TITOLO ORIGINALE: The Lord of the Rings: The Two Towers
USCITA ITALIA: 16 gennaio 2003
USCITA USA: 18 dicembre 2002
REGIA: Peter Jackson
SCENEGGIATURA: Fran Walsh, Philippa Boyens, Stephen Sinclair, Peter Jackson
GENERE: epico, fantastico, avventura, drammatico
PREMI: 2 OSCAR per MIGLIOR MONTAGGIO SONORO e MIGLIORI EFFETTI SPECIALI
La Compagnia dell'Anello è divisa ed è stata inoltre privata di due dei suoi membri più preziosi. Aragorn, Legolas e Gimli devono affrontare la guerra indetta dall'alleanza delle forze del male e proteggere le terre degli Uomini e i suoi abitanti. Frodo e Sam invece stringono un'insolita alleanza per entrare furtivi a Mordor, il regno di Sauron. Fuggiti dalla morsa degli orchi, Merry e Pipino fanno un strano incontro nella foresta di Fangorn.
Recensire ed analizzare Il Signore degli Anelli: una delle trilogie migliori della storia del cinema, uno dei mondi più vivi e vibranti che mai siano stati creati (su carta e su schermo), un’autentica rivoluzione del modo di fare e concepire il blockbuster; non è certo cosa semplice.
Confrontarsi con un’opera che non solo è riuscita a sdoganare il fantasy presso il grande pubblico, librandolo e liberandolo quindi dalla nomea e dalla reputazione di “cosa da nerd” quando ancora alla parola corrispondeva un’accezione sminuente, ma che aveva altresì il compito - a dir poco titanico - di trasporre e tradurre per il grande schermo uno dei testi più complessi, vasti, articolati e venerati della letteratura del Novecento, è una sfida equiparabile al viaggio intrapreso dal nostro Frodo per distruggere l’Unico Anello e così salvare la Terra di Mezzo dalle mire e dall’oscurità di Sauron.
Ciò nonostante, pur non sapendo ancora quale sarà l'esito e come questo nostro tris di articoli verrà recepito, sarà questo il viaggio che Cinemando intraprenderà nelle prossime settimane. Si avvicinano infatti i 20 anni dell’uscita de La Compagnia dell’Anello nelle sale italiane e, per l’occasione, tutti e tre i film torneranno in sala, per la prima volta, nella versione rimasterizzata in 4K. È e sarà quindi un onore, da parte nostra, accompagnarvi in questo ritorno nella mitica Terra di Mezzo con una retrospettiva dedicata ad ognuno dei tre capitoli di questo miracolo cinematografico, che poi non è altro che il racconto e il compimento di un sogno.
Clicca qui per la prima parte della retrospettiva.
È sulla base di una struttura perfettamente circolare che si dipana l’intreccio de Il Signore degli Anelli - Le due torri, la seconda parte - neanche a dirlo - della trilogia che ha rivoluzionato e stravolto la percezione del fantasy presso il grande pubblico, portando il cinema di largo consumo ad un vero e proprio punto di non ritorno.
Se i toni di cui ci siamo avvalsi nella recensione dell’iniziale ed iniziatico La Compagnia dell’Anello fanno di parole come "perfetto", "epocale", "storico" i loro principali rappresentanti, figuriamoci come saranno quelle che rivolgeremo a Le due torri nelle righe che seguono! A nostro personalissimo avviso infatti, è proprio con questo secondo film che suddetta "rivoluzione" e suddetto "punto di non ritorno" si convertono da barlume (seppur in minima parte) prudente a realtà concreta, viva ed entusiasmante. Adattando le accorte parole del critico Francesco Alò, “Meglio digitare… harder”.
Non solo più imponente ed oscuro, come si direbbe ad una prima occhiata, ma anche e soprattutto più intricato e robusto: Le due torri è un sequel (se di seguito vogliamo e possiamo parlare, essendo stati tutti e tre i capitoli girati back-to-back) che non si dimentica assolutamente “da dove viene”, e che quindi prende, estende e talora ripropone ciò che di buono era stato fatto ne La Compagnia dell’Anello; ma che, al contempo, è ben conscio della sua natura (di ponte di evoluzione e di collegamento tra l’inizio e la fine del viaggio) e, pertanto, sa bene dove deve andare a parare e quali sono i suoi compiti narrativi e drammaturgici.
Il primo sintomo di quell’harder sopracitato si mostra, in tutto il suo estro creativo e valore produttivo, nell’uso che viene fatto dei vfx nel frammento che apre la pellicola, un’estensione della celeberrima e commovente morte di Gandalf all’interno delle miniere di Moria. Da quel che ricordiamo, il Grigio era stato infatti trascinato dal Balrog (una delle tante stregonerie effettistiche del primo capitolo che tornano anche qui) nelle viscere della montagna e laggiù, nell’oscurità, aveva incontrato la morte. O almeno così sembrava.
La sequenza d’apertura della pellicola imbastisce infatti un vertiginoso combattimento aereo tra mostro e stregone che, se visto con gli occhi di oggi potrebbe apparire falso, artificioso, addirittura ingenuo, all’epoca rappresentava uno dei punti più alti mai raggiunti dalla computer grafica. E, nonostante venga fatto passare e messo in scena come un incubo (o una visione?) di Frodo, esso serve perfettamente lo scopo di riaccendere nello spettatore la speranza (parola molto ricorrente in tutti e tre i film) in merito ad un effettivo ritorno o, per meglio dire, ad un’epica resurrezione di Gandalf.
Come suggerito sopra e affermato in incipit d’articolo, Le due torri riprende il racconto esattamente da dove e da chi lo avevamo lasciato ne La Compagnia dell'Anello, aprendosi perciò con Frodo e Sam sempre più vicini ai cancelli di Mordor, “il solo posto della Terra di Mezzo che non vogliamo vedere da vicino”. Una frase emblematica, quella pronunciata da Sam, con cui la pellicola e Jackson stesso, da un lato, riportano la mente del pubblico, per effetto contrario, a quel sense of wonder - conseguente alla scoperta (in questo, il punto di vista degli hobbit e dello spettatore coincidevano) dei paesaggi incantati della Terra di Mezzo - che caratterizzava un vasto numero di sequenze del primo atto, dall’altro, ribadendo fin da subito lo stretto legame tra l’Oscuro Signore (un villain ancora etereo ed incorporeo) ed un Frodo che sente sempre più il peso (morale e psicologico prima che prettamente fisico) dell’Anello.
I due hobbit si sono persi, spesso tornano involontariamente sui loro passi, hanno disperato bisogno di una guida. Purtroppo o per fortuna, in loro aiuto arriva uno dei più grandi prodigi tecnici che ha reso Il Signore degli Anelli l’opera storica e cinematograficamente monumentale che è tutt’oggi. Smeagol/Gollum è forse l’elemento che, subito dopo la maestosità filmica e l’ambizione narrativa, meglio incarna la rivoluzione ardentemente propugnata dalla trilogia dell’Anello.
Invero, il fu hobbit, corrotto e trasfigurato dal potere dell’Unico, rappresenta probabilmente uno degli apici tecnici dei film di Jackson. In questo caso, il merito, oltre che alla Weta, è da riconoscere al mostruoso lavoro interpretativo di Andy Serkis, il quale, dopo la trilogia, diverrà un assoluto punto di riferimento per l'arte del motion capture. Tecnologia, quest’ultima, già utilizzata in ambito videoludico da Sega e Namco, ma che deve a Il Signore degli Anelli e all’uso (per la prima volta, in presa diretta!) espressivo ed approfondito che questo ne fa, la sua affermazione e conquista del mondo e dell’industria cinematografica.
Mai infatti si era visto, sul grande schermo, un personaggio creato al computer interagire in modo così stretto e diretto con gli attori in carne ed ossa ed esprimersi in maniera talmente vivida e realistica. È celebre, in tal senso, la sagace provocazione di Peter Jackson ad una domanda su Gollum: “Non aspettatevi un altro Jar Jar Binks”. Quello che neanche Lucas era riuscito a fare con la sua trilogia prequel (tanto ambiziosa quanto disastrosa) di Star Wars, Jackson, Serkis e la Weta lo portano a termine quasi in simultanea, con ottimi risultati e secondo un gusto, un’intuizione ed un’intelligenza che hanno fatto scuola nel vero senso della parola, influenzando registi quali Robert Zemeckis (Beowulf, Polar Express e A Christmas Carol), James Cameron (Avatar) e Gore Verbinski (Pirati dei Caraibi).
Torniamo però a parlare nel dettaglio degli eventi che scuotono la Terra di Mezzo e ritroviamo allora gli altri componenti di una Compagnia dell’Anello, ricordiamo, sconfitta e scissa in tre gruppetti dall’attacco degli Uruk-hai (sotto i cui colpi è caduto il traditore valoroso Boromir).
Oltre a Frodo e Sam in viaggio verso Mordor, "riabbracciamo" dunque Merry e Pipino (tra le tre unità, quella che sente maggiormente questo senso di harder, agendo e reinventandosi di conseguenza, addirittura sorprendendo), i quali, dopo essere stati catturati dalle forze di Saruman alla fine del film precedente, ne Le due torri si perderanno nella foresta di Fangorn e qui faranno la conoscenza di Barbalbero e delle creature conosciute come Ent; e il trio formato da Aragorn, Legolas e Gimli, ensemble delle tre razze fantasy per eccellenza: rispettivamente gli uomini, gli elfi e i nani; incaricato dallo stesso Gandalf Il Bianco di salvare Rohan dall’invasione delle spietate truppe di Saruman.
Tuttavia, prima di procedere con l’analisi e la recensione del film, vorremmo porre la vostra attenzione e farvi riflettere sul perché la Compagnia dell’Anello si divida proprio in tre unità. Per farlo, dovremmo riprendere in mano l’opera cartacea e rispolverare le parole dello studioso Elémire Zolla, contenute nell’introduzione al libro: “[...] È l’Anello (l’Unico) dell’abisso informe, dotato di un potere ben maggiore dei tre anelli degli Elfi, la triade o trinità che suscita e nutre le forme dell’universo. [...] ricordiamo la cosmogonia di Böhme dove all’inizio è il principio tenebroso e acre, dalla cui compressione gelida emanerà la triade benefica del calore, della luce e dell’aria o spirito” (il corpo, l’anima e lo spirito, oppure il Padre il Figlio e lo Spirito Santo, come si suol dire mentre si fa il segno della croce).
Per i pitagorici, il tre era il numero perfetto, in quanto sintesi del pari (due) e del dispari (uno). Anche per i cinesi era così: il tre rappresentava infatti la totalità cosmica, formata da cielo, terra e uomo. E anche per Tolkien il tre era un numero importante, in quanto, prendendo nuovamente in causa Zolla, “numero dello spirito e della germinazione d’ogni forma”.
Non è quindi un caso che la Compagnia (formata inizialmente da nove membri, il quadrato di tre) si divida in tre sottogruppi. Così come non è neanche un caso il fatto che, come nella migliore tradizione omerica, l’epopea de Il Signore degli Anelli sia divisa in tre capitoli. E, allo stesso modo, che Le due torri, il secondo capitolo, abbia così tanto a che fare con gli Uomini, a cui, recita il proemio (filmico) de La Compagnia dell'Anello, furono donati nove anelli: letteralmente tre elevato alla seconda. Un numero, il nove, a cui già Dante dava una grande valenza, dal momento che lo considerava il numero della redenzione dell’uomo (nella sua Divina Commedia tre sono le cantiche e trentatré i canti, come gli anni di Cristo e come 3x3 = nove gironi infernali).
Ed è proprio “redenzione” una delle parole chiave per comprendere Le due torri, il cui intreccio (diviso in tante unità di racconto parallele quante le compagnie) è volto verso il racconto di un mondo, quando non di un universo che, pur trovandosi in tempo di pace, è stato diviso e in guerra fin dalla prima caduta e morte di Sauron per mano di Isildur. “Il giorno in cui il coraggio degli uomini venne meno”, come ricorda il buon Elrond ne La Compagnia dell’Anello, ha coinciso con la disgregazione e la reciproca perdita di fiducia da parte dei popoli della Terra di Mezzo, che, da allora, hanno pensato soltanto ai propri affari e ai propri interessi, chiudendosi in bolle indipendenti, individualiste ed emarginate che, parimenti al richiamo dell’Anello, hanno permesso a Sauron di risorgere.
È forse questo il filo conduttore principale della trilogia jacksoniana, che ne Le due torri trova espressione tanto nei fatti narrati quanto nella messa in scena dell’ultima ora (delle tre!). In primo luogo, all’interno del film, come anticipato sopra, facciamo la conoscenza di nuovi personaggi appartenenti (quasi tutti) al popolo - ancora diviso - degli uomini, i quali, eccezion fatta per i nostri protagonisti e i personaggi principali, sono di fatto i veri dominatori della scena. Infatti, questo secondo atto può essere inteso primariamente come una prima forma di redenzione da parte di questi ultimi, per essere stati gli indiretti responsabili del ritorno di Sauron, ma, in un secondo momento, anche come una redenzione di tutti quei popoli - su tutti, quello, arrogante e tronfio, degli elfi - che, per questo errore, gli hanno voltato le spalle per sempre, rompendo quindi quella alleanza che aveva originariamente permesso la vittoria (semplificando) del Bene sul Male.
Le due torri è allora harder non soltanto poiché moltiplica i personaggi, gli archi narrativi e i rapporti: a questo proposito, si rivelano utili la regia di Jackson e la messa in scena che, anche solo con uno scambio di sguardi ben piazzato, una giusta intuizione costumistica o di design e scelte compositive accorte, dicono più e meglio di mille parole; ma anche e soprattutto perché introduce tutta una serie di tematiche mature - alcune già accennate nel capitolo precedente, altre nuove di zecca -, trattate e sviscerate, a loro volta, in modo parimenti maturo e complesso.
Unitamente alla questione dei contrasti, della diffidenza e dell’inimicizia tra i popoli della Terra di Mezzo per onore e/o tradizione: espressa nel rapporto d’amicizia guascone e dagli esiti comici tra Legolas (spesso eccessivamente sopra le righe) e Gimli (unico, vero comic relief della pellicola), nel triangolo sentimentale Aragorn-Arwen-Eowyn, la nipote del re di Rohan, personaggio femminile estremamente forte ed emancipato, allo stesso modo della figlia di re Elrond; nelle divergenze appena citate tra rohaniani e gondoriani e, ultimo ma non per importanza, nella titubanza degli Ent; la sceneggiatura e la semantica de Le due torri arriva a toccare argomenti quali l’ecologismo (già introdotto nel film precedente), che sarà poi il motivo per cui Barbalbero & co. scenderanno in guerra contro Isengard e Saruman: rappresentante, quest'ultimo, del capitalismo sfrenato e sconsiderato, uno stregone “che ha una mente di metallo ed ingranaggi” e a cui “non interessano più le cose che crescono”. Il disorientamento di tutti quei personaggi più prettamenti cavallereschi (uno su tutti, Theoden, il re di Rohan, che, ad un certo punto, arriverà a domandarsi dove siano il cavallo e il cavaliere, ovvero i valori tradizionali dell’epica e del codice cavalleresco). E il concetto di pietas (anch’esso già suggerito in un dialogo tra Gandalf e Frodo ne La Compagnia dell'Anello), così come inteso dalla teologia cristiana.
La stessa pietas - affetto, rispetto e obbedienza per Dio e le sue creature - che regola il rapporto tra Frodo e Gollum e che, al contrario, non viene concessa agli Uruk-hai nella battaglia del fosso di Helm (giacché servi del demonio, ovviamente). Ma anche e soprattutto quella espressa dalla macchina da presa di Jackson nell’inquadrare e rappresentare la popolazione civile impaurita, spaesata e scoraggiata, mentre assiste e partecipa impotente alla Storia che si sta compiendo in primo piano (è la prima volta che vediamo quello per cui la Compagnia sta combattendo). Quel primo piano che, per un attimo, quest'ultima riesce a rivendicare.
Questa pietà non è però solo l’unica delle influenze e degli elementi di ispirazione teologica che caratterizzano la messa in scena de Le due torri. Basti pensare all’arco narrativo e al modo in cui Gandalf viene rappresentato.
Egli infatti, soprattutto in questo secondo capitolo, appare allo spettatore, così come agli stessi personaggi, come una figura cristologica, pura e purificatrice, morta e risorta sia in senso letterale (al suo primo incontro con re Theoden abbandona le vesti da grigio e si mostra, in tutta la sua forza, come Gandalf Il Bianco) sia a livello spirituale (la sua è una forma di consapevolezza superiore), talora come un deus ex-machina (“La battaglia per la Terra di Mezzo sta per cominciare”), altre volte come un personaggio, al contempo, autoritario e caloroso, salvifico, solare, nonché portatore iconografico della luce della speranza (non a caso arriva da est, all’alba del quinto giorno). Nella costruzione di questa aura divina, molto si deve al lavoro interpretativo magistrale e alla riforma sul personaggio attuata da un Ian McKellen che, per l’occasione, abbraccia una recitazione così misurata da essere quasi regale.
Inoltre, vi siete mai chiesti perché, al vedere le truppe di Saruman, Vermilinguo (il Giuda della vicenda) si metta a piangere?
Di fronte a queste eccellenze praticamente fattuali, da parte nostra appare abbastanza superfluo commentare aspetti come la magnifica colonna sonora di Howard Shore, le interpretazioni perfette, le intuizioni del dop Andrew Lesnie (vedasi il monologo di Gollum/Smeagol che diventa dialogo, grazie ad uno stravolgimento percettivo dello spazio diegetico) o, nello specifico, il climax drammaturgico ed emotivo che messa in scena e sceneggiatura, lavorando di concerto, contribuiscono a forgiare.
In tal senso, i tre diversi archi narrativi alla base dell’intreccio - anche se non tutti direttamente e propriamente presenti in loco - collimano in una delle battaglie, quella del fosso di Helm, che non ci vergogniamo di definire una delle migliori che il grande schermo abbia mai visto, in termini di spettacolo, coinvolgimento ed emozionalità. Un pezzo instant cult, da annali di storia del cinema, in cui tutte le anime produttive e compositive di racconto e composizione visiva danno il meglio di sé e la regia di Jackson compie un vero e proprio salto di qualità, dimostrando in modo assoluto ed inoppugnabile la propria capacità di gestione e coordinazione saggia, equilibrata e funzionale degli elementi, al fine di dar vita ad un momento che, per afflato e valore intrinseco ed artistico, nulla ha da invidiare alla controparte cartacea.
La redenzione, in questo caso, è di tutta la Terra di Mezzo che, abbandonate le vecchie rivalità e i pregiudizi opprimenti, si ribella, vince e dirada, con tutte le sue forze, l’oscurità che si stava facendo largo da Isengard. Una redenzione, quest’ultima, che coincide con il ritrovamento della ragione (e delle ragioni) e quindi delle forze e perciò, a sua volta, della speranza, ben espresso dal monologo finale di Sam.
In questo altissimo momento drammaturgico, il giardiniere è e diventa pertanto il portavoce dei popoli e dell’anima della Terra di Mezzo, imbastendo peraltro anche un interessante discorso meta-cinematografico sulle grandi storie e sui loro eroi (ricordiamo che i personaggi de Il Signore degli Anelli sono quasi tutti archetipi contraddistinti da una tensione verso il realismo e dunque da un contrasto personaggio/persona), chiudendo, in maniera del tutto esemplare, la struttura circolare da noi menzionata in incipit e riportando infine l’attenzione su una missione - la distruzione dell’Anello - qui forse più decentrata, ma che ciononostante torna a farla da padrone e a ribadire la sua urgenza.
Se la pellicola si apre con la frammentazione della Compagnia (e, analogamente, della Terra di Mezzo) e con, invece, l’unione delLe due torri, alla fine Isengard cade, il Male è diviso e divisa però è ancora, nonostante tutto, la Compagnia (ma non la Terra di Mezzo). Eppure, questa (e il mondo con lei) ha ritrovato uno scopo ed una rotta: Est, la dimora di Sauron, la culla di un nuovo giorno, l’origine della salvezza, ma, anche e soprattutto, l’epilogo del viaggio di due piccoli hobbit che plasmeranno per sempre la fortuna del mondo...
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N. B. La recensione è riferita alla versione cinematografica del film