TITOLO ORIGINALE: Khers nist
REGIA: Jafar Panahi
SCENEGGIATURA: Jafar Panahi
GENERE: drammatico
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
Da sempre ostacolato, vietato e censurato dal suo governo per il modo indipendente e alternativo di riprendere, rappresentare e raccontare la realtà del suo paese, Jafar Panahi (attualmente dietro le sbarre) ragiona sull'importanza, sul peso, sulle conseguenze e sull'urgenza politica delle immagini, con un film teorico, lucidissimo, dotato della tensione e dell'atmosfera dei migliori thriller e spy movie. Il ritratto di una nazione disgregata, frammentata, disunita, quasi fosse composta da due mondi tra loro diametralmente antitetici, eppure accomunati da una paura strisciante ed asfissiante che il regista afferma essere possibile sconfiggere soltanto attraverso l’atto fotografico/cinematografico.
Le immagini sono importanti. Le immagini hanno un peso, una ragione, ma anche tante (e non sempre piacevolissime) conseguenze.
Finalmente qualcuno che lo dice, anche a questa 79° festival del cinema di Venezia, che ha visto sui propri schermi tante storie di identità smarrite, spaesate, dislocate, distrutte e ricomposte, ma mai davvero dell’attualità e dell’urgenza politica del linguaggio per immagini.
Lo ribadisce (sempre in concorso) l’iraniano Jafar Panahi nel suo Gli orsi non esistono, il film che egli - da sempre ostacolato, vietato e censurato dal suo governo per il modo indipendente e alternativo di riprendere, rappresentare e raccontare la realtà del suo paese - ha prodotto e girato segretamente, prima di venire arrestato e condannato nuovamente a sei anni di detenzione (ragion per cui non è potuto essere presente sulla passerella del Lido).
Una pellicola in cui il regista, traendo spunto diretto dalle proprie vicende personali, legali e politiche, si racconta quale misterioso fuggitivo che, nonostante il veto di ripresa e produzione di immagini impostogli dal regime politico, incuriosito dalle tradizioni, dalla semplicità e dal quieto vivere di un piccolo villaggio al confine con l’Azerbaigian, si mette a fotografare gli stralci di quotidianità dei suoi abitanti, mentre, in parallelo, è impegnato nella realizzazione - segreta e a distanza - di un film che segue e narra il reale tentativo di fuga dall’Iran da parte di una coppia di fidanzati.
Tuttavia, quasi fosse un figlio spirituale, o addirittura il discendente diretto del David Hemmings di Blow Up di Antonioni o del Gene Hackman de La conversazione di Coppola, in questo suo (teoricamente) proibito, eppure insopprimibile bisogno di cattura di ciò che lo circonda, Panahi riprende qualcosa che non avrebbe dovuto nemmeno scorgere: uno scambio clandestino di affettuosità tra un giovane di questo paesino ed una sua giovane concittadina che, come vuole l'usanza, fin dalla nascita è stata promessa in sposa ad un altro ragazzo.
Una fotografia, la cui (anche solo supposta) esistenza provocherà parecchio scompiglio nella comunità, la quale verrà progressivamente invasa e devastata da una paranoia soffocante e pervasiva che condurrà la pellicola verso esiti tragici e, per certi versi, quasi mitici ed ancestrali.
Ciò detto, ha dell’incredibile il fatto che, pur trovandosi in una situazione che potrebbe annientare il genio, la creatività, la vocazione di chiunque, mettere fortemente in discussione l’utilità del proprio lavoro artistico; in una condizione ostracista che è fatta apposta per ledere la speranza, la forza di volontà e, ancor prima, l’esistenza dell’imputato, il cineasta iraniano riesca comunque a venire a capo e a regalarci forse uno dei suoi lavori più lucidi e teorici, uno caratterizzato da un’atmosfera sospesa, incerta, sempre vicina alla deflagrazione, degna dei migliori thriller o spy movie, ma anche una delle visioni più autentiche, affascinanti, insieme luminose ed inquietantemente oscure della propria terra natia.
Perché non è la falsità di un “lieto fine”, una chiusura di sipario conciliante, eroica e salvifica, od una visione formato festival dell’Iran di oggi, ciò che cerca Panahi con Gli orsi non esistono, quanto piuttosto il mosaico e l’immagine (reale e per procura) di una nazione disgregata, frammentata, disunita, quasi fosse composta da due mondi tra loro diametralmente antitetici, eppure accomunati da una paura strisciante ed asfissiante che è possibile sconfiggere soltanto attraverso l’atto fotografico/cinematografico.
Un paese - preda, al contempo, di superstizioni risalenti a chissà quando, e di divieti assurdi ed imposizioni oscurantiste - che Panahi, con uno dei finali più semplici, ma anche più significativi del concorso, con uno sguardo voglioso di rivincita e verità ed un gesto indubitabile, dichiara fermamente di non voler abbandonare. Non ora, forse mai. Quantomeno, finché gli orsi, o meglio, gli uomini - contrabbandieri politici o chi per loro - esisteranno, nell’ombra, all’oscuro di un occhio (non-)libero di rappresentare, mostrare, raccontare, testimoniare, fare luce, rivelare.
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