TITOLO ORIGINALE: Denti da squalo
USCITA ITALIA: 8 giugno 2023
REGIA: Davide Gentile
SCENEGGIATURA: Valerio Cilio, Gianluca Leoncini
CON: Tiziano Menichelli, Stefano Rossi Giordani, Virginia Raffaele, Edoardo Pesce, Claudio Santamaria
GENERE: drammatico, commedia, avventura
DURATA: 104 min
Prodotto da Gabriele Mainetti (regista di Lo chiamavano Jeeg Robot e Freaks Out), Denti da squalo, l'esordio al lungometraggio di Davide Gentile, racconta la storia di un bambino che tenta di dare un senso all'ordinario e ad una realtà triste e luttuosa con lo straordinario, salvo poi venire trascinato proprio da quest'ultimo nel vortice di cattività che aveva tentato il padre anni prima. Ma è anche (e più brillantemente) la storia di una grande amicizia e di due personaggi realissimi, raccontata in un modo e con una sensibilità come non si vedevano da tanto nel cinema italiano.
Inizia come molti (grandi) film, l’esordio alla regia cinematografica di Davide Gentile, dal titolo Denti da squalo. È estate e c’è un bambino che, in quel tipico vagare senza meta con cui si tenta solitamente di riempire il torpore e l’ozio delle lunghe giornate, si imbatte in qualcosa di straordinario, qualcosa che potrebbe cambiargli la vita, oppure darle di nuovo un senso, un ordine, una prospettiva, una speranza per il futuro. Sì, perché quel bambino, che di nome fa Walter, ha appena perso il padre Antonio, morto da eroe (o da “coglione”) sul posto di lavoro per salvare un collega. E perché quel vagare fortuito, in cerca di quelle avventure che il quotidiano può riservare, serve al piccolo per vivere a modo suo il lutto per la perdita del genitore e distogliere l’attenzione, anche solo per un attimo, dal dolore silenzioso della madre Rita e dal senso di vuoto che percepisce continuamente tra le quattro mura del suo appartamento, a pochi passi dal litorale romano.
Ebbene, in una giornata come tante, Walter si imbatte in quello che, ad una prima occhiata, potrebbe sembrare un mero vezzo da gangster; una stravaganza che, come fa ben notare Gabriele Niola nella sua recensione, non stonerebbe affatto tra le pagine di un libro o di una delle precise cronache mafiose di Roberto Saviano: uno squalo che si aggira, liberamente, pericolosamente, o forse (solo) dolorosamente, all’interno di una piscina in una villa dalla storia “leggendaria”, al tempo soffiata da due aspiranti delinquenti ad un mammasantissima della mala capitolina.
Una proprietà, quest’ultima, che potrebbe custodire segreti molto vicini a Walter e alla sua famiglia, e il cui mistero più grande: proprio quella misteriosa presenza, confinata e costretta a sopravvivere nuotare in pochi metri quadrati d’acqua; potrebbe condurlo sulla stessa strada intrapresa dal padre molto tempo prima.
Quello di cui parla e vorrebbe parlare Denti da squalo è abbastanza evidente, così come lo sono le atmosfere, i riferimenti, le ibridazioni e gli itinerari narrativi ed estetici in cui sguazza, ma anche la verità, la metafora che cela dietro la peculiarità della sua premessa, dietro questo incontro ravvicinato con il fantastico e lo straordinario. Del resto, basterebbero i materiali promozionali per capirlo, o, se si è più "addentro", sapere che si tratta del primo, vero film prodotto dalla fucina di Gabriele Mainetti, qui impegnato appunto in veste di produttore, direttore artistico e co-autore della colonna sonora.
Regista noto nel recente panorama nostrano per essere stato uno dei principali esponenti (insieme a Matteo Rovere e alla sua Groenlandia, o anche ai fratelli D’Innocenzo) di una nuova corrente italiana, improntata sul recupero del genere e di tutte le possibilità di trasfigurazione ed astrazione a lui ascritti, nonché di modelli narrativi e spettacolari d’oltreoceano prima ritenuti impossibili da trasportare e sviluppare con credibilità, esattezza e rigore in un contesto più eufemisticamente serioso come il nostro; è lui, indiscutibilmente, la personalità dominante rintracciabile in Denti da squalo, il quale ricorda tanto cinema, italiano ed estero, amato, celebrato, imprescindibile. D'altro canto, il largo citazionismo, le più o meno sottili interferenze ed intertestualità, il dialogo con ciò che è pop e ciò che è immaginario collettivo, e il continuo rifarsi ad una tradizione cinematografica, ma pure letteraria, abbastanza circoscritta nel tempo e nello spazio (ergo prettamente Eighties); sono tra le specificità riconoscibili sia del fortunato Lo chiamavano Jeeg Robot, sia del più sciagurato Freaks Out.
Nello specifico, ritroviamo qui l’inevitabile (specie conoscendo Mainetti) e leggendario cinema paterno e avventuroso di Steven Spielberg: uno di incontro col meraviglioso, l’alieno, il mostro, il diverso, l'altro, di infanzia e responsabilità, di collaborazione ed intesa fuori e dentro lo schermo, di ingenuità e purezza, rette tuttavia con disarmante consapevolezza. Ma non mancano certo gli elegiaci e pericolosi racconti di formazione, sotto il sole rovente, di Stephen King e prole (tra cui il nostro Niccolò Ammaniti), il cinema fantastico di Comencini, uniti a quel realismo sospeso, alieno, magicamente imprevedibile, dei film di Matteo Garrone (da Gomorra a Dogman).
Ciò nondimeno, come sempre accade, è comunque il modo in cui chi produce e sta dietro la macchina da presa riescono a riutilizzare quelle immagini, quei sogni, quelle chimere, quei toni, quei colori, e ad innestarli in una dimensione di racconto precisa, personale e dettagliata, a fare davvero la differenza e ad evitare di essere adombrati del tutto dalla grandezza e dal mito di quei modelli originari.
Una personalizzazione che Gentile riesce, bene o male, a soddisfare e raggiungere, puntando ragionevolmente su quello che è, d’altronde, l’unico elemento davvero inattaccabile del suo progetto, oltre che di quelli del suo “scopritore”. Parliamo del casting e della giustezza dei volti che il regista, sostenuto da Davide Zurolo, è riuscito ad affidare (è il caso di una Virginia Raffaele espressivamente matura, versatile e misuratissima, di un Claudio Santamaria che, pur nel limite dei suoi interventi, riesce comunque a lasciare il segno, e di un Edoardo Pesce che si riconferma presenza solista, forestiera e mimetica della nostra scuderia attoriale), se non proprio a scovare e creare da zero.
Invero, il più grande miracolo e della più necessaria delle fortune di Denti da squalo sta proprio nello sguardo sincero, puro, inesplorato dell’assoluto, piccolo esordiente Tiziano Menichelli, capace di restituire e donare al personaggio di Walter sia il senso di meraviglia, l’innocenza e la temerarietà tipiche dell’infanzia, sia la gravità, il dolore e la durezza dovuti alla grave perdita del padre. L’altra grande ed improvvisa magia risiede invece nella chimica che quest’ultimo dimostra e riesce ad ottenere col più grande, ma ugualmente giovanissimo, Stefano Rossi Giordani, che interpreta (Gian)Carlo, un ragazzo già iniziato ad un contesto criminoso, loquace, un po’ spavaldo e non sempre affidabile, ma dal cuore gentile.
Superato qualche aggiustamento iniziale, il loro rapporto (in cui è possibile rintracciare qualcosa di Non essere cattivo o de La terra dell’abbastanza) è il cuore della pellicola. È il calore e il sentimento autentico su cui Gentile - che, a differenza di gran parte dell’ultimo cinema italiano, si dimostra abilissimo e realmente interessato a descrivere, raccontare ed identificarsi con sensibilità ed onestà con lo sguardo infantile e giovanile - e i premiati [col Solinas per il miglior soggetto e il miglior script, ndr] sceneggiatori Valerio Cilio e Gianluca Leoncini decidono le sorti del coinvolgimento e dell’affabulazione dello spettatore.
Non è allora per i paradigmi del genere, e quindi i risvolti gangster del racconto, gravemente penalizzati, dal canto loro, da una scrittura troppo artificiosa, proverbiale ed ingessata di personaggi e dialoghi, e da un villain inefficace, il cui unico effetto è farci rimpiangere la meravigliosa unicità dello Zingaro; che dovreste concedere un’opportunità a Denti da squalo. Né tantomeno per l’uso, seppur mirabile, che si fa dello squalo (che McGuffin era nell’iconico film di Spielberg e McGuffin resta qui) quale rappresentazione e trasfigurazione - di per sé innegabile, palese, macroscopica (forse pure troppo) - della cattività, della filosofia della sopravvivenza su cui si regge ogni struttura delinquente, ma anche della prigionia dell’illusione (anche criminale), del sogno, della fantasia, di un obiettivo o di uno status da raggiungere.
Ma piuttosto perché, in tutti quei momenti in cui preferisce concentrarsi sui personaggi ed abbandonare la militanza (meno convinta) nel cinema di genere di derivazione mainettiana, Denti da squalo riesce finalmente a farci godere ed appassionare ad una storia di amicizia tra due ragazzini. Ad un coming-of-age che parla naturalmente, si mostra senza infingimenti, fardelli o sovrastrutture insormontabili, si mantiene ben saldo alla verità dei propri attori, e viene messo in scena - specie all’inizio e alla fine - attraverso un minimalismo espressivo, una capacità di sintesi, composizione e scrittura visiva, e ancora una coscienza del lavoro iconografico e del peso di ogni singolo sguardo, gesto, movimento, punto macchina, ché fanno ben sperare per il futuro e la carriera di Davide Gentile. Libero verso nuovi mari, nuove spiagge, nuovi orizzonti. Altri orizzonti.
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