TITOLO ORIGINALE: Secret Invasion
USCITA ITALIA: 21 giugno 2023
PIATTAFORMA/CANALE: Disney+
REGIA: Ali Selim
SCENEGGIATURA: Kyle Bradstreet, Brian Tucker
CON: Samuel L. Jackson, Ben Mendelsohn, Kingsley Ben-Adir, Emilia Clarke, Olivia Colman, Don Cheadle, Charlayne Woodard
GENERE: azione, spionaggio, fantascienza, supereroi
N. EPISODI: 6
DURATA MEDIA: 35-55 min
Liberamente tratta da una delle run fumettistiche più amate e rinomate, Secret Invasion di Ali Selim racconta di un patto infranto e di speranze deluse. Ma è anche una serie piena di problemi e di indigenze che, attraverso l'invasione segreta e la discriminazione degli Skrull, racconta un'altra invasione (quella dell'IA nell'industria dell'audiovisivo) ed un'altra discriminazione, quella degli afroamericani al potere. Ma soprattutto Secret Invasion sancisce e chiarisce definitivamente l'ormai inevitabile intercambiabilità della mitologia, dell’iconismo, finanche degli eroi marvelliani.
Ci sono solo quattro(!) cose davvero riuscite e cinematograficamente interessanti lungo il corso dei sei capitoli che compongono Secret Invasion, la nuova miniserie del Marvel Cinematic Universe, la prima della sua neonata Fase 5, (molto) liberamente ispirata all’amata e rinomata run fumettistica scritta da Brian Michael Bendis e disegnata da Leinil Yu, creata da Kyle Bradstreet e diretta da Ali Selim.
La prima è, senza dubbio, la sigla, interamente creata con l'utilizzo di un’intelligenza artificiale, specie da un punto di vista di studio e di analisi dell’evoluzione e delle possibilità future del medium e dell'audiovisivo, per il responso contrastante che ha ottenuto da parte degli spettatori, per l’(appunto) interessante dibattito che ha generato, ma anche per la coerenza concettuale e narrativa che questa conserva e mantiene rispetto a quello che è il tema fondamentale dello show. E quindi il mimetismo, il trasformismo in piena vista, l’illusione dell’umanità degli Skrull diventano gli stessi di una tecnologia, l’IA, ancora in fase embrionale, la quale, ciononostante, è già in grado di simulare (o quasi) la sensibilità e l’intelligenza artistica umana. Molti infatti, prima di sapere la verità sulla sua realizzazione, avevano elogiato la sigla come uno degli aspetti migliori dell’episodio pilota.
La seconda cosa è invece una sequenza di recitazione molto intensa tra il Nick Fury decadente ed avvizzito di un immarcescibile e sempre suadente Samuel L. Jackson e il colonnello Rhodes aka War Machine di un inedito Don Cheadle. Un momento in cui i due ribadiscono un parallelismo fra la discriminazione razziale prima (e spesso tuttora) ai danni degli afroamericani (e di tutte le minoranze etniche) e ora degli Skrull, ragionando tra l'altro, sulla scia di quanto fatto più incisivamente da Ryan Coogler & co. nel primo Black Panther, sul lungo cammino dell’emancipazione e rivincita black. I due arrivano infatti a chiedersi cosa sia cambiato e quali siano le loro responsabilità ora che, da emarginati ed esclusi che erano, sono diventati, in molti casi, classe dirigente. Ora che sono diventati i secondi o addirittura quel potere contro cui si scagliavano prima.
Un parallelismo, questo, che, purtroppo, nell'integrità della serie rimane molto sottile, marginale e sotto-testuale, non venendo mai elevato a discorso vero e proprio (doveva essere quello il punto di tutto!), se non proprio alla fine.
Il terzo elemento che ci porta comunque a scrivere che sì, Secret Invasion non è né un prodotto del tutto dimenticabile, né tantomeno, per quanto senza dubbio difettoso ed affetto dai soliti problemi di molti colleghi, il punto più basso dell’ultradecennale corsa del Marvel Cinematic Universe - soprattutto per quel che riguarda la sua più recente deformazione televisiva (per quello c’è sempre Moon Knight!) -, è l’interpretazione di una Olivia Colman assoluta mattatrice, che, previo casting oculato, riesce a portare avanti, anche in un testo così inquadrato ed irregimentato, la propria peculiare costruzione divistica, sempre giocata su una recitazione ambigua, affilata, instabile, alienante, inquietante, disturbata, scissa fra quell'ironia indistinguibilmente british ed una certa cifra, dagli echi semi-horrorifici, di disagio mentale e “delicata schizofrenia”.
E poi, per ultimo, c’è senz’altro il segmento su cui si chiude l’ultimo episodio e, con esso, tutta la serie: un riconciliamento o, meglio, una riscoperta e ridefinizione di un rapporto sentimentale, amoroso e matrimoniale - che è, con grande certezza, l’inconfessato cuore e il reale interesse del copione di Kyle Bradstreet e Brian Tucker -, che, scortato dalle dedite interpretazioni sempre di Jackson e di una splendida Charlayne Woodard, parte come un qualcosa di spiazzante e potenzialmente destabilizzante, e finisce sulla più rosea ed emozionante delle sfumature.
Spiazzante e destabilizzante rimane invece, nel bene e nel male, Secret Invasion in quanto operazione produttiva e sforzo narrativo, in sé e per sé o considerato nel grande ed ora indefinito ed indefinibile mosaico marvelliano.
Una volta compresa la delusione delle aspettative corroborate ed incrementate dal titolo e dalle radici fumettistiche a cui fa riferimento (sempre ed ovviamente a maniera Marvel, come già avvenuto nei ben superiori Civil War ed Infinity War): perché la portata internazionale dell’invasione segreta degli Skrull, l’assenza pretestuosa (visto il budget ristretto) dei grandi nomi e delle grandi star, e la poca ambizione del mix tra la fantascienza anni ‘50 à la Don Siegel e lo spy movie già trattato da uno dei migliori Marvel movies (Captain America: The Winter Soldier) la rendono più affine ad una storia solista, pur nella coralità, blandamente riepilogativa e superficialmente decostruttiva del personaggio di Nick Fury; quella di Ali Selim è allora una serie che ratifica ed evidenzia l’ora irreparabile (specie dopo l’introduzione del multiverso) intercambiabilità della mitologia, dell’iconismo, finanche degli eroi marvelliani.
Si pensi all’impacciato, deforme e appunto destabilizzante scontro finale tra la G'iah di una sempre diafana Emilia Clarke e il Gravik di un dedito ma forzato Kingsley Ben-Adir, in cui questi, grazie ad un fantomatico elisir, si trasformano ed ottengono le abilità di mille-e-più supereroi: una rappresentazione tanto precisa quanto inconsapevole dell’attuale stato di salute dei Marvel Studios, del purtroppo indimenticabile ingegno originario del suo demiurgo Kevin Feige, e dell’incertezza rispetto al futuro del suo macro-itinerario.
Un universo, che allo stato odierno trattiene in sé, in un unico corpo di opere, decine di storie, personaggi, poteri, linee narrative, che tuttavia lascia fuoriuscire ed esprimere ormai senza soluzione di continuità, in maniera caotica, senza un’evidente strategia, senza il senno e il criterio di un tempo.
Questa macchina precisa e perfetta, un tempo definita da un’umanità latente e rintracciabile, sembra insomma aver abbracciato completamente un funzionamento del tutto meccanico, inerziale, indolente, trascurato. Senza alcun apparente spirito e sintomo di resilienza. Verso l’autodistruzione, è ovvio. E mimetizzandosi sempre più e (ahinoi) sempre meglio nello stereotipo ingiusto ed inglorioso che tante volte, negli anni passati, le è stato affibbiato, spesso a sproposito.
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