TITOLO ORIGINALE: I Care a Lot
USCITA ITALIA: 19 febbraio 2021
USCITA USA: 19 febbraio 2021
REGIA: J Blakeson
SCENEGGIATURA: J Blakeson
GENERE: commedia, thriller, giallo
PIATTAFORMA: Amazon Prime Video
PREMI: GOLDEN GLOBE per la MIGLIORE ATTRICE IN UN FILM COMMEDIA O MUSICALE
La tutrice legale Marla Grayson e la sua società sfruttano le norme e alcuni cavilli legali per sfruttare e guadagnare sulle spalle di una delle categorie sociali più deboli: gli anziani. Questa macchina abietta ma ben oliata e fruttuosa giunge però al suo epilogo quando Marla decide di “prendersela” con la madre di un capo della mafia russa. Alla sua terza opera da regista, J Blakeson dirige una Rosamund Pike istrionica e algida in un racconto che vorrebbe denunciare le storture e le devianze del sogno americano e la sua impossibilità di concretizzazione, muovendosi tra il thriller e la commedia nera. Se il comparto tecnico-estetico - pur non splendendo per chissà quale fattura od originalità - si limita a rispondere alle esigenze attuative della vicenda, la sceneggiatura è forse l’anima più difettosa dell’intero oggetto filmico. Altalenante, disomogeneo, frammentato, mai visceralmente pungente: dopo una prima ora contraddistinta da un’ottima tensione e da un ritmo da heist movie, I Care a Lot si perde tra banalità, risvolti prevedibili, esagerazioni eccessive e non richieste ed un tentativo fallimentare di immedesimazione spettatoriale.
Nella nostra recensione di Pieces of a Woman di Kornél Mundruczó ci chiedevamo se un piano sequenza di 23 minuti ed una prova attoriale ispiratissima potessero, in qualche modo, determinare e garantire la piena riuscita di un film lungo poco più di due ore. Ed è proprio all’indomani della vittoria di Rosamund Pike ai Golden Globes per la sua interpretazione in I Care a Lot - opera terza di J Blakeson - che ci risorge spontanea una simile riflessione. Quello che ci domandiamo è quindi come possano solo un’interpretazione istrionica e sfaccettata, un soggetto insolito e dallo smisurato potenziale ed una tensione ben congegnata, nonché fautrice di un paio di momenti effettivamente e comicamente azzeccati; aprire la strada al successo e al buon esito di una pellicola.
La pellicola segue le orme di Marla Grayson (Pike), una “vera truffatrice americana” che, assieme ai dipendenti della sua società, riesce a sfruttare intercapedini e cavilli legali per guadagnare ed arricchirsi sulle spalle di una delle categorie più deboli e bisognose di cure, socialmente parlando: gli anziani. Mediante una serie di legami e di rapporti di convenienza (anche con medici specializzati), la Grayson riesce infatti a convincere giudici e rappresentanti legali dell’invalidità fisica o mentale di alcuni soggetti precedentemente individuati ed analizzati, proponendosi come loro tutrice legale. Successivamente, questa li rinchiude (letteralmente) in una casa di riposo della zona - recidendo così ogni loro legame con il mondo esterno e con gli affetti - e vende ogni loro bene mobile o immobile, percependone il guadagno sotto forma di parcella. Tutto estremamente amorale ed ingiusto, ma purtroppo legale e legalizzato.
Questa macchina abietta ma ben oliata (e perciò estremamente fruttuosa) arriva però ad una sorta di epilogo, quando Marla decide di prendersela con la “gallina dalle uova d’oro” sbagliata - la quale si trasforma ben presto in una bomba ad orologeria pronta a distruggere ogni suo sogno di ricchezza. La tutrice mette infatti le sue grinfie su una certa Jennifer Peterson, ricca anziana che, per una serie di casualità e risvolti, si scoprirà essere la madre di un sanguinario capo della mafia russa, che, venuto a conoscenza dei fatti, decide di dare il via ad una personale vendetta.
J Blakeson firma dunque la regia (e la sceneggiatura) di quello che, ad una prima occhiata, potrebbe sembrare un thriller fatto e finito. Tuttavia, pur rientrando nella macro area del thrilling e del giallo, I Care a Lot è inscrivibile anche nella commedia nera, ironica, smodata e politicamente scorretta. Questo profilo provocatorio e sconveniente del testo filmico è palesato fin dai primi minuti, attraverso il monologo introduttivo della nostra Marla Grayson, la quale (e parafrasiamo) afferma che negli Stati Uniti, se si è onesti e morigerati “non si va da nessuna parte”; che negli States non esiste nessuno che è diventato ricco facendo il bravo e retto cittadino; che il tessuto socio-nazionale si suddivide in prede e predatori; e così via. In tal senso, la tutrice legale incarna in toto e viene presentata proprio come il manifesto testimoniale di questa concezione volutamente e visibilmente estrema ed estremista.
A questa faccia del male come conseguenza di una condizione di irrealizzabilità del sogno americano, del(la) self-made (wo)man, delle speranze della visione capitalistica; corrisponde poi un male più crudo ed idealizzato, personificato, a sua volta, dal vendicativo e crudele capo mafioso Roman Lunyov - interpretato da un Peter Dinklage in parte che, per fisionomia e fisic du role, riesce ad essere subito riconoscibile. Ed è proprio sull’incontro/scontro tra queste due personalità - e, di conseguenza, tra questi due interpreti - apparentemente insensibili ed impietose, tra le cosiddette “due facce della stessa medaglia”; che si districa e costruisce l’intreccio di I Care a Lot, purtroppo vincolato ed esposto ad una sequela di difetti debilitanti.
Se, in un qualsivoglia prodotto audiovisivo, prologo e primo atto - che, insieme, solitamente compongono quel blocco narrativo che definisce i presupposti e gli elementi che giocheranno poi un ruolo attivo o passivo nell’evolversi della vicenda - sono più interessanti ed avvincenti della restante porzione narratologica, c’è qualche problema. Allo stesso modo, se, in un film come quello di J Blakeson, l’introduzione all’organigramma e al modus operandi della società criminale - nel pieno delle sue attività e del suo successo - di Marla Greyson (e alla sua concezione degli anziani come "miniere d’oro", come oggetti riducibili a beni e foto appese ad un muro) e l'allestimento della svista che la porterà al punto di rottura godono di una messa in scena oculata, di una scrittura ispirata e di un senso del ritmo calibrato e ben cadenzato, a differenza invece dell’effettiva loro esecuzione ed attuazione, bisognerebbe rivedere qualcosa.
Sarebbe forse meglio dare un’occhiata al tono e al taglio che si vuole conferire alla propria opera e prevenire, di conseguenza, una possibile caduta nella parodia, nell’esagerazione ancor più marcata, che potrebbe mettere a repentaglio la sospensione dell’incredulità e l’illusione filmica dello spettatore, o in un finale - seppur cinico e allegoricamente stimolante - troppo prevedibile ed esente da qualunque forma di incisività. Oppure riconsiderare le caratterizzazioni dei personaggi ed evitare che il racconto diventi troppo sbilanciato e privo di qualsiasi appiglio intrattenitivo ed affabulatorio. O, ancora, rispettare una premessa forse non originalissima a livello di scrittura, ma convincente dal punto di vista delle intenzioni, e portarla da qualche parte, non limitandosi solamente ad una contrapposizione inizialmente sfumata, e (solo) successivamente dicotomica, di forme e modelli. Infine, sarebbe certamente bene scongiurare la possibilità che l’intera pellicola giunga alla propria conclusione intatta solo grazie alle prove attoriali che contiene e sfoggia.
Sfortunatamente, Blakeson non revisiona o corregge nulla di quanto elencato, dando vita ad una vicenda profondamente difettosa ed incostante che incuriosisce per la prima metà, sfociando poi in un secondo e, soprattutto, terzo atto privi di quello smalto, di quella personalità e di quell’intelligenza narrativo-attuativa precedenti ed originari. Pertanto, ad una prima ora contraddistinta da un ritmo e da un thrilling così concentrati e frenetici da ricordare praticamente un heist movie (solo al contrario) succede uno sviluppo ed epilogo che abbracciano sia il farsesco sia un revenge movie alterno e bipartito, ma, al contempo, visto e rivisto.
A ciò si unisce in secondo luogo, un tentativo di immedesimazione spettatoriale nelle sorti della delirante Marla, che fallisce di fronte ad una costruzione del personaggio - portata avanti per tutto il primo tempo - volontariamente malvagia; ed un discorso di impronta femminista profondamente ambiguo. Forse fin troppo. Da un lato infatti, si potrebbe premiare il voler condurre una riflessione che va controcorrente rispetto all’ondata di buonismo, politicamente corretto e accondiscendenza che domina l’odierna produzione hollywoodiana, prendendo a modello di tale argomentazione un personaggio moralmente disonesto e tutt’altro che esemplare. Tuttavia, questa volontà sovversiva ed incurante nei confronti del canone e dei modelli precostituiti si scontra con la concretezza di una (sua) messa in atto scontata e proverbiale, nonché affidata a scambi di battute tanto vittimisti e demagogici quanto essenzialmente ridicoli.
Detto ciò, I Care a Lot ha però il pregio di essere la prima vera e propria opera in cui il regista J Blakeson [firmatario di un mezzo successo di critica come La scomparsa di Alice Creed e di un completo disastro anche di pubblico del calibro de La quinta onda] dimostra il proprio valore e una specie di visione ed ispirazione nella costruzione visuale e nella messa in scena della vicenda.
Purtroppo, anche in questo caso, si percepisce un distacco tra prima e seconda-terza parte. Infatti, se, nel prologo, Blakeson e la macchina da presa - oltre a reggere la tensione e il thrilling sopracitati - danno respiro ad una serie di sequenze che, pur rispondendo a meri fini narrativi, evidenziano un’idea compositiva di fondo, una gestione cosciente e funzionale di ogni processo attuativo ed un’ottima resa visiva degli attori e delle loro prove; nel secondo tempo, il regista e la sua personalità si eclissano quasi completamente, traducendosi in una riproposizione ridicola ed improbabile degli action thriller a là Atomica Bionda.
Ciò nonostante, una cosa è certa: è proprio grazie al lavoro che Blakeson compie sul volto e sull’estetica del personaggio di Rosamund Pike, se quest’ultima è riuscita a vincere un Golden Globe e potrà aspirare perlomeno ad una candidatura ai prossimi Oscar. Certo, l’attrice, da parte sua, ha conferito alla protagonista - che comunque risente di un’altalenanza di indoli e atteggiamenti - una classe, un aplomb, un look inscalfibile ed algido, perfido ma affascinante, lavorando moltissimo sulle microespressioni e sul parlato. Ma è indubbio che questa alchimia ed esito siano dovuti in buona, se non massima parte al regista.
Posto ciò e malgrado le lodi intessute poco sopra, la sorpresa compositiva messa in campo da Blakeson si esaurisce ben presto di fronte all’evidente presenza e conseguente percezione di uno schema fisso e statico alla base della maggior parte delle sequenze e della loro strutturazione. Discorso a parte è quello riguardante una fotografia patinata, ma fortunatamente equilibrata e piacevole all’occhio, i costumi raffinati ed una colonna sonora tra techno ed elettronica - che ben si confà alle vicende narrate e rappresentate -, che, pur non splendendo per chissà quale fattura od originalità, sono i componenti principali di un’anima tecnica sommariamente caratteristica e caratterizzante. E, di sicuro, non così difettosa come la controparte narrativa.
Quanto affermato e sostenuto finora non è però nulla in confronto a ciò che veramente determina e mina la riuscita complessiva di I Care a Lot e la fattibilità delle sue speranze. Non tanto nella regia, nella messa in scena o nella sceneggiatura, ma ben più a monte. Il difetto principale dell’opera di Blakeson sorge infatti da un dubbio di matrice editoriale. Viene dunque naturale chiedersi che cosa sia, in fin dei conti, I Care a Lot. Un thriller dalle derive action, heist e revenge? Una commedia nera che vuole abbattere le convinzioni - spesso figlie dello stereotipo o degli stessi modelli culturali - del sogno americano, calando la maschera sul marciume, sull’ipocrisia, sulla spietatezza, sull’amoralità delle istituzioni e della società del benessere? Una pellicola che vuole introdurre un nuovo ideale e un nuovo canone di protagonista femminile - quello di una portatrice corrotta di temi socialmente urgenti ed attuali?
Ognuna di queste proposte è giusta e trova fondamento in numerose (ma non tutte le) porzioni di pellicola. Detto ciò, sia essa un thriller, una commedia nera, un film socio-politico, un’opera coraggiosa o fin troppo semplicistica, un buono o un cattivo prodotto, il problema che ci preme sottolineare è piuttosto il modo rovinoso e discontinuo con cui questi stimoli, influenze ed indoli collimano e vengono integrati all’interno dello stesso oggetto filmico. Ciò che ne consegue è pertanto un percettibile e quantomeno sgradevole senso di disomogeneità stilistica ed un disorientamento controproducente ed una successiva potenziale delusione delle aspettative del grande pubblico, che, insieme, generano un verdetto tutt’altro che favorevole e positivo nei confronti della pellicola e in risposta alla domanda d’apertura.
Una Rosamund Pike eccellente, un soggetto stimolante, una tensione inattaccabile ed avvincente (ma purtroppo di breve vita), una regia senza infamia e senza lode, un comparto tecnico che fa il suo, alcuni scambi di battute dalla grande ispirazione sceneggiativa: tutto molto bello ed interessante, se solo avesse portato a qualcosa di veramente concreto ed originale. Eppure, I Care a Lot si mostra e configura come il classico film “che abbaia, ma non morde”. Una pellicola che perderebbe quasi istantaneamente la propria propulsione, il proprio piglio e il proprio appiglio nei confronti dello spettatore medio, non fosse per l’istrionica interpretazione della Pike (meritevole di un Golden Globe?). Un’opera come tante altre che si perde inevitabilmente e rovinosamente nell’ipertrofia produttiva contemporanea e nella vastità di prodotti simili e non. Intrattenente, audace per certi (anche se pochi) versi e sagace in alcune sue uscite, tuttavia frammentaria, mai completamente armonica e visceralmente pungente.
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