
UN SEMPLICE INCIDENTE, o l'eco del dubbio
SCHEDA
TITOLO ORIGINALE: Yak taṣādof-e sāde
USCITA ITALIA: 6 novembre 2025
USCITA FRA: 10 dicembre 2025
REGIA: Jafar Panahi
SCENEGGIATURA: Jafar Panahi
CON: Vahid Mobasseri, Mariam Afshari, Ebrahim Azizi, Hadis Pakbaten
GENERE: drammatico, thriller
DURATA: 102 min
Palma d'oro al Festival di Cannes 2025
VOTO: 8.5
RECENSIONE:
Vincitore della Palma d'oro a Cannes 2025, Jafar Panahi trasforma un banale incidente in un viaggio morale e politico dentro le crepe dell’Iran contemporaneo, dove memoria, colpa e giustizia si confondono fino a incrinare ogni certezza. Con un thriller asciutto e inquieto, sospeso tra realismo, allegoria e western etico, il regista ribadisce la propria idea di cinema come atto di resistenza, interrogando lo spettatore sul peso della verità, sulla spirale della violenza e sulla possibilità — forse illusoria — di una riconciliazione.
A dispetto di quel che spesso dà a vedere, non c’è mai nulla di semplice nel cinema di Jafar Panahi, regista iraniano tra i più autorevoli; voce unica e inimitabile, specie nell’inscindibile, inestricabile rapporto tra arte e vita, dove l’una è insieme estensione, autorappresentazione, trasfigurazione e riflessione dell’altra. Un cinema, il suo, che sonda ciò che di urgente, insopportabile, tormentoso, ribolle sotto la placida e quieta superficie delle cose. Che attende, si cela in controluce e nel controcampo di un paese osservato dall’interno, con una lucidità mai disgiunta dalla tenerezza. Uno sguardo in apparenza pacato, quasi dimesso, attraversato però da un’energia critica capace di farsi affilata senza mai perdere misura.
Nella fattispecie, la forza del suo cinema proviene direttamente dalle sue esperienze personali; affonda nel peso concreto, letterale delle restrizioni che gli sono state imposte dal regime e nella determinazione con cui, imperterrito, ha continuato a filmare anche quando gli veniva proibito, tramutando arresti, censure, veti in materia narrativa. Facendo, insomma, del cinema una politica di (una) vita (in continua protesta e dissidenza), ancor prima che d’autore, quest'ultima memore della lezione del maestro Kiarostami di lavorare con poco, trasformare il limite in linguaggio, e cercare la verità nelle pieghe minime e intime della quotidianità.
Per Panahi, insomma, il film è un dispositivo etico, una responsabilità da cui non si è mai sottratto, così come non possono farlo i soggetti, gli abitanti e gli spettatori che abitano le sue storie.

Sono tratti inderogabili, principi rigorosi e ferrei che egli persegue e ribadisce con decisione nel suo undicesimo lungometraggio, Un semplice incidente, quello con cui si è aggiudicato la Palma d’oro - ulteriore consacrazione per uno dei pochi cineasti ad aver vinto i premi più importanti in tutti i principali festival internazionali (e quindi Cannes, Venezia, Berlino, Locarno). Un film che prende il via, appunto, da un fatto banale che nondimeno innesca la complessità di discorsi, posizioni e pensieri che ne fanno una pietra angolare della poetica di Panahi e di questo suo percorso, spartito equamente, sentitamente e logicamente tra una dimensione e l’altra della propria identità ed esistenza.
Il semplice incidente del titolo capita ad un uomo che, una sera, tornando a casa con moglie e figlia, danneggia la sua auto investendo per sbaglio un cane randagio. Nella ricerca di un qualche aiuto, s’imbatte in Vahid, in procinto di chiudere la propria giornata in officina. Ma, come rammenta qualcuno a lui vicinissimo, “le cose accadono perché Dio vuole che accadano” e “c’è sempre un motivo se decide di mettere qualcosa sul nostro cammino”. Il meccanico infatti riconosce nell’uomo che è venuto a chiedergli una mano il rumore cigolante e il passo strascicato dovuto ad una protesi del tutto simile a quella dell’ufficiale dei servizi segreti da cui anni prima era stato torturato in carcere.
Animato dal desiderio di vendetta, Vahid lo rapisce, deciso a ucciderlo e seppellirlo nel deserto. Eppure, nel momento stesso in cui si appresta a compiere l’estremo gesto, un dubbio lo assale e lo immobilizza. Un dubbio che stride come il rumore del passato che torna a incrinare la certezza del presente. Poiché durante le torture era sempre rimasto bendato, il meccanico non può sapere con sicurezza se la sua vittima sia il vero colpevole. L’incertezza, corrosiva e inesorabile, lo spinge allora a cercare conferma negli altri. Più precisamente, a radunare un gruppo di ex prigionieri come lui, chiedendo loro di aiutarlo a identificare l’uomo, noto a tutti come Eghbal, “Gamba di legno”. Anche le memorie, come le ferite, si rivelano però inaffidabili: la fotografa di matrimoni Shiva giura di riconoscerne l’odore acre di sudore; l’operaio Hamid è convinto che la voce sia la stessa che lo interrogava dietro la benda; la giovane sposa Golrokh rinuncia persino ai preparativi del suo matrimonio pur di vendicarsi dello stupro subito in prigione.
Pur tuttavia, come sempre accade nel cinema di Panahi, la realtà non si lascia mai imprigionare in una sola verità e presto il dubbio va a minare pure la compattezza e coesione dolorosa del gruppo di sopravvissuti, generando una tensione che non riguarda più soltanto l’identità del presunto aguzzino, ma la natura stessa della giustizia, della memoria e del perdono. Le certezze vacillano, i ricordi si contraddicono, le convinzioni si incrinano, e ciascuno inizia a dubitare non solo dell’altro, ma anche di sé, del proprio sguardo, della propria capacità di discernere il giusto dal colpevole.

Ciò detto, proprio perché, nel suo caso, l’opera è indivisibile dalla vita, va precisato che Un semplice incidente è il film che Panahi realizza a seguito dell’ennesimo periodo di reclusione.
Sette mesi durante i quali ha “ascoltato tante voci, tante storie” sulle quali ha costruito una storia pensata come il bilancio di un’esperienza comune (“tutti noi abbiamo subito interrogatori con gli occhi bendati”), un viaggio alla ricerca di risposte nette, precise, un’elaborazione di timori e angosce, opinioni e convinzioni. Un flusso di coscienza a più voci che si fa riduzione emblematica, per certi versi terapeutica, sublimata delle ferite e delle disparità nell’Iran di oggi, tra chi crede che “non c’è bisogno di scavare la fossa alle persone del regime, lo stanno già facendo da sole” e chi invece sostiene che bisognerebbe sterminare tutti gli oppressori. Questo racconto e la sua rappresentazione abbracciano inoltre quella porzione della società al di là di questa opposizione fra violenza e non violenza: una maggioranza silenziosa che aspetta e non sa ancora cosa vuole, coloro che con la politica c’entrano poco o nulla.
Nondimeno, la domanda rimane la stessa: “come comportarsi?”. Difatti, come lui stesso ha ricordato e puntualizzato, “uno dei problemi fondamentali di gran parte delle rivoluzioni è che spesso le vittime, una volta sottratto e riconquistato il potere al regime precedente, finiscono per riprodurre e riproporre gli stessi meccanismi di oppressione”. Come se, uscendo da una prigione, ci si precipitasse in un’altra, più vasta e invisibile: quella del trauma, della memoria, della sopravvivenza. E sembrasse impossibile spezzare la spirale della violenza, condannati invece a perpetuarla.
La storia, dopotutto, è più simile ad un cerchio che ad un linea retta. Tutto pare ripetersi sempre uguale, immutato. Ed ecco che da un regime ne nasce presto un altro, tant'è che viene spontaneo, anzi inevitabile domandarsi cosa riservi il futuro. Che è poi la meta ultima del viaggio (della durata di circa 48 ore) di questo van-arca tra le affollate strade di Teheran e vaste distese desertiche. Un percorso fisico e geografico, morale ed esistenziale che, proprio in quell’apparente vuoto, sembra poter ospitare un’insperata possibilità di verità, forse persino una confessione decisiva.

È l’assenza, la privazione, la negazione, dopotutto, a produrre l’urgenza, la necessità, l’arte per Panahi. Difatti, malgrado la scadenza e revoca della ventennale interdizione dal cinema a suo carico e la possibilità di poter tornare a girare liberamente, egli ha comunque optato per la maniera e le modalità che conosce meglio e ha perfezionato in tutti questi anni, al fine di non limitare in alcun modo la propria libertà e indipendenza creativa. Con l’unica differenza che, in Un semplice incidente - dove abbandona le congenite stratificazioni del metatesto e dell’autoriflessione, scegliendo di “farsi da parte” e trattenersi dietro la macchina da presa - le impiega e pone al servizio di un’impalcatura più narrativa del solito. Di una cornice di genere puro che si rifà ad un’estetica riconoscibilmente hollywoodiana nel chiaro tentativo di rendere alla portata di ognuno, il più leggibile, comprensibile e universale, un dolore che è insieme suo e del suo popolo.
L’indole da pamphlet politico e la naturale tensione verso il road movie di un cinema che però - come chiariva il potentissimo finale del precedente Gli orsi non esistono - non scappa, ma rimane ben saldo dov’è e dove sempre starà; si accorpano e fondono pertanto col thriller hitchcockiano (sull’etica della colpa e del dubbio di Nodo alla gola, Io confesso e Il ladro) e polanskiano (si pensi al rapporto tra verità, memoria, giustizia e vendetta alla base di un capolavoro come La morte e la fanciulla), fino a raggiungere le latitudini fataliste dei neowestern coeniani. Non solo: in questo incrocio tra forme, toni, modi, Panahi riesce ad innestare pure la commedia dell’assurdo di beckettiana memoria, utile a tracciare l’esilissimo filo che separa torturati e torturatori in un sistema fondato sulla paura e sulla menzogna. Perché sì, il dolore può paradossalmente rendere gli esseri umani paradossali, tragicomici, deformi nella loro stessa disperazione.
Il regista iraniano lavora sulla sottrazione, sul non detto, costruisce per omissioni tanto quanto per rivelazioni ed usa questo smarrimento etico per piegare il linguaggio cinematografico: la macchina da presa non s’impone, osserva; il montaggio privilegia pause che lasciano al respiro dei personaggi la possibilità di manifestarsi; i volti sono inquadrati senza alcun compiacimento, accentuando la verosimiglianza e trasformando il film in un meccanismo empatico che induce lo spettatore a interrogarsi sul proprio grado di partecipazione, sul confine tra giustizia e vendetta, tra vittima e carnefice.

Il colpo di maestro (di Panahi e della sua scrittura realista, al contempo sensibile e spietata) sta proprio qui: nella messa in crisi del desiderio di vendetta dei personaggi, costretti — e noi con loro — a misurare la propria fame di verità con i vincoli sensibili della memoria e la fragilità delle prove. Il film rivela così la sua pericolosa benevolenza, non per attenuare la gravità del male, ma per mostrare quanto sia fragile ogni risposta che pretende di essere definitiva.
La possibile confessione risolutiva, suggerita dal viaggio, non arriva come una catarsi ovvia. Piuttosto, si affaccia come un’improbabile apertura. O come il sopraggiungere di una luce lattiginosa, forse ancor più oscura, confondente e inquietante delle fredde tenebre della notte iraniana, sotto la quale ogni promessa di vita, umanità, speranza, futuro si infrange irrimediabilmente.
Forse non esiste alcuna reale possibilità di pace o di riconciliazione perché l’eco della paura non si estingue mai per davvero, continua a vibrare nell’aria, anche e soprattutto nel momento in cui smette di avere un volto o una forma riconoscibili. È sufficiente allora un rumore, un’inquadratura improvvisa, una soluzione filmica minimale per farla riaffiorare, raggelante e intatta, insieme all’ennesimo dubbio. Chi saremo quando accadrà di nuovo?
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