TITOLO ORIGINALE: Jungle Cruise
USCITA ITALIA: 28 luglio 2021
USCITA USA: 30 luglio 2021
REGIA: Jaume Collet-Serra
SCENEGGIATURA: Michael Green, Glenn Ficarra, John Requa, J.D. Payne, Patrick McKay
GENERE: avventura, commedia, fantastico, azione
DISPONIBILE ANCHE SU: Disney+
L'esperta di botanica Lily Houghton è alla ricerca di una pianta dai poteri miracolosi, misteriosamente nascosta nelle viscere della giungla amazzonica, ed ingaggia il capitano di una chiatta, tale Frank Wolff, per guidarla in questa avventura pericolosa e potenzialmente mortale. I due (insieme al fratello di lei) si scontreranno ben presto con il discendente di una nobile casata tedesca ed un gruppo di conquistadores, divenuti non-morti a seguito di una maledizione, anch'essi alla ricerca della pianta.
Un camaleontico, versatile ed efficiente Jaume Collet-Serra firma il primo adattamento cinematografico di un'attrazione di Disneyland dai tempi di Pirati dei Caraibi (perché Tomorrowland non è mai esistito, vero?). Nel farlo, si serve e dirige con intelligenza ed oculatezza due interpreti d'eccezione e dall'indiscutibile chimica. Da un lato, nei panni dell'annoiato e disilluso capitano Frank Wolff, abbiamo infatti un Dwayne Johnson che, con questo film, riesce ad affermarsi pienamente in quanto spontaneo e naturale volto comico. Dall'altro, troviamo invece una Emily Blunt che mette tutta sé stessa nell’affermazione di un’impossibile, ma, proprio per questo, affabile e simpatica eroina avventurosa che intercetta perfettamente l'attuale contesto dell'industria hollywoodiana. Se a ciò uniamo un'azione sgangherata e rumorosa alla Indiana Jones, le maledizioni e il senso dell'avventura di Pirati dei Caraibi ed una sceneggiatura dalle umili pretese, ma dai risultati sorprendenti, il gioco è fatto.
Era dai tempi di Pirati dei Caraibi che la Disney non portava al cinema un film basato su un’attrazione dei propri parchi a tema (perché Tomorrowland di Brad Bird non è mai esistito, vero?). Una chiatta che solca le acque di un selvaggio e pericoloso Rio delle Amazzoni, guidata da un capitano che non riesce a trattenersi dal fare freddure e prendersi gioco dei passeggeri: è questa, in soldoni, l’anima dell’omonima giostra di Disneyland ed è (sempre) questa la premessa narrativa da cui prende il via Jungle Cruise, nuova IP della casa di Topolino, portata su schermo dal camaleontico e versatile regista catalano Jaume Collet-Serra.
Caratterizzata da una gestazione a dir poco lunga e travagliata (vi basti sapere che la prima stesura dello script risale al 2004), la pellicola dà un volto ed un nome allo spavaldo capitano dell’attrazione, facendolo incontrare con un’emancipata esperta di botanica, nonché improbabile, ma risoluta avventuriera. Il nome di lui è Frank Wolff (il volto è invece quello di Dwayne Johnson, anche produttore del film), il nome di lei è dott.ssa Lily Houghton (a cui presta il volto una Emily Blunt sorprendentemente a suo agio e credibile nei panni dell’eroina d’avventura). Unitamente a ciò, come ovvio che sia, il (un nome, un) programma della giostra viene inoltre arricchito di una cornice storica e socio-culturale (quella degli inizi del XX secolo) e di una mitologia comprensiva di una strana pianta dai poteri miracolosi, conosciuta con il nome di Albero della Vita, nascosta nelle viscere della giungla amazzonica, di un artefatto necessario per trovare e attivare le capacità di questa pianta e di una spedizione di conquistadores che, in cerca proprio dell'Albero, finì vittima di una maledizione.
Le strade di (Steamboat) Frank e Lily (e del fratello di lei, McGregor) si incontrano proprio sulla scia della ricerca di questa fonte dagli infiniti poteri, i quali, nella visione della dottoressa, potrebbero essere utilizzati per curare ogni tipo di malattia e così supportare, in maniera sostanziale, l’evoluzione della medicina. Una ricerca ed una nobile missione che, per un disilluso ed annoiato Frank, rappresentano invece un modo facile e veloce per intascare qualche quattrino. Purtroppo per il trio, sulle tracce dell’Albero vi è anche il principe tedesco Joachim (un pittoresco ed euforico Jesse Plemons), proto-nazista in cerca della pianta per fini (ovviamente) personali, che, proprio per questa sua sete di potere, finirà per risvegliare Aguirre e i suoi conquistadores dal sonno maledetto che li ha tenuti prigionieri per più di due secoli...
Già anche solo a leggere queste righe di sinossi e a vedere i vari trailer del film, le atmosfere e gli echi a cui Collet-Serra e la produzione si sono rifatti e da cui sono stati profondamente influenzati sono chiari e visibili fin da subito.
Ai più infatti, Jungle Cruise potrebbe apparire superficialmente come un mix caotico e ridondante di elementi e scenari già visti in cult come Indiana Jones (non solo per il leitmotiv del tesoro maledetto da ritrovare o per l’ambientazione tropicale, ma anche e soprattutto per l’azione rocambolesca e sgangherata che caratterizza le varie sequenze di combattimento) o Pirati dei Caraibi (specie per quanto riguarda la rapacità dei conquistadores, che li ha poi maledetti e resi dei non-morti, così come avveniva ne La maledizione della prima luna) e in videogiochi come Uncharted e Tomb Raider (di cui copia-incolliamo le considerazioni relative ai succitati film di Steven Spielberg). E sì, questi "più" potrebbero avere anche ragione. Jungle Cruise è evidentemente un miscuglio di già visto… ma che grande miscuglio che è!
Fattosi le ossa in thriller - qualitativamente altalenanti, ma cinematograficamente validi -, con protagonista Liam Neeson (pellicole dai toni e dalle atmosfere visibilmente opposte come Non-Stop, Run All Night e L’uomo sul treno), Jaume Collet-Serra dirige un film per famiglie che, pur non brillando per complessità od indiscutibile originalità, riesce a bilanciare e mescolare bene suddetto calderone di proverbialità e modelli ormai archetipici del genere avventuroso, per di più godendone proficuamente per dare vita ad un nuovo mondo e ad un futuro universo di storie e racconti, imprimendo nel progetto e nell’elaborato finale un indiscutibile cuore (il che non è poco di questi tempi) e lasciando intravedere, ciononostante, una visione registica di spielberghiana memoria, consapevole oltretutto dei fini drammaturgici ed affabulatori della propria opera. Basti pensare alla colonna sonora di James Newton Howard: costantemente impegnata a citare e riprendere, in modo spudorato, le melodie di John Williams.
Il cineasta, assistito dal lavoro fotografico didascalico (talora umido ed afoso, altre volte insidioso ed ostile, oppure ancora stregato ed imponente) del sodale Flavio Martínez Labiano e dalla suggestione di una scenografia esplicitamente artificiosa, ma ben armonizzata con i vfx - presieduti da studi quali la Industrial Light & Magic di George Lucas e la Weta Digital di Peter Jackson -, porta in vita e racconta un mondo fatto di battelli a vapore fatiscenti, con cui si intrattengono rapporti a dir poco morbosi; di tigri, di mappe del tesoro enigmatiche, di sottomarini, appunto di maledizioni e di conquistadores (dal character design meraviglioso, nonché semanticamente congruo), di popolazioni indigene, ma non per questo primitive, di donne che portano i pantaloni e di uomini che li portano solo letteralmente.La macchina da presa di Collet-Serra arriva dunque a sfiorare e a replicare la magia del primo Pirati dei Caraibi, rendendo vivo ed eterogeneo un mondo che, da un lato, replica quell’esotismo tipico di gran parte della letteratura d’evasione e/o fantastica da Jules Verne a seguire, ma che, al contempo, dà forma all’idea di cinema come finestra su mondi da scoprire, su infinite avventure ed infinite possibilità. Un discorso, quello introdotto dalla stessa Lily (secondo cui “vedere i film è come viaggiare per il mondo”), certamente infuso di retorica e di banalità, ma congeniale al tipo di film.
L’universo narrativo di Jungle Cruise è però innanzitutto un mondo che è sì variegato ed autosufficiente, ma che lo è in primaria funzione e valorizzazione dei personaggi che lo compongono e lo svelano, cosa che già avveniva in Spielberg e Verbinski. A tal proposito, è bene aprire una parentesi sul modo in cui questi ultimi vengono caratterizzati: non tanto attraverso discorsi enfatici e sofisticati (anzi), bensì secondo un’ottica “fare per essere”. Dunque, attraverso le azioni e le decisioni che questi ultimi compiono e le nevrosi intrinseche che li individualizzano, le quali non vengono quasi mai esplicitate o commentate verbalmente, ma sempre raccontate in modo visuale ed immediato, tra uno stacco di montaggio e l’altro.
Questa franchezza di caratterizzazione rende pertanto decisiva la gestione e la direzione degli attori e la chimica che tra essi si stabilisce. Un aspetto, quest'ultimo, a dir poco decisivo che Jaume Collet-Serra converte abilmente in una delle punte di diamante del film. Questa sua valorizzazione delle diverse interpretazioni è riscontrabile, in particolare, nel lavoro che questi conduce sulla coppia protagonista Dwayne Johnson (anche produttore del film)-Emily Blunt e sullo stravolgimento della percezione che di loro ha il grande pubblico.
È quindi con Jungle Cruise che (il fu) The Rock riesce ad affermarsi pienamente in quanto spontaneo e naturale volto comico, giungendo ad una svolta definitiva della propria carriera e del proprio stardom e conquistando finalmente il titolo (sempre sul mero piano percettivo) di “nuovo Robin Williams”. Più credibile, amabile e a suo agio nelle commedie per famiglie che negli action sotto steroidi - segno di una silenziosa contestazione che va avanti dai tempi di Cambio di gioco e L'acchiappadenti -, l’ex wrestler, se ben ci si pensa, è oggi un interprete che, così come Williams prima di lui, riesce a determinare il successo di una pellicola (magari anche mediocre) solamente con la sua presenza, il suo carisma ed un’innegabile cinegenia. (Grande interesse quindi, viste le premesse, per Black Adam, in cui il regista lo dirigerà nuovamente.)
Per quanto riguarda invece Emily Blunt, Jaume Collet-Serra riesce a fare con lei quello che Rob Marshall non riuscì a portare a termine ne Il ritorno di Mary Poppins (altro prodotto Disney, neanche a dirlo). La Lily di Jungle Cruise è invero l'assoluta protagonista del racconto e, come se non bastasse, la caratterizzazione che sceneggiatura e messa in scena contribuiscono ad imbastire (anche in modo comico e leggero), la inquadrano perfettamente nel momento presente e nel contesto attuale dell’industria hollywoodiana, tra #MeToo, messa in discussione degli archetipi di genere ed importanza affidata ad una rappresentazione che diventa rappresentanza. Dal canto suo, l’attrice mette tutta sé stessa nell’affermazione e successo di un’impossibile, ma proprio per questo affabile e simpatica eroina avventurosa, mai inutilmente oggettivata come la Lara Croft di Angelina Jolie o di Alicia Vikander e capace, specie vista la sua lampante chimica con Frank/Dwayne Johnson, di imprimersi nella mente degli spettatori.
Unitamente a ciò, il film di Collet-Serra costituisce un passo avanti, seppur minimo e in piena zona di comfort (a riprova che prodotti come Love, Victor ora come ora sono quanto di più utile ed importante), rispetto alla trattazione e rappresentazione dell’omosessualità nel mondo disneyano. Concentrato attorno al personaggio del fratello di Lily, McGregor - che è, sì, anche il più puro comic relief della pellicola, ma che, da parte sua, fa ridere non perché gay, quanto piuttosto per il suo essere visibilmente fuori luogo in un ambiente come la giungla - ed interpretato da un Jack Whitehall che fa il suo senza splendere eccessivamente, questo discorso trova il suo principale momento nella frase (dello stesso): “il mio interesse è felicemente altrove”. Un'inezia per molti, ma (visti i pregressi) un vero e proprio passo da gigante per mamma Disney, ve lo possiamo garantire.
Potrà avere tutti i difetti di questo mondo (inclusa una comicità puerile e “family-friendly” forse fin troppo ridondante), potrà non essere la pellicola più originale di tutte o benché meno una rivoluzione del genere. Ciò nonostante, Jungle Cruise è una vera e propria rivelazione, una narrazione con pretese umili, ma provvidenziali, un'autentica attrazione cinematografica (con il benestare del buon Martin) che non lascia un momento di tregua allo spettatore, sorpreso ad ogni cambio sequenza e rapito dalla testa ai piedi in un mondo tutto da scoprire. E che (per quanto ci riguarda) non vediamo l’ora venga sviluppato e sfruttato ulteriormente.
In definitiva, un’opera, quella di un asservito, ma tutto fuorché servizievole Collet-Serra, che, nel fare della pura e sana affabulazione il proprio marchio di fabbrica e una delle principali ragioni di successo, dà vita a quello che potremmo considerare un "racconto per famiglie modello”. Non ci stupiremmo pertanto se Jungle Cruise diventasse il nuovo Indiana Jones o il nuovo Pirati dei Caraibi o, ancora, il nuovo Jumanji (quello con il compianto Williams) per centinaia di bambini. Eventualmente, anche al posto della stessa, calante trilogia reboot di Jumanji con The Rock protagonista. L'unica cosa certa è che, di fronte a questa schiacciante umiltà d’intenti e ad una simile prolificità di esiti… nothing else matters.
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