TITOLO ORIGINALE: Army of the Dead
USCITA ITALIA: 21 maggio 2021
USCITA USA: 14 maggio 2021
REGIA: Zack Snyder
SCENEGGIATURA: Zack Snyder, Shay Hatten, Joby Harold
GENERE: azione, fantascienza, thriller, orrore
PIATTAFORMA: Netflix
In una Las Vegas vittima di un'epidemia zombie, un gruppo di mercenari viene incaricato di scassinare e svaligiare la cassaforte di un casinò contenente 200 milioni di dollari in contanti.
Conclusosi l'affaire Zack Snyder's Justice League, il regista di 300 e Watchmen firma una sorta di ritorno alle origini; al filone che lo ha fatto conoscere a critica e pubblico: lo zombie movie. Partendo da un soggetto che avrebbe potuto benissimo rispondere alla penna di grandi maestri del cinema di genere come Romero e Carpenter, Zack Snyder confeziona una pellicola che, salvo un paio di intuizioni - legate soprattutto ad una rivisitazione dell'iconografia e della mitologia della figura dello zombie - e nel suo rifarsi ai giganti, finisce per esserne una perversione inutilmente lunga, costantemente indecisa su ciò che vorrebbe essere e giocoforza estenuante che dimostra tutta l’abilità del regista in quanto pubblicitario; nel produrre quindi un lavoro esteriormente invitante ma interiormente vacuo e spicciolo. Per certi versi superiore alla Snyder Cut, ma comunque un popcorn movie mediocre e prolisso che si converte presto in un’assoluta e cocente occasione sprecata.
Conclusasi (ed era anche ora) la querelle Zack Snyder's Justice League e sedate(?) le ultime avvisaglie di un #ReleasetheSnyderVerse, per il regista di Green Bay è giunta l’ora di voltare pagina, buttarsi su un progetto "nuovo di zecca" e, magari, dare inizio ad un canone propriamente suo - di cui (speriamo) in futuro non avrà da ridire. Ecco dunque che Netflix è pronta a aprirgli le porte del proprio regno delle possibilità [dopo aver acquisito i diritti da Warner Bros.] e ad accogliere tra le sue braccia quello che, per Snyder, rappresenta una sorta di ritorno alle origini.
Army of the Dead: questo il titolo del nono lungometraggio del cineasta, che lo vede ricimentarsi, per la prima volta dal 2004, nel filone che l’ha reso noto a critica e pubblico: lo zombie movie. Sono passati infatti poco più di 17 anni dall’uscita nelle sale de L’alba dei morti viventi, remake dello Zombi di George Romero, nonché vero e proprio esordio al lungometraggio di uno Snyder che, fiero di una sceneggiatura autoironica firmata James Gunn, confeziona un’opera epigona certamente inferiore all’originale, ma che ciononostante porta una ventata d’aria fresca intorno all’iconografia e alla mitologia dello zombie (pur prendendo spunto dal concept del due anni precedente 28 giorni dopo).
L’orrore (come genere) snyderiano torna quindi a farla da padrone (infatti, nei suoi film, l’orrore in senso stretto è spesso di casa) in una pellicola, il cui soggetto - anch’esso made by Snyder - equivale ad una specie di campionario di tutti i leitmotiv tipici delle filmografie di grandi maestri dell’orrore, dell’avventura e del fantastico quali il già citato George Romero, John Carpenter, Walter Hill...
Successivamente ad un tragico incidente - di cui, vistane la puerile stupidità, non teniamo a specificare le dinamiche -, a Las Vegas scoppia un’epidemia zombie che, nel giro di qualche ora, trasforma gli abitanti in uno spietato esercito di non morti e la città in una vera e propria zona di guerra. Per risolvere il problema, il governo degli Stati Uniti organizza un attacco nucleare per radere tutto al suolo ed eliminare così la minaccia infettiva dalla faccia della Terra. E’ in queste circostanze che un gruppo di mercenari - capeggiato dall’ex soldato Scott Ward (Dave Bautista), tra gli eroi del primo attacco alla città zombie - viene assoldato dal proprietario di uno dei casinò della metropoli per scassinare e svaligiare un caveau contenente 200 milioni di dollari in contanti.
Quello che avrebbe potuto essere il perfetto incipit, oltre che un pretesto funzionalmente forzato, per dar vita ad un’avventura corredata dal tipico Snyder touch, tuttavia più vicina ad un B-movie a regola d’arte (come, per certi versi, era L’alba dei morti viventi), coscienziosa quindi della propria natura evidentemente dozzinale e dimessa e dalle pretese volutamente semplici e manifeste, è invece Army of the Dead. Vale a dire una pellicola, per certi versi, superiore a quel mattone pseudo-autoriale, elitista, esclusivo e fazioso che era (ed è) Zack Snyder’s Justice League, ma che nel suo rifarsi ai giganti finisce per esserne una perversione inutilmente lunga, costantemente indecisa su ciò che vorrebbe essere e giocoforza estenuante che dimostra tutta l’abilità del regista in quanto pubblicitario; nel produrre un lavoro esteriormente invitante ma interiormente vacuo e spicciolo.
Infatti, se la cura estetica (epidermica ed autoreferenziale) dell’immagine, della confezione, della facciata è forse l’aspetto più riuscito di Army of the Dead, il film vero e proprio e la sua sostanzialità si fermano pochi centimetri più in là, rinforzati solo da qualche intuizione relativamente (e lo sottolineiamo) inedita legata ad una "reinterpretazione" della figura dello zombie in termini iconografici e mitologici. La tigre non morta è un elemento visivamente e sensazionalmente intrigante - pur scoprendosi fin da subito e fin troppo palesemente nel suo ruolo di mero agente narrativo ed affabulatorio. La stessa cosa potremmo dire a riguardo dell’idea della “società zombie” - composta da “soldati semplici” e alpha più veloci ed intelligenti - o dell’attenzione riservata tanto alle creature quanto alla stessa oggettistica e gadgetteria impiegata dai nostri mercenari, in termini sia di concept sia di design.
Purtroppo, tutti questi spunti - che avrebbero potuto fare di Army of the Dead il prodotto esteticamente più coerente e seducente del corpus snyderiano - vengono sommersi e contestualmente obliterati da scelte registiche e “stilistiche” misere ed inconcludenti e da una sceneggiatura (scritta a sei mani dallo stesso Snyder insieme a Shay Hatten e Joby Harold) che non lascia spazio alcuno all’inaspettato e alla sorpresa, andando ben oltre il disastro preventivabile e stabilendosi tra l’anonimia e il nulla più totali.
Per quanto riguarda le "scelte inconcludenti" sopra citate, è bene prima fare qualche passo indietro, rinfrescarsi le idee e tornare a parlare di Justice League e della scelta di rilasciarlo (per l'on demand e quindi per una visione strettamente televisiva) in 4:3. Scelta che, come potete leggere nella nostra recensione, ci era sembrata un qualcosa di«castrante [...] e sprovveduto che non può essere relegato e compreso, in alcun modo e per nessun motivo, sotto l’ombrello salvifico di una pseudo-autorialità».
Ora, prendete quanto appena letto e applicatelo ad Army of Dead con tutte le modifiche del caso. Cambierà forse l’oggetto del discorso, ma le nostre parole in merito si rivelano essere ancora valide, se non addirittura più puntuali. A questo giro infatti, Zack Snyder - qui anche impegnato come direttore della fotografia - ci delizia con riprese contraddistinte da una totale soppressione della profondità di campo e da un uso martellante ed imperturbabile di sfocatura e tecniche come il pull focus, aprendo ed abbassando il diaframma a livelli estremi, quasi eccessivi.
Il perché (scontato) di questa scelta è spiegato da Snyder in persona ai microfoni di CinemaBlend: «Gli obiettivi erano questi Danon Dream costruiti negli anni sessanta. Obiettivi commerciali [...] con una profondità di campo sottilissima. Questa crea una sorta di sfocatura da sogno [...] questa strana combinazione di altissima tecnologia e tecnologia vintage… mi fa sentire veramente a mio agio. Sporcare la tecnologia più high-tech».
Ecco che, tutto d’un colpo, il regista sembra quasi riportarci ai tempi del cinema narrativo classico - a quel cinema che faceva della bidimensionalità ed indefinitezza dello sfondo il mezzo di maggior esaltazione del primo piano (ossia dell’istanza più immersiva, espressiva ed affabulatoria del mezzo cinematografico) -, presentandoci così un’alternativa a quel suo fantomatico ed esasperato (ab)uso dei ralenti - anche qui presenti ma meglio amalgamati. Tutto ciò, come sempre, alla ricerca di una catarsi che, poiché onnipresente, si autoannulla.
Difatti, a differenza di Zack Snyder’s Justice League - in cui il 4:3 fungeva da mezzo (futile) per un riconoscimento autoriale anelato e preteso -, questo parossismo dello sfocato di Army of the Dead si converte fin da subito in un manierismo puramente edonistico e, alla lunga, fastidioso che non apporta nulla di nuovo o, perlomeno, funzionale alla sostanzialità del prodotto. Piuttosto sottrae qualcosa a livello di generale comprensibilità e fluidità delle sequenze più prettamente action.
Giunti a questo punto, non vorremmo dilungarci ulteriormente nel definire e specificare i motivi per cui la sceneggiatura di Army of the Dead è probabilmente tra le più deboli, se non la più debole del corpus snyderiano. Vi basti sapere che, se il soggetto lascia intravedere tutta una serie di influenze ben precise, il suo sviluppo non solo lascia intravedere quelle influenze, ma le sfrutta a proprio uso e consumo, dando adito ad un intreccio stantio che procede per passaggi obbligati (e sottotrame mal concepite e gestite pretestuosamente), cliché del filone e non, uccisioni zombesche che rispondono alla classica legge del contrappasso: in breve, tutto ciò che di più scontato e banale vi possa venire in mente; corredato da un parterre di personaggi-fotocopia, che appaiono in scena solo in funzione della propria morte (possibilmente e graficamente violenta), e di attori - non ultimo lo stesso Bautista - bolliti o indolenti. Il che non sarebbe del tutto un male o un difetto se Army of the Dead non fosse ciò che, in fin dei conti, è. Cioè se fosse un B-movie fatto e finito.
Unitamente a ciò, esso mostra un'evidente e persistente irrisolutezza di toni ed atmosfere. Nel giro di un paio di minuti, si può assistere infatti a perle di scrittura come “Posso usare il mio termometro rettale” (citazione, quest’ultima, sintomatica dell’ispirazione complessiva del prodotto) a momenti che vorrebbero essere seri, drammatici e aggiungere qualcosa alla caratterizzazione di alcuni (e solo alcuni) personaggi, ma che finiscono per essere didascaliche interruzioni della “tensione” horrorifica che “si viene a creare”.
Army of the Dead si mostra quindi come un film che, sì, non si prende così dannatamente sul serio come tanti altri del corpus snyderiano, ma che non vuole neanche essere solo ed unicamente un rollercoaster di emozioni e terrore (si arriva anche a mandare una frecciatina polemica e beffarda nei confronti degli States e della loro “libertà”). Tuttavia, proprio per questa sua ambiguità, esso non arriva al pubblico quando e come vorrebbe.
Posto ciò, è praticamente indubbio che alla domanda: meglio la Snyder Cut o Army of the Dead?; la risposta di chi scrive è e sarà, per forza di cose, Army of the Dead. Ciò non significa però che quest’ultimo sia proprio una passeggiata di salute. Sì, il gusto e l’intrattenimento sono un qualcosa di profondamente soggettivo. Nonostante ciò, sfidiamo chiunque a non annoiarsi o comunque provare un forte senso di monotonia e frustrazione nell’assistere a 140 minuti di sparatorie, versi mostruosi, sfocature imperiture e dialoghi imbarazzanti. Ottimi i titoli di testa narrativi con sottofondo (riarrangiata) Viva las Vegas, ma allora, per dovere di cronaca, sarebbe bene citare quella del ben più riuscito Zombieland di Ruben Fleischer, a cui il film di Snyder deve molto (e non solo l'intro).
Abbandonata la sfera del gusto personale, bisogna però valutare Army of the Dead per quello che è veramente: un popcorn movie mediocre e prolisso che si converte presto in un’assoluta e cocente occasione sprecata. Per noi spettatori, di vedere qualcosa di diverso da un “videogiocone” che profana il cinema di Romero, Carpenter, Landis & co. e li ammassa in un calderone, le cui intenzioni intrattenitive non sono (quasi mai) coscienziosamente giustificate da un qualcosa da cui essere intrattenuti per davvero. Per Zack Snyder, di confezionare forse il suo film migliore. Certo è che, a guardare Army of the Dead, sembra quasi di trovarsi di fronte al lavoro di un regista che, nel tornare indietro, paradossalmente si è anche dimenticato da dove provenisse e a che punto (di "affermazione stilistica") fosse la sua carriera.
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