TITOLO ORIGINALE: Oppenheimer
USCITA ITALIA: 23 agosto 2023
USCITA USA: 21 luglio 2023
REGIA: Christopher Nolan
SCENEGGIATURA: Christopher Nolan
CON: Cillian Murphy, Robert Downey Jr., Emily Blunt, Matt Damon, Florence Pugh, Rami Malek, Benny Safdie, Dane DeHaan, Jack Quaid, Matthew Modine, Jason Clarke, James D'Arcy, Kenneth Branagh
GENERE: biografico, drammatico, storico, thriller
DURATA: 180 min
L'ascesa e la caduta del fisico teorico Robert J. Oppenheimer, capo del progetto Manhattan e padre della bomba atomica, rivive nell'ultima fatica di Christopher Nolan. Cillian Murphy ci regala l'unica interpretazione possibile dello scienziato, sublime, sofisticata, fragile ed insieme inquietante nella pellicola migliore del regista dei tempi di Memento. Travolgente, ipnotico, complesso, fluviale, deflagrante, assolutamente magistrale: un film sulla simultanea invenzione e condanna definitiva di un nuovo mondo. Di un nuovo tempo.
Pioggia. Come pioggia radioattiva. Come pioggia di missili. Come pioggia di bombe (preferibilmente nucleari). Anche nel banale, naturale, vitale precipitare di acqua al suolo c’è un prima e un dopo. Quello che c’è in mezzo, il principale responsabile di questo cambio percettivo, di questo punto di svolta nell’ermeneutica e sensibilità legate all’esperienza intrinseca delle cose della natura e della natura delle cose; risponde ad un nome ed un cognome, incisi a fuoco e fiamme nella Storia del Novecento. Robert (Julius) Oppenheimer.
Anche il più scontato dei fenomeni viene ammantato da una nube (tossica, radioattiva) di significati, come di immagini, che altera profondamente l’impressione e la coscienza che, di esso, portiamo dentro di noi. È innanzitutto questo ciò di cui parla l’ultima fatica di Christopher Nolan: della complessa, grave, inevitabile, totale (e totalmente agghiacciante) e più decisiva rivoluzione che abbia investito l’umanità dai tempi di Copernico e del suo eliocentrismo.
Di un viaggio ai confini dell’ignoto che, tuttavia, a differenza di quanto avvenne quasi cinque secoli prima, ha portato ad una scoperta che ha aperto lo sguardo e gli orizzonti dell’uomo e della conoscenza sulle più oscure ed inquietanti delle visioni. Un’esplorazione diretta non tanto verso ciò che c’è ed esiste là fuori, che ci permette di ridefinire il nostro posto e di muovere un passo ulteriore nell’intendimento di quello che è al di là dell’atmosfera terrestre, nelle galassie, nelle supernove e nei buchi neri già solcati nolaniamente in Interstellar. Bensì entropica, condotta attraverso e lungo la sterminata galassia che è la nostra natura, la nostra percezione appunto, che sono i buchi neri della nostra essenza, i quali ci attraggono a sé fino a portarci all’annientamento, all’autodistruzione.
Molte, forse troppe righe, quelle che avete appena letto, che un Nolan mai così lucido sintetizza con una giustapposizione quasi elementare (che pone ad apertura e chiusura), e le due/tre immagini più piccole di una pellicola e di un progetto imponenti nell’animo e nei presupposti, kolossal(i) produttivamente parlando. E, proprio per questo, tra le più potenti.
Definire Oppenheimer il fedele e generoso adattamento di un densissimo e fondamentale romanzo premio Pulitzer (Robert Oppenheimer, il padre della bomba atomica. Il trionfo e la tragedia di uno scienziato, di Kai Bird e Martin Sherwin) o, ancor più semplicemente, il racconto dell’ascesa e della caduta - a causa tanto di una paternità che inizia a diventare scomoda, quanto di un ineluttabile processo alle intenzioni e simpatie politiche - del padre della bomba atomica; sarebbe sì corretto, ma non restituirebbe affatto la complessità e la mole di sfumature, variabili, strati ed istanze che informano e sottostanno ad una simile sinossi. Sfaccettature che Oppenheimer rende appieno, mai accontentandosi di soluzioni e formule sicure e facili, a partire da quella del biopic hollywoodiano tradizionale, che, se dotato di tutti gli elementi al posto giusto e le circostanze del caso, è ancora oggi (considerato) uno dei veicoli più agili per ambire e, in un certo senso, assicurarsi un posto di rilievo durante la stagione dei premi - cosa che, ciononostante, il film di Nolan otterrà senz’altro.
Pur apparendo, ad una fugace occhiata, come la creatura meno facilmente riconoscibile del cineasta britannico, priva dei suoi prestigi ed incastri narrativi e delle sue seducenti (e spesso cervellotiche ed incomprensibili) tortuosità, Oppenheimer è in realtà un film profondamente ed indiscutibilmente nolaniano. Il film di un Nolan - per forza di cose e di soggetto - meno cinematograficamente ludico e più compunto ed autorevole, ma che riesce ciononostante a trasformare di nuovo, e meglio delle altre volte (Insomnia, The Prestige, la trilogia del Cavaliere Oscuro, Dunkirk), un soggetto non suo in qualcosa di originalissimo che, altrimenti, sarebbe potuto risultare coerentissimo e perfetto frutto della propria mente - o di quella del fratello Jonathan.
Robert J. Oppenheimer è infatti un personaggio in tutto e per tutto pari ai vari Leonard Shelby, Alfred Borden, Dom Cobb, Joseph Cooper e pure al Protagonista di Tenet. Un uomo che non soltanto combatte contro il tempo (un tempo, in questo caso, che sta per finire o forse è già finito nel momento stesso in cui egli è nato), ma che nello spingersi al di là rispetto a ciò che gli altri o la sua stessa coscienza gli intimano di non andare, nel loro essere tutti, indistintamente, Prometei dei propri mondi (e tempi), scoprono e squarciano un ennesimo velo di Maya, vengono a diretto contatto con una verità che rivoluziona la propria percezione, e di cui devono assumersi o si autoinfliggono la colpa, la responsabilità, le conseguenze.
Con l’unica eccezione che quella di Oppenheimer è una storia che non ha luogo in una realtà in cui il passato è il futuro e viceversa, in una in cui è possibile viaggiare nei sogni delle persone per condizionarle, o in un’altra in cui una macchina è in grado di dematerializzare la materia o, addirittura, cambiare la nostra percezione del tempo, ma ha a che fare con la nostra realtà. Deve rispondere alla nostra Storia e deve metterne in scena una delle pagine più fulgide e, al contempo, più buie.
Eppure l'ultima fatica di Nolan, in un certo senso, quei mondi fantascientifici, li racconta, li ritrova e li incorpora. In tal senso, se non proprio alla prova di una maturità che il cineasta ha già testimoniato in opere precedenti (quali l’ancora irreplicato Memento e il già citato The Prestige), ci troviamo di fronte ad una summa di tutto ciò che è stato il suo cinema prima e ad uno sguardo entusiasmante su ciò che, sintetizzate quelle esperienze, potrà essere il cinema dopo Oppenheimer. Tutto il cinema, che, nei futuri testi su colpa e responsabilità dostoevskijane e (auto)processi kafkiani, non potrà prescindergli.
Oppenheimer è allora un compendio nolaniano, innanzitutto, nel modo in cui, durante la prima ora, rende materia cinematografica e restituisce - grazie ad una densità di esposizione ed informazione e ad un montaggio travolgente, vorticoso, spericolato, discontinuo, frammentario, assolutamente magistrale - la condizione mentale della fisico e la frenesia fluviale, onnivora, trasversale (negli argomenti, negli interessi, nelle materie) che ne regola i ritmi cognitivi e riflessivi; per cui è davvero impossibile non pensare proprio allo stesso lavoro compositivo alla base di Memento.
Di The Prestige ritroviamo invece la rivalità che unisce e (as)simila la condizione esistenziale, sublimata dal mezzo e dai suoi strumenti (fotografici in Oppenheimer). Ma ovviamente c’è anche il prestigio dello spettacolo cinematografico (e di un’esplosione realizzata quasi integralmente senza artifici digitali, ripresa dal vero - ciò che conta è il segreto, il trucco dietro al prestigio, si diceva in quel film) che non vorremmo mai vedere, ma verso cui agognamo, assecondati da un segmento che certifica l’assoluta padronanza dei meccanismi della tensione. Una visione che ci riempie e ci svuota allo stesso tempo. Di fronte a cui ci vuole coraggio a chiudere gli occhi. Che ci riempie di un’emozione atavica ed inspiegabile a parole, e quindi di vita, ma ci rende partecipi del suo, altrettanto atavico, contrario. A cui vorremmo, ma non riusciamo a distogliere lo sguardo.
Un miracolo, a metà tra l’occultismo, la predestinazione e la scienza, mortifero, ma che provoca e fa reagire completamente il nostro bisogno primordiale ed insopprimibile di essere stupiti, la nostra attrazione rispetto all’ignoto, i nostri meccanismi più profondi e complessi come l’umorismo (“macabro”) e l’ironia di fronte alla fine e all’oggettività della nostra natura. Ma il razzo (e l’armageddon) non si può amare, né cavalcare questa volta, come invece avveniva nel seminale Il dottor Stranamore di Stanley Kubrick.
Oppenheimer è inoltre un testo che, col sogno (ad occhi aperti), l’allucinazione e l’azione di (auto)convincimento e persuasione delle immagini che proietta il nostro inconscio, ha molto a che vedere. Ma non in una chiave narrativa e, come sopra, di rebus come in Inception, quanto piuttosto in una geografia astratta e paranoide, audiovisivamente deflagrante, di idee e sensazioni che, specie dopo il primo e (fortunatamente) finora unico attacco nucleare, non riescono o possono formularsi a parole. Dell’onore e dell’onere di essere insieme parte fondamentale e prometeico distruttore della Storia, di essere “morte, il distruttore di mondi”, come il fisico dirà poi in seguito in una glaciale intervista.
E poi, dopo la galassia che compone un Io che, come fosse un atomo, Nolan, coadiuvato da un magnifico Hoyte van Hoytema, bombarda insistentemente, ostinatamente, da più parti con l’occhio misurato ed indagatore della propria macchina da presa (spesso, inaspettatamente, a mano), ottenendo sempre risultati differenti; la pellicola continua, con maggior cognizione e lucidità, l’idea contestata e largamente discussa di Tenet. Di un cinema che pone lo spettatore in un vortice frastornante, convulso, concitato, disorientante, soltanto per permettergli di percepire la vera natura e l’evanescente concretezza dell’esperienza cinematografica (sempre secondo Nolan). Come viene esplicitamente detto qui in riferimento alla musica, non è importante saper leggere (ergo comprendere) il cinema, ma sentirlo. Crederci. Vederlo.
E, permetteteci di dirlo, quello che abbiamo visto (e vedrete) in Oppenheimer, nonostante qualche piccolissima sbavatura (nella complicazione ridondante tutta nolaniana dell’adozione di due ocularizzazioni sullo stesso racconto, e nei due, innecessari e talora ridicoli, scambi tra il fisico e l’amante Jean Tatlock), è grandissimo cinema che, anche solo per la cura riposta nel montaggio sonoro, per lasciarsi inebriare dagli ipnotici tappeti musicali di un Ludwig Göransson finalmente meno zimmeriano e già in zona secondo Oscar, per sentirne pienamente la gravità e l’impatto, le ossessioni e gli incubi, le simmetrie e le proporzioni (tra la grandezza dell’immagine e quella dei dilemmi etico-morali), i pregi e i difetti; o ancora per rimanere anche noi senza “spazio di manovra”, va visto nelle migliori condizioni possibili.
Oppenheimer è grandissimo cinema anche e soprattutto perché, dietro un’inclinazione e una partitura immancabilmente thriller, è percorso da tutto il cinema (analogico) possibile, in quanto a generi (dramma storico, spy movie, film giuridico, western, horror, commedia nera) ed ispirazioni (non soltanto Il dottor Stranamore, ma anche JFK di Oliver Stone, A Beautiful Mind di Ron Howard, The Master di Paul Thomas Anderson, The Tree of Life di Terrence Malick, per non parlare di tutti i testi che affrontano lo stesso pezzo di storia).
Tuttavia, la pellicola si ferma ai riecheggi, non arriva mai a risultare derivativa o un gioco di imitazione (per citare un altro film che ricorda vagamente), anzi mantiene una peculiarità nell’esecuzione e sa restituire un senso di nuovo, di mai visto allo spettatore. Il merito, oltre che del montaggio sublime, è da riconoscere all’apporto decisivo di Cillian Murphy, qui promosso (dopo tanti anni e tante collaborazioni col regista) a protagonista assoluto. Egli fa della vita, del pensiero, del cuore e della coscienza, delle scelte, dei dubbi, dei rimorsi laceranti di Oppenheimer non solo l’interpretazione di una vita, già impressa indelebilmente nella storia, ma anche l’unica interpretazione possibile del fisico. La sua è una prova che dimostra, una volta per tutte, quale attore sublime e sofisticato egli sia. Uno capace di lavorare con le sfumature e di distorcere, in e con un battito di ciglia, la percezione del pubblico, facendo coesistere nel suo fisico teorico un che di tenero, fragile, con cui è facile empatizzare, e qualcosa invece di profondamente inquietante, com’è il suo sguardo vitreo ed alienato sul mondo.
Affianco a lui, un cast di grandi personalità come Robert Downey Jr. (la cui interpretazione è purtroppo molto meno raffinata di quella di Murphy), Matt Damon, Emily Blunt, Florence Pugh, Kenneth Branagh, e di interpreti felicemente ritrovati come Josh Hartnett, Casey Affleck, Tom Conti, Dane DeHaan ed Alden Ehrenreich.
“I pensieri, in genere, sono peggiori di noi stessi” scriveva il poeta e drammaturgo T.S. Eliot. Ma anche che “l'ultima tentazione è il peggiore dei tradimenti: fare la cosa giusta per il motivo sbagliato”. Parole che il fisico avrà senz’altro letto (il cineasta si premura infatti, ad inizio film, di farci vedere quest’ultimo con, in mano, una copia de La terra desolata), da cui è stato condizionato. Perché, sosteneva sempre Eliot, “parole e idee possono cambiare il mondo”, e, nell’opera di fornire un ordine al caos incondizionato della storia, egli affermava che la buona opera d’arte compie questa metamorfosi nell’uomo: dà ad esso la capacità di compenetrare a fondo il presente della sua esistenza.
Lo stesso fa Nolan con Oppenheimer: il futuro che questi, divinisticamente, vede nella pioggia che cade, che scruta ed interroga con uno sguardo perso ed insieme atterrito, a cui tenta invano di chiudere gli occhi è il nostro. Il nostro tempo che lui, con la sua scoperta, ha inventato. E condannato.
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