrotta ed insensata. Così come corrotta ed insensata è la lotta “fratricida” simil Caino e Abele (in cui l’Anello è Dio) di cui questa si fa teatro: un ritratto perfetto della bestialità, della spietatezza e della beffardaggine di una guerra indetta per il possesso di un qualcosa di apparente irrisorietà (e della grandezza di un verme da pesca). Come rifletteva Boromir in uno dei passaggi de La Compagnia dell’Anello… “Che strano destino. Dobbiamo provare tanti timori e dubbi per una cosa così piccola. Un oggettino…”.
Se la prima mezz’ora de Il ritorno del re potrebbe essere considerata come un’appendice de Le due torri, è con la partenza di Gandalf e Pipino da Edoras e il loro successivo arrivo a Minas Tirith che il film ha veramente inizio e che la guerra dell’Anello si stacca dall’iconografia e dall’inarrivabile monumentalità della battaglia del fosso di Helm, raggiungendo comunque lo zenit non solo in termini prettamente emotivi e spettacolari, ma anche e soprattutto a livello filmico.
Pur essendo, soggettivamente parlando, inferiori e neanche lontanamente paragonabili alle atmosfere tenebrose e ai toni apocalittici di quest’ultima, le battaglie di Minas Tirith e degli antistanti campi del Pelennor sono la massima concretizzazione di quello che, anche solo un decennio prima, non era che un sogno di Jackson e di milioni di tolkieniani. Delle ambizioni di una trilogia che, non soddisfatta di aver stravolto e rivoluzionato il fantasy al cinema e la sua percezione presso il grande pubblico, con Il ritorno del re punta direttamente alla storia del cinema, riscuotendo la pratica e la produzione del kolossal o blockbuster da una (allora) stantia zona di comfort e stabilendo un nuovo standard a cui tutto “ciò che verrà dopo” verrà paragonato.
Un imponente ostacolo con cui produttori, registi, sceneggiatori e mestieranti dovranno inevitabilmente confrontarsi e da cui, salvo eccezioni (Il trono di spade) verranno altrettanto inevitabilmente sconfitti (i titoli Le cronache di Narnia, La bussola d’oro, Eragon vi dicono niente?). Un monumentale incantesimo che neanche lo stesso Jackson, con la sua artificiosa e falsamente ambiziosa trilogia de Lo Hobbit, riuscirà a replicare.
Tutti i temi, gli archi narrativi finora sviluppatisi, i rapporti tra i personaggi e le loro caratterizzazioni, le conoscenze pregresse, l’emotività e il coinvolgimento accumulati, la sinergia delle varie anime compositive, il realismo (narrativo ed effettistico-artigianale) di un mondo e dei suoi personaggi ed una visione registica che è un crescendo continuo di consapevolezza, padronanza e precisione, convergono in due ore (e poco più) di estatico spettacolo dei sensi, di emozionante, viscerale e commovente dramma individuale e collettivo - delle quali si percepiscono sulla pelle la gravità e la tensione -, di (quasi) imparagonabile ed irripetibile Cinema.
Al di là del mero ruolo narrativo da “resa dei conti tra Bene e Male”, le battaglie di Minas Tirith e dei campi del Pelennor assumono, al contempo, anche una forte valenza semantica ed argomentativa. infatti, tra i tre capitoli, Il ritorno del re è forse il più graficamente esplicito. Il che risulta coerente e percettivamente utile ai fini di un racconto e di una messa in scena che trattano il dramma del “soldato semplice” mandato a morire per il volere dei potenti, la brutale insignificanza e la banale tragedia della guerra, che trascina nella sua morsa tutto ciò che incontra.
Per quanto ci riguarda, la sequenza che meglio esprime questi concetti è quella del futile contrattacco e tentativo di riconquista di Osgiliath da parte di Faramir e della sua guardia, ordinato da Denethor (un John Noble che lascia il segno, pur apparendo relativamente poco), padre di quest’ultimo e di Boromir, nonché sovrintendente di Minas Tirith.
Quello della disfatta di Faramir è infatti, insieme all’incipit, un altro nucleo imprescindibile de Il ritorno del re, in cui, servendosi, con criterio e gusto, di un montaggio alternato da manuale, di una canzone toccante (in semi-voiceoff) dal testo didascalicamente rappresentativo e di una recitazione eloquente ed ispirata, Peter Jackson mostra, in maniera esemplare ed inequivocabile, la dura e cruda natura di tutti i conflitti: nient’altro che un inutile sacrificio di anime innocenti al fine di compiacere la volontà di un folle assetato di potere che se ne sta rinchiuso nel suo palazzo, dunque lontano dalla battaglia e dai propri uomini (anche dal suo stesso figlio), a mangiare (in senso letterale e figurato) in modo disgustoso e bestiale.
Pertanto, come avveniva tanto ne La Compagnia dell’Anello quanto ne Le due torri, più che con la parola, è attraverso il visuale, la perenne consapevolezza del potere espressivo dello sguardo e “specifici filmici” quali il montaggio, che il cineasta sviscera le proprie tematiche, racconta e comunica i principali snodi del proprio intreccio e caratterizza psicologicamente ed emotivamente i propri personaggi.
Sempre rimanendo su lidi antibellici, ben prima della “fauna umana”, il motivo della guerra e l’ombra della sua caotica insensatezza si riflettono sulle stesse scenografie della pellicola. Una su tutte, Minas Tirith, città fortezza visivamente simile alle reali Mont Saint-Michel e St Michael's Mount e alla nostrana Siena, che, nei libri, Tolkien descrive (dal punto di vista di Pipino) come “una cuspide d'argento e perle, slanciata e splendente”, facendo spesso riferimento a toni ed intensità argentee, quasi divine; e che, invece, Jackson piega a beneficio della semantica del proprio film.
Risultano decisivi, a questo scopo, il lavoro fotografico oscuro di Andrew Lesnie (che restituisce perfettamente il clima di imminente catastrofe e distruzione bellica) e l’influenza inconscia data dal grigiore di armi e armature, dal rossore vulcanico che si riflette da Mordor e dal nero degli animi di coloro che la abitano: uomini e donne che stanno per essere travolti dal male più puro.
Spostando invece la nostra attenzione dalla guerra in senso stretto e dalle due grandi battaglie de Il ritorno del re (che, è bene specificarlo, Jackson rende avvincenti e appassionanti imbastendo delle sorta di micro-narrazioni intestine tra eroi e villain), è giunto il momento di parlare di quella che, per noi, è la vera “battaglia per la Terra di Mezzo”, come affermava Gandalf alla fine de Le due torri.
Un conflitto di dimensioni ben più modeste, dalle sfumature psicologiche, ma ciononostante dal grande respiro epico, oltre che di fondamentale importanza (come la lotta iniziale tra Sméagol e Déagol, del resto). Stiamo parlando, ovviamente, dell’arduo cammino di Frodo e Sam, con un infido Gollum nel ruolo di Cicerone, attraverso “una selva oscura” “aspra e forte, che nel pensier rinova la paura”, per riprendere Dante (già citato per “parlare di numeri”). Una battaglia on the road, quest’ultima, che, sullo sfondo di una Mordor spigolosa, impervia ed insopportabilmente soffocante, vede scontrarsi un Sam ligio alla promessa fatta a Gandalf durante gli eventi de La Compagnia dell’Anello e diffidente di un Gollum che, a suon di inganni, di frasi serpentine e di infauste diffamazioni, tenta di allontanarlo dal suo “Padron Frodo”, quest’ultimo ormai allo stremo delle forze (fisiche e mentali), sempre più tormentato e corrotto dall’Anello e dal suo malvagio potere e costantemente sul punto di abbandonare la missione.
Neanche a dirlo, questo scontro si conclude con la morte di Gollum che, dopo aver tagliato il dito di un Frodo reso folle dalla corruzione dell’Unico, si appropria dell’Anello, ma, nell’estasi della conquista, precipita nel fuoco del Monte Fato. Una delle immagini più semanticamente forti e narrativamente significative di tutta la trilogia, resa tale propria dalla sequenza iniziale analizzata sopra e da ciò che lì viene mostrato.
Ed è proprio con questo scontro tra Sam e Gollum che ci avviciniamo alla chiusura dell'articolo (e della nostra retrospettiva). Prima però vorremmo farvi ragionare sul titolo del film e sulle sue varie possibilità di interpretazione. Di chi è questo ritorno? Chi è il re? Chi scrive ha individuato tre possibili risposte.
La prima, la più immediata e "superficiale", vede come protagonista il nostro amato Aragorn, che ne Il ritorno del re conclude il suo arco narrativo, diventando finalmente un eroe nel vero senso della parola ed abbracciando la propria eredità in quanto ultimo discendente diretto di Elendil e Isildur e legittimo erede al trono di Gondor. Emblematico, in tal senso, il vestito rosso - tipico colore dei sovrani, espressione di slancio, velocità, potere e gioia, ma anche di pericolo e passione, sessualità e amore romantico (che coronerà proprio nel finale, facendo dell’amata Arwen la sua regina) - che indossa dalla battaglia del Pelennor in poi. Significativi e corroboranti questa opzione sono però anche l'ormai leggendario discorso di “Ma non è questo il giorno” e la memorabile inquadratura (vedi sopra) di lui che si scaglia (inizialmente da solo) contro l’esercito di Sauron.
Una seconda potenziale risposta, la più debole (a nostro avviso), riguarda invece il re Theoden che, come confessa alla nipote Eowyn poco prima di morire, ora potrà riabbracciare i suoi padri senza più dover vergognarsi di un governo che è stato a lungo sotto il giogo e l’inganno di Saruman, grazie all'onore riacquisito col salvataggio in extremis di Gondor e Minas Tirith al grido di "Morte".
La terza soluzione, la più interessante ed insolita, vede come protagonista Sam (l'Impavido), la colonna portante della missione di Frodo, l’amico semper fidelis senza il cui aiuto l’Anello (così come lo stesso Frodo) non avrebbe mai raggiunto il Monte Fato, il re dei quattro hobbit (di fronte a cui pure Aragorn si inginocchia) e, per quanto ci riguarda, il protagonista morale ed incondizionato di questo epilogo. In tal senso, il viaggio suo e di Frodo attraverso le impervie terre di Mordor diventa pertanto un rito di passaggio del giardiniere dal ruolo di spalla gentile e un po’ goffa a quello di eroe attivo, coraggioso e dall’azione salvifica per il mondo intero.
Un gesto ed un salvataggio che, purtroppo, niente e nessuno mai si ricorderanno (qual è il nome che viene inneggiato quando esplode la torre di Barad-dur?). Che, seppur vitali e decisivi, verranno, per l'appunto, relegati al fondo della pagina e, col tempo, inesorabilmente dimenticati.
Risulta quindi volontariamente profetico lo scambio di battute tra padrone e giardiniere nel finale de Le due torri: “Chissà se la gente dirà mai: "Sentiamo di Frodo e dell'Anello", e io dirò: "Sì, è una delle mie storie preferite". "Frodo era molto coraggioso, vero, papà?". "Sì, figlio mio. Il più famosissimo degli Hobbit, e questo è a dir poco”/Ah, hai tralasciato uno dei personaggi principali: Samvise l'Impavido. Voglio sapere di più su di Sam. Frodo non avrebbe fatto granchè senza Sam./Su, padron Frodo, non dovreste scherzare. Io dicevo sul serio./Anche io./Samvise l'Impavido. Così come emozionante e pertinente (con quanto da noi appena sostenuto) risulta la decisione finale di Frodo, il quale, una volta finita la scrittura del racconto del suo viaggio (intitolato naturalmente Il Signore degli Anelli, una sorta di seguito di Andata e ritorno dello zio Bilbo), decide di donare il libro a Sam, aggiungendo che “c’è ancora spazio” per scrivere qualcos’altro; per permettere a quest’ultimo di raccontare una storia di cui possa essere finalmente il protagonista.
Una storia che, differentemente da La Compagnia dell’Anello, ha inizio con un ritorno (del re) a casa che cristallizza il vero senso del viaggio che noi abbiamo (il pubblico) e loro (i personaggi) hanno vissuto. Si torna pertanto al punto di partenza, ma profondamente cambiati e plasmati.
Ecco allora il senso di concludere il film e dunque la trilogia con un’inquadratura della porta di casa Gamgee che si chiude. L'invito (che si porge allo spettatore) è ovviamente quello di vivere le proprie storie (e le proprie vite) da eroi e da protagonisti, di combattere per ciò che si ritiene giusto e di rispondere con coraggio al richiamo dell’avventura (o dell’amore), incuranti di dove condurrà la strada, ma ricchi della consapevolezza che, come canta Bilbo nell’opera tolkieniana, “La Via prosegue senza fine. Lungi dall’uscio dal quale parte”.
E se il sogno di Peter Jackson, con Il ritorno del re (e l'epocale vittoria di ben 11 premi Oscar), si esaudisce ed esaurisce in termini prettamente cinematografici, viceversa, l’avventura di Frodo e della Compagnia dell’Anello non ha ancora avuto fine. E, forse, mai la avrà...
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N. B. La recensione è riferita alla versione cinematografica del film