TITOLO ORIGINALE: Tár
USCITA ITALIA: 9 febbraio 2023
REGIA: Todd Field
SCENEGGIATURA: Todd Field
GENERE: drammatico
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia
In concorso alla 79ª edizione della Mostra del Cinema di Venezia, Tár di un redivivo Todd Field racconta la storia di un importante e prestigiosa direttrice d’orchestra e compositrice classica in un film che disarma lo spettatore, per poi portarlo a forza dentro al proprio mondo e al proprio mistero. Cate Blanchett è respiro, corpo, anima e conduttrice di una sinfonia avvolgente, ipnotica, consapevolmente ambiziosa, ammaliante, enigmatica, che si pone, senza demagogie o cadute di stile, ma in modo elegante e geometrico, in netta controtendenza con la presente politica hollywoodiana d’immaginario e che, proprio per questo motivo, catalizzerà il discorso cinefilo della prossima stagione.
Inizia con una perfetta sintesi di ciò che è e ciò che vuole dire, il Tár di un redivivo Todd Field (regista di In the Bedroom e Little Children, meglio conosciuto però per essere stato il pianista, ex compagno di università, che tenta Tom Cruise in Eyes Wide Shut di Stanley Kubrick). Infatti, dopo un breve e criptico assaggio del suo motivo principale e, non ironicamente, gli interi titoli di coda – un indizio, un sintomo ed una presa di posizione estetica e normativa che rispecchiano uno dei tratti caratteristici della sua protagonista -, il film sceglie di aprire il proprio sguardo e di introdurci al personaggio (immaginario!) di Lydia Tár nel modo più anti-spettacolare e sbagliato possibile, in ottica di plausibile biopic. Ossia con un finto estratto, della durata di una buona decina di minuti - con tanto di montaggio pseudo-documentaristico ed inserti che mostrano il processo di preparazione e vestizione del Maestro - di un’intervista del New Yorker, volta a ricordarne il prestigio, la posizione, a mostrarne il carattere, l’atteggiamento, il modo di fare, a riassumere insieme il presente artistico, e dunque, in maniera molto astuta, a presentarla a noi spettatori.
Scopriamo quindi che Lydia Tár è tante cose: una direttrice d’orchestra e compositrice classica ritenuta al pari di personalità come Mel Brooks o Andrew Lloyd Webber e rinomata internazionalmente per il suo talento, i suoi innumerevoli riconoscimenti, la sua personalità netta e marcata, le sue straordinarie doti interpretative, ma anche per la perseveranza e caparbietà che le hanno poi permesso di ambire ad una posizione tipicamente rivestita da uomini, che, dopo aver condotto alcune fra le più grandi orchestre del mondo attraverso gli spartiti e le note delle più grandi composizioni di Mahler, punta a chiudere il “ciclo” (il Ciclo Bernstein-Mahler, ndr) dirigendo l’Orchestra Filarmonica di Berlino nell’esecuzione della tormentata, misteriosa ed affascinante Quinta Sinfonia dell’autore austriaco.
Ecco, se quanto avete appena letto vi ha destabilizzato, o meglio, intimorito nello scoprire effettivamente che cos’è Tár, non temete, perché è proprio quello l’intento di Todd Field, il quale disarma lo spettatore, per poi prenderlo in contropiede e trascinarlo a forza nel mondo e nel mistero che intende raccontare, analizzare, svelare – e questo, nonostante i numerosi tecnicismi, utili tuttavia a donare completezza ed immersività al tutto. Se Field mette a disposizione i mezzi, lo spettacolo, il coinvolgimento, il cuore, l’anima, il respiro della pellicola è tutto affidato ad una irrinunciabile Cate Blanchett in stato di grazia, mimetica, seduttiva, magnetica, già pronta ad innalzare la Coppa Volpi (quindici anni dopo averla vinta per Io non sono qui di Todd Haynes, ndr), che, pian piano, dopo esser stata richiesta, ammaliata, adulata, osservata, spogliata (con gli occhi) da tutti, concede all’occhio di Field - coadiuvato elegantemente dal direttore della fotografia Florian Hoffmeister - il proprio tacito assenso, la propria complicità, il proprio corpo, la propria mente e, con essi, la propria vita pubblica, professionale ed intima.
Riaccesesi le luci delle sala, avrete dunque l’impressione di aver scandagliato centimetro per centimetro l’essenza e l’esistenza di Lydia Tár, di averne toccato la pelle, di averla accompagnata in uno dei tanti incontri ai tavoli di caffè e ristoranti, nelle sale riunioni, in platea o nei loggioni, sul podio di fronte al pubblico (e a Dio).
Dal dietro le quinte del suo processo creativo e della preparazione di uno degli spettacoli più importanti della propria carriera, passando per il pensiero artistico e/o politico, fino ad arrivare al rapporto distaccato ma amorevole con la figlia, agli screzi e scambi con la compagna succube, alle sottintese e volutamente malcelate relazioni fedifraghe con le varie assistenti, ai tic, alle ossessioni (che fanno della pellicola quasi una versione psicanalitica di Memoria), ai riti, ai gesti, all’orgoglio e al narcisismo, agli sgarbi e alle finzioni, ai vizi e alle virtù: è attraverso tutti questi piccoli elementi, queste situazioni apparentemente insignificanti e futili, questi momenti di puro voyeurismo (complice anche uno sforzo di messa in scena notevole, tuttavia mai sinonimo di presunzione, superbia o autocompiacimento, e peraltro congruo ai fini immersivi e partecipativi del racconto) che Tár costruisce la propria personalità, il suo irrefutabile carisma, oltre che una verve provocatoria, dirompente ed antitetica, dai guizzi inaspettatamente esilaranti, che va in netta controtendenza con l’attuale politica d’immaginario hollywoodiana.
Potremmo definire pertanto l’opera di Todd Field come una sinfonia - lo è tanto nella ricchezza e la complessità della visione, quanto, al contempo, nella chiarezza con cui quest’ultima viene esposta e messa in scena -, ma anche come una confutazione intelligentissima, arguta, sottile e fortemente ironica (poiché trattasi di un personaggio di finzione) del filone del film biografico Academy-centrico. Un testo che si pone, senza demagogie o pretenziosità, in controtendenza con tutta la narrazione femminista, svirilizzata e “aware”, di cui proprio il cinema statunitense - forse per un forte senso di colpa e talora per mero opportunismo - sta cavalcando comprensibilmente e giustamente, tuttavia non sempre con risultati meritevoli.
Un’opera che prende posizione, a differenza di tante altre che forse non hanno né coraggio, né voglia, di farlo, e porta avanti e mette in scena questo suo discorso in modo elegante, attraverso la parabola oppressiva, ansiogena, deprimente e ridefinitrice di un personaggio femminile, che, quantomeno per chi scrive, dovrebbe essere preso ad esempio e traccia futura per come ripropone ed incarna femminilmente, in maniera misuratissima, geometrica e senza cadute di stile, comportamenti, abitudini, canoni (non tutti necessariamente positivi) dei personaggi maschili che vedevamo sullo schermo anche solo venti, trent’anni fa.
Tár è un film che sceglie il punto di vista (più periglioso ed impervio) del carnefice, piuttosto che quello della vittima, abbracciando così lo zeitgeist del proprio cinema di riferimento in modo opposto e problematizzando la diffusa demitizzazione, diffamazione (talora giusta, altre volte meno) e, seppur paradossalmente, umanizzazione dell’idolo artistico su più livelli e gravità: da semplici trivialità compositive a veri e propri fatti di cronaca.
Un’opera avvolgente, ipnotica, consapevolmente ambiziosa, ammaliante, enigmatica, che, oltre a sottolineare la chiamata alla realtà alla base di questa 79ª mostra veneziana, vuole far discutere e farà discutere a tal punto che, con molta verosimiglianza, si porrà quale catalizzatrice del dibattito cinefilo e/o pubblico della prossima stagione.
Quello che rimane da capire è se l’Academy, e Hollywood tutta, verranno meno alla loro presente e ferrea costituzione, nominando e (magari) premiando Cate Blanchett con la sua terza statuetta, oppure rimarranno colpevoli e fedeli ai propri spettri.
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