TITOLO ORIGINALE: Anatomie d'une chute
USCITA ITALIA: 26 ottobre 2023
REGIA: Justine Triet
SCENEGGIATURA: Arthur Harari, Justine Triet
CON: Sandra Hüller, Swann Arlaud, Milo Machado Graner
GENERE: thriller, giallo, drammatico
DURATA: 150 min
Vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes 2023
Vincitore della Palma d'oro al Festival di Cannes 2023, Anatomia di una caduta di Justine Triet racconta l'ipovisione che affligge la nostra percezione delle cose, specie di quelle che ci riguardano da vicino, che sono nostre; e scava nell’inesauribile e secolare mistero della natura umana, mettendo in scena un thriller giudiziario rigoroso e linguisticamente molto elegante e decostruendo la caduta di una relazione, di un matrimonio, di un amore.
Sembra strano a dirsi (e a scriversi), ma la chiave di Anatomia di una caduta è un cane guida (non a caso), un border collie di nome Snoop. A lui sono delegate ed affidate le azioni e i segmenti più significativi del film di Justine Triet, giovane regista francese interessata fin dal suo esordio (nel 2013 con La Bataille de Solférino) a storie con protagoniste donne determinate e molto forti e quindi con un’idea del femminile molto moderna, che qui, in questo suo quarto lungometraggio (che ha letteralmente incantato il Festival di Cannes, dove si è aggiudicato la Palma d’oro), sceglie tuttavia di abbandonare il terreno, a lei familiare, della commedia sentimentale e del dramma borghese, per virare quella che possiamo intendere come un inizio di poetica sui toni impervi e perigliosi del thriller giudiziario, di un giallo sommerso, intimo e profondamente perturbante.
Ma, appunto, bisogna partire dal cane Snoop per comprendere ed intuire in maniera decisiva che cosa voglia essere e che cosa sia infine Anatomia di una caduta. I due segmenti che abbiamo menzionato qualche riga sopra sono rispettivamente il primo e l’ultimo segmento della pellicola, un posizionamento che funge da ulteriore segno e prova del grande rigore formale che accompagna e contraddistingue il tentativo di Triet in ogni minima virgola della sua composizione.
Il primo dei due, quello posto ad apertura, vede una pallina da tennis rimbalzare sulle scale di una casa (che poi scopriremo essere quella della protagonista) per poi essere afferrata proprio dal già citato Snoop prima di toccare terra. È questa un’immagine rivelatrice ed eclatante (che fa leva sul barthesiano senso ottuso), un'eccellente sintesi visiva - degna di un grande maestro - di quello che, di lì a poco, si metterà in atto e, in particolare, della sua (invece) inafferrabile conclusione.
Al centro di tutto, vi è infatti una vicenda che, per ben più di una ragione, ricorda un reale caso di cronaca, già oggetto di un’ampia transustanziazione in prodotti (una docu-serie atipica, ed una serie di finzione con protagonisti Colin Firth e Toni Collette, entrambe intitolate The Staircase) e riflessioni audiovisive. Sembra infatti proprio (il ribaltamento del)la storia dello scrittore Michael Peterson (indagato per la morte sospetta della moglie Kathleen, ritrovata esanime ai piedi delle scale all’interno della villa di famiglia) ad aver ispirato la sceneggiatura di Arthur Harari e della stessa Triet, che racconta di Sandra Voyter, una romanziera di successo, accusata e sottoposta a processo per la morte parimenti sospetta del marito Samuel Maleski, professore ed aspirante scrittore, trovato morto ai piedi della loro casa dopo essere presumibilmente caduto da uno dei balconi o delle finestre.
La caduta della pallina messa in scena nei primissimi secondi del film rimanda dunque al fenomeno fisico, all’evento (provocato o subito) che travolgerà la protagonista e suo figlio Daniel, affetto da ipovisione, e che verrà analizzato, sezionato, anatomizzato (come da titolo) attraverso più punti di vista, da più voci, secondo criteri, logiche, approcci, ipotesi, schemi contrastanti, alla ricerca della verità, la cui messa in discussione è ciò che più stimola Triet e ne guida penna e macchina da presa. Ma questo incipit significativo funge anche da perfetta descrizione del rapporto dello spettatore con l'oggetto filmico e dell’esperienza che vivrà nei 150, avvincenti ed interessantissimi minuti che lo separano dai titoli di coda.
Infatti, malgrado il suo rigore di forma e metodo, una prediletta (semi-)invisibilità dell’istanza narrante, ed un occhio clinico, chirurgico, che spesso denuncia la propria freddezza meccanica e fotografica, Anatomia di una caduta sa e riesce comunque, e sottilmente, a manipolare chi guarda. Ci getta nel turbinio degli eventi e degli elementi diegetici senza appigli o certezze solide, in totale balia di una tensione dall’esecuzione tradizionale, da manuale (nell’uso e nel dialogo, specie attraverso il sonoro e l’auricolarizzazione, con un fuoricampo sempre vivo), che permea tutte le sequenze che esulano dallo spazio tribunalizio. Ma anche alla mercé di quello che riusciamo ad afferrare e decifrare dalle espressioni, dai gesti, dalle reazioni, dai momenti che ci è concesso scorgere dei due soli diretti testimoni del caso, interpretati da una Sandra Hüller maiuscola, sfuggente e misterica - la quale imposta tutta la propria recitazione sulle sfumature e sugli aspetti più microscopici del lavoro attoriale -, e dal giovane Milo Machado Graner che, a poco a poco, con la connivenza dell’istanza narrante, si ritaglia il suo posto in questa metamorfica geografia del dubbio.
Triet, insomma, ci sbalza di parere in parere, di tesi in tesi, spingendoci a formulare una nostra teoria, un’opinione, una realtà dei fatti plausibile, salvo poi rovesciarla, modificarne la convinzione o dimostrarne l'inefficacia con un dettaglio nuovo, non considerato precedentemente, visto sotto una luce del tutto nuova.
Possiamo allora affermare con certezza che Anatomia di una caduta è tra i migliori esemplari di cinema della parola, un tipo di cinema generalmente riconducibile ed individuabile nel court drama - di cui il film di Triet assume in parte la morfologia - e che la cineasta arricchisce con uno dei copioni più avvolgenti, fluidi, complessi, ispirati degli ultimi anni. Ciò nondimeno, come anticipato sopra, è all’immagine, alla sua sofisticatezza e alle profondità di senso che essa può abbracciare, ché spetta l’ultima, delle tante parole. Quella decisiva.
Infatti, se la pellicola diventa prima una risposta ad Anatomia di un omicidio (di Preminger) e poi un Scene dalla caduta di un matrimonio (anzi, in una scena in particolare, la regista fà buon uso delle sue doti melodrammatiche per inscenare un litigio intensissimo, tra rimpianti, recriminazioni, non detti ed esplosioni di pura rabbia), via via espandendosi, spostando elegantemente la focalizzazione del proprio racconto, e riempiendosi di discorsi sull’ontologia narrativa e narratologica dell’atto giudiziario e processuale (che si fonda di fatto sulla creazione di una vera e propria autofiction), e di interrogativi ed ambiguità in merito alla figura di Sandra Voyter - epigone ideale della madame Coly del più radicale Saint Omer di Alice Diop e della Lydia Tár del più esplicito e provocatorio film di Todd Field - e alla sua innocenza o colpevolezza; spetta all’inquadratura finale (e al cane Snoop) il compito di trovare e fornire una sintesi alla disarmante inconcludenza del verdetto non tanto giuridico, quanto piuttosto umano a cui giunge il copione di Harari e Triet.
È dunque nelle recondità dell’animo e della persona, oltre nella sconvolgente fallacia degli schemi interpretativi già dati, che si cela l’imprendibile verità del suo, del nostro, del giallo di Anatomia di una caduta. E di un gesto, un abbraccio, pronto a ribaltare ancora una volta le nostre certezze.
Quell’abbraccio è solo un abbraccio, un gesto fine a sé stesso, o rimanda, trasformandosi, a qualcos’altro, magari ad una forma di riconoscenza? E Sandra Voyter è chi dice di essere? È una vittima figurata di quella caduta o la sua unica e diretta responsabile? La colpevole perfetta o un mostro cinico e calcolatore? Una cosa è certa: quell’abbraccio è forse una delle immagini più lucide ed eloquenti per quel che ci dice e ci racconta o, più semplicemente, per come ci mette di fronte all’ipovisione della nostra percezione delle cose, specie di quelle che ci riguardano da vicino, che sono nostre. È da qui che si origina tutto, inclusa la post-verità che affligge il tempo presente, la quale - suggerisce Anatomia di una caduta - altro non è che un’amplificazione congenita e spontanea di una realtà già distorta, ambigua ed assolutamente soggettiva dapprincipio, nel profondo di noi stessi, nell’inesauribile e secolare mistero della natura umana.
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