TITOLO ORIGINALE: Pinocchio
USCITA ITALIA: 19 dicembre 2019
REGIA: Matteo Garrone
SCENEGGIATURA: Matteo Garrone, Massimo Ceccherini
GENERE: avventura, fantastico
PREMI: 5 DAVID di DONATELLO tra cui MIGLIOR SCENOGRAFO e MIGLIOR TRUCCATORE
Il regista di Gomorra – Il film, Il racconto dei racconti e Dogman interpreta, a modo suo, la fiaba tutta italiana di Collodi, già rivisitata nel 1940 dalla Disney. Interpreti d’eccezione, un comparto visivo, stilistico ed artistico strabiliante ed una freschezza nell’interpretazione fanno di questo film il must-watch nelle sale questo Natale
Frozen II, Cena con delitto, Last Christmas, Star Wars L’ascesa di Skywalker e, poi, Jumanji 2, La Dea Fortuna, Tolo tolo, Il Primo Natale. Moltissimi i concorrenti contro cui Matteo Garrone ha deciso di battersi per il monopolio cinematografico di questo Natale 2019. Nonostante la ferrea opposizione, Pinocchio ne esce fuori con le ossa ben intatte. La fiaba amata, odiata, osannata, vista, vissuta, reinterpretata e sognata da molteplici generazioni, torna al cinema dopo quasi ottant’anni dall’uscita del classico Disney (che rivisitava la storia classica ed originale di Carlo Collodi, scritta verso la fine del XIX secolo) ed una ventina d’anni dopo la trasposizione live-action tutta italiana, sceneggiata, diretta ed interpretata da Roberto Benigni; dietro l’abile mano registica di Matteo Garrone. Dopo la vittoria agli scorsi David di Donatello per il meraviglioso e grottesco Dogman (non un film per famiglie di sicuro), il cineasta torna a terre ed atmosfere da lui già visitate nella direzione de Il racconto dei racconti, fantasy atipico, strepitoso e rinnovatore del genere, tra le migliori pellicole italiane di sempre. Una trasposizione di Pinocchio scritta e diretta da Garrone – cui filmografia è perlopiù caratterizzata da atmosfere cupe, grottesche, surreali, profondamente inquietanti e disturbanti – poteva sembrare una mossa azzardata, una sorta di scommessa, quasi fuori luogo, visto il soggetto. Tuttavia, Matteo Garrone lo fa di nuovo, firmando un altro film assolutamente imperdibile, raffinato ed incredibilmente curato sia da un punto di vista tecnico che narrativo. Lo stile del cineasta si mischia perfettamente ed in modo omogeneo con la storia e le peripezie del burattino parlante, creando un mix rustico capace di avvicinarsi, come pubblico ed incassi, all’ultima fatica Disney.
Con Pinocchio, Garrone riesce a trovare una via di mezzo tra invasività e subordinazione della regia e dello stile nella direzione, alternando momenti in cui la sua regia occupa una dimensione dominante ed altri in cui si lascia maggior spazio al proseguimento e allo svolgimento del racconto. Il regista romano traspone fedelmente la fiaba moralista di Collodi, rappresentando i diversi momenti dell’opera con un’anima ed uno stile estremamente letterario, intimo, racchiuso e certosino. Garrone restituisce alla storia quel carattere rustico, concreto, terreno (e terroso), originario, tradizionale e tipicamente italiano che Pinocchio aveva perso dai tempi dell’adattamento disneyiano. Valore che neanche la pellicola del 2002 di Benigni, abbastanza sottotono, dimenticabile ed eccessivamente costosa, era riuscita a restituire. La macchina da presa si focalizza, in modo quasi maniacale, sulla resa e sulla caratterizzazione visiva, artistica ed iconica dei differenti personaggi. Pinocchio, Geppetto, Mangiafuoco, la Volpe, il Gatto, la Fata. A tutti, all’interno del film, viene dedicata una scena o, comunque, un momento, caratteristico e che li rappresenta. Un esempio è visibile fin dalla prima sequenza con cui si apre la storia e l’arco narrativo di Geppetto, interpretato da un grandissimo Roberto Benigni. In questa scena, si vede Geppetto che raschia, quasi intaglia, con uno scalpellino da falegname, le ultime briciole di formaggio. Questa scena rappresenta e caratterizza la condizione sociale ed economica di Benigni all’inizio del film, prima della costruzione del burattino. Egli è legato a due valori: povertà e lavoro che diventa sinonimo di vita. Egli, difatti, taglia, in modo inusuale, il formaggio – un alimento che garantisce e legato, perciò, alla vita che qui sembra quasi sopravvivenza. Il formaggio – la vita – con cosa viene raschiato per cibarsene? Proprio con lo scalpello, simbolo del lavoro da falegname di Geppetto. In conclusione, Geppetto taglia ciò che gli permette la vita – ora in condizioni misere – con l’attrezzo da lavoro, strumento strettamente legato con la vita e, nel contesto di Pinocchio, con, appunto, il dare e “garantire” la vita. In questo caso, il lavoro diventa vita, creazione del burattino, che prende vita e viene plasmato da Geppetto con le sue mani e i suoi attrezzi. Lo stesso avviene, in seguito, nella scena di Pinocchio che si brucia i piedi e in altrettante inquadrature che riprendono pedissequamente la morale e i vari scenari del libro.
Sono diventato babbo!
Geppetto (Roberto Benigni) nel film
Allo stesso tempo, questa restituzione di italianità alla fiaba di Collodi, Garrone riesce a valorizzarla con riprese veramente magnetiche, affascinanti, perfette, da un punto di vista registico e fotografico. Un’ulteriore valorizzazione è sicuramente data dalla scelta, a livello di sceneggiatura ed interpretazioni, di mantenere le inflessioni regionali e le varie forme dialettali. Questa peculiare caratteristica della pellicola permette una ri-connessione con le radici, con le origini del racconto, sia da parte del pubblico, sia per quanto riguarda la riuscita finale e l’estetica del film. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, Garrone sceglie di ricostruire ben poche ambientazioni utilizzando effetti visivi ed illusioni al computer, ambientando il tutto, in presa diretta, in paesaggi e località quasi fatate, fantastiche e ferme nel tempo. Si torna, d’un baleno, nel XIX secolo, nell’entroterra toscano, in un piccolo villaggio di contadini ed artigiani, passando, poi, per le magiche e sperdute vedute della campagna laziale, arrivando fino alla costa rocciosa ed incantata della Puglia. Nonostante Pinocchio sia, appunto, una storia di fantasia, la ripresa e la resa filmica delle ambientazioni permette all’opera di Garrone di acquisire una sorta di realismo aggiunto che, stranamente, arricchisce e combacia perfettamente con le atmosfere e le avventure del burattino. Il cineasta romano, con la sua regia attenta, focalizzata e in vero stato di grazia, porta il pubblico in un vero e proprio paese dei Balocchi che quest’ultimo non vorrebbe mai abbandonare. Garrone ha compreso ed assimilato stupendamente la magia e l’anima di Pinocchio, l’ha fatta sua e l’ha trasmessa su pellicola, donando momenti ed inquadrature veramente da applausi in cui la ricerca fotografica e dei piani raggiunge forse il punto più alto nella filmografia del regista, avvicinandosi moltissimo al suo precedente Racconto dei racconti.
Avendo Garrone fatta sua, alla perfezione, la storia originale – immaginata da Collodi verso la fine del XIX secolo e diventata ormai parte dell’immaginario collettivo universale – da un punto di vista registico, lo stesso avviene a livello di sceneggiatura e scrittura del racconto. Garrone, con la collaborazione di Massimo Ceccherini, porta su schermo l’intera fiaba di Collodi senza alcuna omissione nei confronti dei dettagli più macabri e meno adatti ad un pubblico di famiglie come l’impiccagione di Pinocchio, la trasformazione straziante del burattino e di Lucigno e il tentato omicidio del ciuchino verso il finale. Un dettaglio che, personalmente, ho apprezzato è stato il fatto che Garrone e Ceccherini, scrivendo, e poi lo stesso Garrone, dirigendo la pellicola, non si lascino mai andare ad un’esaltazione, ad una tensione emotiva di attesa nei confronti di un momento famoso e conosciuto da tutti, come la creazione del burattino o la sequenza della balena e dell’incontro tra padre e figlio. Garrone non cerca l’autocompiacimento riguardo alla trattazione onorevole della storia quasi mitica di Collodi. No, Garrone vuole raccontare Pinocchio, tratta Pinocchio discostandosi dall’eredità che questo racconto si porta con sé. E lo fa magistralmente, giudizio prevedibile vista la sua bravura nei lavori precedenti. I dialoghi sono un ulteriore esempio della cura maniacale del cineasta nel rendere e riportare la fiaba a radici più solide, terrene e concrete. Pinocchio risulta, sì, ancora legato alla tradizione fantastica e fiabesca, ma anche gli elementi più improbabili e surreali si mescolano perfettamente con quelli più reali, trasformando il mondo di Pinocchio nella parabola, ancora attuale, del bel Paese – tra gli obiettivi principali della creazione di Collodi, oltre a quello di sensibilizzare la popolazione sulla questione dell’istruzione e del giudizio. Tra le uniche pecche della pellicola di Garrone c’è sicuramente un notevole squilibrio per quanto riguarda la gestione dei tempi. Si parte in quarta con la creazione del burattino per poi adagiarsi, forse troppo, su alcuni passaggi. Avrei preferito che tutto fosse trattato ed approfondito ala stessa maniera, ma, ovviamente, la durata sarebbe stata maggiore alle due ore. Ciò, per fortuna, non inficia la magia e il fascino nei confronti della pellicola.
Ad aiutare Garrone nell’ardua impresa di ricatturare la magia della storia di Collodi ci pensa un cast maestoso e profondamente talentuoso. Iniziamo proprio da lui, lo stesso burattino che dà il titolo all’opera, Pinocchio. Federico Ielapi, classe 2010, regge sulle sue spalle l’intera pellicola ed interpreta, in modo magistrale ed estremamente veritiero nei confronti della fiaba originale, il burattino, irrispettoso ed un po’ ribelle, un personaggio da compatire e comprendere, ma che non deve scatenare alcuna empatia con il pubblico, come visibile dai suoi comportamenti e dal fatto che faccia letteralmente passare tutte le possibili pene d’inferno a suo padre, Geppetto. Dopo quasi vent’anni dall’uscita del suo omaggio al racconto di Collodi e dalla vittoria dei tre premi Oscar per La vita è bella, Roberto Benigni, in gran spolvero, torna al cinema, questa volta interpretando il famoso falegname. Geppetto apre e chiude il racconto, monopolizzando le prime sequenze di questo Pinocchio e dimostrando un’interpretazione magistrale ed estremamente fedele al personaggio letterario. Benigni è ottimo ed estremamente espressivo, tenero in moltissime scene e sofferente in altre. L’attore rappresenta, senza dubbio, uno dei motivi per cui il film sta avendo così tanto riscontro nei cinema di tutto il paese. Ad accompagnare questi due mostri di recitazione, Massimo Ceccherini, malvagio, snaturato ed infido nel ruolo della Volpe; Rocco Papaleo come il Gatto, comic relief del duo ed uno dei tanti del film, un po’ subordinato al compagno Volpe; Marine Vacht, bellissima ed incantevole nel ruolo della Fata buona, l’aiutante e la componente morale della pellicola; Maria Pia Timo, altro comic relief del film di Garrone, estremamente credibile come Lumaca; Gigi Proietti nel ruolo minore e molto ridotto di Mangiafuoco; e tanti altri. Un cast veramente omogeneo ed imperdibile, composto da grandi talenti e volti attoriali, quasi irriconoscibili sotto la magia del trucco prostetico.
Io non voglio essere un burattino…
Pinocchio (Federico Ielapi) nel film
L’apparato tecnico, estetico e stilistico del film viene esponenzialmente impreziosito dalla fotografia magica, meravigliosa, suggestiva ed incantata di Nicolaj Bruel, premio David di Donatello l’anno scorso per la sua collaborazione con Garrone in Dogman. Se, però, in Dogman, la fotografia accresceva ancora di più quel sentimento, quel senso di perdizione, di perdita totale dei valori umani, di fratellanza, libertà ed uguaglianza, ritornando ad un mondo in cui regnano supremazia, soppressione ed annullamento, qui – essendo la storia basata su una crescita ed un percorso di formazione a lieto fine – Bruel gioca e sperimenta molto di più. Rimangono, come sempre, le tonalità di grigi, marroni scuri e quell’estetica terrosa e polverosa, consona alla filmografia di Garrone, ma si costruiscono scene in cui, talvolta, la fa da padrone la luce del Sole, altre volte, il rosso del vestitino di Pinocchio emerge quasi naturalmente in mezzo al paesaggio incontaminato e da fiaba. Insieme, regia e fotografia danno vita a visuals e a vedute che arrivano ad essere dei veri e propri quadri. Tutto ciò è notevolmente sottolineato dal trucco – che permette una crescita di quel senso di realismo e concretezza che pervadono l’intera pellicola -, dalle ambientazioni, come già citato in precedenza, e dalla colonna sonora di Dario Marinelli, compositore italiano, figura musicale internazionale di rilievo, candidato a tre premi Oscar per Orgoglio e pregiudizio, Espiazione ed Anna Karenina. Con Pinocchio, Garrone torna un po’ bambino, si innamora e ci fa innamorare nuovamente del burattino e delle sue avventure, conferendo a tutto un’impronta autoriale e personale, nonostante il film possa essere classificato, ad una prima occhiata, come film main-stream o per famiglie. Il Pinocchio di Matteo Garrone fa tornare tutti noi nel Paese dei Balocchi e strega completamente il pubblico con le sue note comiche, ma anche con le sue atmosfere da fiaba, a volte grottesche, altre surreali, surclassando decisamente l’esperimento mal riuscito di Benigni che poco aveva a che fare, a livello di realizzazione, con la storia di Collodi. Inaspettatamente, l’estetica dark e molto terrena, rustica ed aspra di Garrone non stona, anzi, si addice al racconto originale del burattino di legno che vuole diventare un bambino vero. Per questa serie di motivi, la pellicola del cineasta romano, diventa, indubbiamente, uno dei film italiani più belli e giustamente attesi dell’anno e calpesta prepotentemente produzioni di major molto più grandi e famose come, per esempio, la Disney. Pinocchio è, a mio modesto parere, il film da vedere questo Natale al cinema ed un prodotto da sostenere, perché segno e testimonianza che il cinema italiano, soprattutto quello di genere, non è morto, anzi, è vivo e vegeto, e che in Italia sono rimasti ancora degli autori validi, con uno stile ed una tecnica semplicemente perfetti.