TITOLO ORIGINALE: Sar-in-ui chu-eok
USCITA ITALIA: 13 febbraio 2020
USCITA SUD-COREA: 25 aprile 2003
REGIA: Bong Joon-ho
SCENEGGIATURA: Bong Joon-ho, Kim Kwang-lim, Shim Sung-bo
GENERE: drammatico, poliziesco
La recente vittoria di Bong Joon-ho, in quattro categorie – tra cui miglior film -, agli Oscars 2020 ha permesso l’uscita, in Italia, del primo capolavoro del regista, un thriller sensazionale, senza esclusione di colpi, estremamente terreno e realista. Una rappresentazione oggettiva e, a volte, caricata della società e del contesto politico della Corea del Sud degli anni 80. Un’investigazione avvincente che coinvolge ed emoziona. Il bocciolo che ha portato al maestoso Parasite
Oltre ad aver fatto la storia del cinema e non solo, la vittoria di Parasite, ultima opera del regista sud-coreano Bong Joon-ho, agli Oscars 2020 ha reso possibile, anche a noi, poveri spettatori italiani, la visione di Memorie di un assassino. Film che, i pochi fortunati che riuscirono a vederlo all’epoca, descrissero come uno dei migliori film di inizio millennio, un thriller entusiasmante che ha fatto scuola per il suo intreccio, la sua regia, la sua caratterizzazione certosina dei personaggi, per essere quello che è. Un autentico capolavoro. Un film avanti anni luce rispetto a molta della concorrenza occidentale odierna, in ambito thriller e crime. Una storia coinvolgente, condita con interpretazioni ottime ed un sottotesto politico ancora più intrigante. Ma, andiamo con ordine. Nel 2003 viene distribuito, in Sud Corea, Memorie di un assassino, secondo film del nascente regista Bong Joon-ho. La pellicola, in patria, si rivela essere un vero successo. Sbanca letteralmente il botteghino, portandosi a casa, in pochissimo tempo, ben cinque milioni di spettatori. Pochi mesi più tardi, fa incetta di premi in vari festival di settore come San Sebastian, Tokyo e Torino. In Italia, la distribuzione, probabilmente, non aveva intuito le possibilità di questa pellicola o temeva che il pubblico nostrano potesse non capirlo fino in fondo – anche perché è un thriller che, per certi versi, anticipa alcune tendenze e derive del genere, così come lo conosciamo oggi. Tuttavia, già dall’incipit, si capisce tutto il potenziale che Memorie di un assassino dispone. Ci troviamo nella Corea del Sud del 1986, in un piccolo paesino di campagna. Facciamo subito la conoscenza di due detective, Park Du-man e Cho Yong-gu, poliziotti dai metodi bizzarri, non sempre geniali o, addirittura, moralmente giusti e ligi alla legge. All’inizio della pellicola, vediamo la minuscola cittadina, immersa nei campi di grano e nel fango, scossa da una terribile serie di omicidi che sembrano legati da un unico e logico filo conduttore. Due ragazze molto giovani, molto attraenti e popolari in paese vengono trovate senza vita nelle zone appena fuori il centro abitato, in pose e condizioni anomale. I detective individuano in Kwang-ho, ragazzo con un ritardo mentale abbastanza evidente, un possibile sospettato per chiudere e mettere una pietra sopra al caso. Tentando, a tutti costi, di farlo confessare degli omicidi, la polizia della piccola cittadina, in primis, i nostri due investigatori, fa una brutta figura davanti ai media e alla stampa, tanto che il sovrintendente alle indagini viene sostituito da un collega più mite e freddo. Intanto, ad affiancare le indagini del singolare Park Du-man e dell’irascibile ed irrazionale Cho Yong-gu, si unisce un giovane detective, in carriera, proveniente niente meno che dalla capitale, Seoul. Il giovane Seo Tae-yun, molto più esperto ed “aggiornato” sul progresso dei metodi d’indagine, individua alcuni elementi che accomunano i delitti della piccola città – a cui quest’ultimo annette un crimine avvenuto mesi prima, che combacia perfettamente con il modus operandi dell’assassino.
Il giovane investigatore di Seoul capisce, infatti, che l’omicida agisce sempre nelle serate di pioggia, che le sue vittime vestivano con qualcosa di rosso e che prima di commettere il crimine chiedeva ad una radio di riprodurre sulle sue frequenze una determinata canzone. Con l’aiuto dell’assistente/segretaria della stazione Kwon Kwi-ok, i quattro iniziano, così, la propria caccia al killer. Ma la soluzione del caso non è così semplice come Park Du-man sembra pensare e la luce della verità non è certo dietro l’angolo. Dopo il proprio debutto con Barking Dogs Never Bite, Bong Joon-ho, con la seconda opera della sua filmografia, firma un autentico capolavoro. Memorie di un assassino si configura, inizialmente, come thriller – all’epoca, veramente atipico e “particolare”, così come lo è Parasite nel panorama cinematografico di oggi -, ma, nella sua essenza, nasconde molto altro. Attraverso il proprio occhio registico e la propria macchina da presa, Joon-ho dà corpo a questa Sud-Corea da periferia che, se non fosse per le persone che lo popolano, potrebbe essere tutto e niente, fuori dal tempo e dallo spazio, una landa di misteri, perversione, miseria ed umanità palpabile e concreta. A differenza del suo ultimo capolavoro, il regista sud-coreano costruisce, sul grande schermo, una rappresentazione oggettiva e estremamente terrena e diretta del proprio paese e del contesto in cui questo versava sul finire degli anni ’80. Personaggi quasi tipici di questo luogo così misterioso e fitto di rovina e decadenza, brutali ed immorali investigatori, bambini, giornalisti, cacciatori e prede. Un luogo freddo come il gelo – nonostante non si faccia altro che sudare nel film -, raggelante, tenebroso. Questi panorami così estesi e così insidiosi vengono ricercati meticolosamente dalla camera di Bong Joon-ho che tenta, in modo ancora più sottolineato che nel recente Parasite, di costruire una storia, una narrazione, anche all’interno degli svariati piani della pellicola – oltre che sulla carta, nella sceneggiatura stessa. Ogni singola inquadratura dovrebbe essere stoppata e riprodotta a rallentatore per riuscire a cogliere perfettamente i numerosi dettagli contenuti al suo interno. Allo stesso tempo, Bong Joon-ho ragiona anche con una mentalità più ridotta, più intima, più personale, dirigendo, in maniera magistrale – ma sicuramente, non ai livelli del già citato Parasite – un cast strepitoso e maestoso, capeggiato dal notevole ed espressivo Song Kang-ho. Si ricerca l’espressione, la fisicità e la comunicazione corporea dei differenti interpreti, allo stesso tempo, valorizzando la figura in sé e l’umanità che pervade questa landa di misteri, ma rendendole anche minuscole ed infime, in confronto alla vastità delle ambientazioni e dello sfondo.
Un capolavoro unico
Quentin Tarantino
Memorie di un assassino, tuttavia, non è soltanto una critica alla società, una denuncia allo stato di miseria e di liberazione degli istinti, alla brutalità, alla falsità e al potere della polizia, ma anche, come intuibile dal titolo, un thriller – un film, quindi, con una componente thrilling, “eccitante” ed entusiasmante molto forte. La regia di Bong Joon-ho riesce benissimo pure in questo. Essa coinvolge, stupisce, accompagna, traumatizza, sciocca, colpisce, fa perdere lo spettatore nella matassa che si è creato nella propria mente su chi possa essere il killer e come i nostri eroi – o, meglio, antieroi – riusciranno a risolvere il caso. Attraverso espressivi, affascinanti e claustrofobici primi e primissimi piani, campi e contro-campi estremamente corretti, rigorosi e sintetici e piani lunghissimi evocativi e dispersivi, la direzione registica di Joon-ho inizia, con questa pellicola, a maturare esponenzialmente, piantando quei primi semi che porteranno, nel 2019, alla creazione ed uscita nelle sale della sua opera massima, ovvero Parasite. Ed è abbastanza scontato e naturale un confronto tra il ciò che è stato e il ciò che è. A partire dalla sceneggiatura, arrivando, poi, alla regia e alla messa in scena, Memorie di un assassino presenta o, meglio, presentava, già nel 2003, alcuni crismi e nuclei tematici fondanti la poetica del regista, che tornano, in maniera del tutto centrale, nell’ultima pellicola del cineasta. Il discorso e la tematica sociale, molto cari a Joon-ho, qui, in particolare, vengono mostrati nella loro forma e nella maniera più realista e cruda possibile, un autentico colpo allo stomaco, una discesa negli inferi e, parallelamente, una discesa profonda e vertiginosa nell’animo umano. Se in Parasite ciò che vediamo non è che una visione immaginifica ed estremizzata del divario sociale tra ricchi e poveri, in Memorie di un assassino il colpo viene sparato molto più in profondità. Nel film del 2003, tutti sono allo stesso livello, nessuno è più in alto di altri, tutti sono destinati a scontrarsi prima e poi con il proprio compito, il proprio destino, la propria verità, la propria vera natura. Questo livellamento qualitativo e finale della condizione umana viene reso magnificamente dalla caratterizzazione dei diversi personaggi che popolano lo schermo. Notevole risulta, infatti, il gioco che Joon-ho compie sui due protagonisti, a tutti gli effetti, del film, ossia i detective Park Du-Man e il più giovane ed abile Seo Tae-yun. Effettivamente, se il primo subisce, durante e in seguito al corso degli eventi, una notevole evoluzione nei metodi e da un punto di vista personale, divenendo molto più regolato, consapevole e razionale (assumendo, perciò, i punti forti del collega di Seoul); il secondo dimostra un’involuzione, trasformandosi, piano piano, nella propria ombra e in ciò che odia di più in questo mondo. Il caso diventa una vera e propria ossessione per tutti e viene utilizzato dal regista come pretesto per avviare un discorso intimista e d’introspezione nei confronti dei differenti personaggi.
La pellicola è costantemente pervasa da questo alone di perversione, mistero e pericolo e da una vibrante e palpabile tensione, sottolineati e scanditi da un’insistente e mortifera pioggia che, così come in Parasite – nella sequenza dell’alluvione e dell’allagamento della casa -, sta a significare un disvelamento, un qualcosa che viene a galla, che si palesa, che si manifesta, che sia questo il crimine più efferato di sempre o le vere intenzioni di una famiglia di perdenti e parassiti. Come in Parasite (o nel futuristico ed immaginifico Snowpiercer, sempre dello stesso), in cui, secondo la mia modesta opinione, la società è il vero parassita, questo modello estremizzato e scissionista di divario sociale tra ricchi e poveri è ciò che di tenebroso e cattivo si annida dietro ogni angolo, anche in Memorie di un assassino la società è il morbo contro cui si sbatte sempre il muso. E’ la società che provoca questo degrado delle condizioni umane e vitali che possono sfociare poi in rinuncia, malattia (mentale o fisica), brutalità, spietatezza (parlando dei poliziotti) o perversione (come nel caso del nostro killer). Nessuno può sfuggire alla fatalità del destino, la rappresentazione di Joon-ho è estremamente pessimista e chiusa in sé stessa, fatale e misera. Molti altri, volontariamente o meno, sono gli elementi di questo Memorie di un assassino che tornano nel recente e chiacchierato Parasite, come le pesche, la dipendenza e l’incantamento nei confronti dell’America e molti sono i leit motiv, presenti già in questo film, che ricompaiono nel miglior film del 2019, come un leggero tocco surreale, comico, caricaturale, satirico e parodistico, per alcuni versi, in certi momenti della pellicola – focalizzati, soprattutto, attorno al personaggio di Song Kang-ho e ai suoi metodi e ragionamenti imbarazzanti, per non dire infantili e di pancia. Il senso di miseria dell’animo umano, della sua morale, dei propri impulsi e desideri più reconditi viene sottolineato ancora di più dalla magnifica fotografia che ricorda, in alcuni punti, certi momenti del già nominato Snowpiercer, per l’impressione palpabile e concreta di sporcizia, pochezza, putridume, bruttura e primordialità che riesce a trasmettere allo spettatore. Senza dubbio, la scelta di mantenere la qualità del film – parlando della distribuzione italiana – così come esso venne distribuito nel 2003 non fa che accrescere quel sentimento di concretezza, tangibilità e quell’aura di mistero e leggenda che caratterizzano e sono uno dei punti di forza della pellicola. Ad elevare il prestigio dell’opera ci pensano, infine, ambientazioni – incredibilmente suggestive e declinate perfettamente attraverso il lavoro di regia e fotografia – e colonna sonora – persistente e vero e proprio pilastro portante di alcune delle sequenze più memorabili.
I delitti del film si ispirano a quelli avvenuti realmente in una cittadina rurale coreana, tra il 1986 e il 1991 ed è l’adattamento cinematografico dell’opera teatrale Come to See Me di Kim Kwang-lim
Qui, è dove tutto è iniziato. Poi sono venuti, in ordine cronologico, The Host, Madre, l’americanizzato, ma autoriale Snowpiercer, il traumatico Okja ed, infine, lo storico e già leggendario Parasite. Tuttavia, se il detective Park Du-man non avesse deciso di indagare sul ritrovamento del corpo di una ragazza in un canale di scolo, a lato di un folto e ricco campo di grano – unico elemento ridente e rigoglioso del film, contraddistinto dal color oro della ricchezza, così com’era in Io non ho paura di Gabriele Salvatores -, tutto ciò non sarebbe stato possibile. Memorie di un assassino è la genesi, è il primo germoglio della stupenda e magistrale pianta che sarà ed è, oggi come oggi, Parasite. Memorie di un assassino è un film che tutti dovrebbero vedere, anche chi non ha apprezzato l’ultima opera dell’autore coreano. Oltre ad essere un thriller spietato, mozzafiato, sorprendente ed inaspettato in molti dei suoi risvolti – soprattutto, riguardo al finale -, il crime di Bong Joon-ho è un’autentica opera di grande cinema, di grandi emozioni, di grande tecnica. Pur presentando alcuni difetti (a livello di montaggio non siamo proprio al massimo della forma e l’introduzione al caso non è chiarissima, inizialmente), Memorie di un assassino è un’opera istantanea, un cult senza tempo, un colpo secco al cuore e allo stomaco, un fulmine a ciel sereno, un piccolo miracolo. In uno stato di grazia artistico e tecnico, Bong Joon-ho regala al pubblico un vero e proprio manuale di cinema, di scrittura filmica, di messa in scena, di gestione di tensione, twist e suspense, di caratterizzazione delle differenti figure. Il primissimo piano di Song Kang-ho con cui si chiude l’epopea criminale del 2003 finisce, di diritto, nella mia personale lista delle inquadrature più iconiche della storia del cinema, per la propria potenza espressiva e comunicativa. In questo caso, vale proprio il detto: <<uno sguardo che vale più di mille parole>>.
Quei due occhi sbattezzati, smarriti, senza speranza, persi nel vuoto rappresentano, al massimo, la perdizione e la dannazione dell’animo umano. Per un detective come lui, un investigatore con un fiuto prodigioso, uno che riconosce i sospettati e i criminali al volo, con un solo sguardo, appunto, l’usuale, il normale, il generale, l’essere comune che si trasforma in perversione, in vizio, in sete di sangue è veramente il vicolo cieco, il buco più profondo in cui questi potrà mai sprofondare. Così come il caro detective Park, anche il pubblico rimane disorientato e stordito dopo aver terminato la visione di Memorie di un assassino, tentando di sbrogliare la matassa e di ricollegare i fili insieme per riconoscere una verità plausibile. Questa verità è però estremamente individuale e nel tentare di darsi una risposta, il pubblico finisce, irrimediabilmente, per sbattere, a sua volta, contro il muro impenetrabile ed inscalfibile della società e del mistero. Memorie di un assassino è un’opera di rara bellezza, un thriller calibrato, spietato, provocatorio, violento, ma estremamente umano, tangibile e, addirittura, spaventoso per la propria plausibilità ed il proprio realismo. Il primo vero capolavoro di Bong Joon-ho, chiudendo una perfetta struttura a cerchio, si pianta solidamente nella mente e nello stomaco dello spettatore, risvegliando in lui, a livello viscerale ed umano, ed attanagliandolo con sentimenti e riflessioni contrastanti, morali, innate, ma paradossalmente criptiche ed oscure.