TITOLO ORIGINALE: Peter von Kant
USCITA ITALIA: 18 maggio 2023
USCITA FRA: 6 luglio 2022
REGIA: François Ozon
SCENEGGIATURA: François Ozon
GENERE: drammatico, commedia
DURATA: 85 min
Presentato alla 72ª edizione della Berlinale
L'instancabile, imprendibile, prolifico François Ozon torna dietro la macchina da presa per Peter von Kant. Quello che, ad uno sguardo più disinvolto, potrebbe apparire come un Covid movie in piena regola, è, in realtà, l'omaggio personale di un ottimo cineasta del presente ad una delle voci autoriali che più lo hanno ispirato - che è anche una di quelle che, nel corso della sua smisurata filmografia, ha omaggiato con maggior frequenza. Riadattando Le lacrime di Petra von Kant, tuttavia, la pellicola di Ozon manca di un vero e proprio chiaroscuro, di un’ambiguità, di un’inquietudine di fondo, capaci di conferire maggiore intensità e verve sia alla componente drammatica, sia, soprattutto, alla più preponderante anima (tragi)comica ed esilarante. Tutto troppo esplicito, chiaro, abbagliante, tenace, troppo appassionato per appassionare come vorrebbe, malgrado le ottime interpretazioni di un fulgido cast.
Uno sguardo apre e chiude Peter von Kant di François Ozon. Seppur fisicamente siano due le persone coinvolte, spiritualmente, umanamente ed artisticamente si tratta dello stesso sguardo. Sono infatti la sola anima, il solo dolore e la sola arte di uno dei più grandi esponenti del Nuovo cinema tedesco degli anni ‘70-’80, Rainer Werner Fassbinder, a popolare il rifacimento/omaggio che l’imprendibile, instancabile, poliedrico e prolifico cineasta francese compie di uno dei suoi film migliori, più celebri e celebrati, Le lacrime amare di Petra von Kant (1972), a sua volta tratto da un testo teatrale dello stesso Fassbinder.
Del resto, Ozon, tra tutti e i numerosi registi che, da Fassbinder e dalla sua sconfinata ed indefinibile produzione, hanno mutuato e preso qualcosa, è forse quello che lo ha ricordato e celebrato con maggior frequenza. Si pensi all’adattamento che, nel 1999, trasse dalla pièce scritta dal regista tedesco a soli 19 anni, Gocce d’acqua su pietre roventi. Al melodramma Angel, che tradisce anche la passione per un prodromo dello stesso Fassbinder: un certo Douglas Sirk. O ancora, al video-essay ante litteram Quand la peur dévore l'âme. Per arrivare infine a questo Peter von Kant, dove ci si confronta ancor più direttamente con il padre fassbinderiano e ci si pone, più che in netto contrasto (come si potrebbe pensare), in rapporto e in rilettura estetica e di genere, appunto, con l’originale.
Ciò nondimeno, pur riprendendo (l’amarezza de) il film del ‘72 pure nel microscopico sottotitolo dell’edizione italiana (“Gin tonic e lacrime amare”), il sentimento e l'aspetto che predominano maggiormente nella rivisitazione ozoniana sono l’ilarità, il riso, il senso del ridicolo, dati dall’esasperazione e dall’accentuazione di certi elementi.
Tra cui, in primis, l’importante fisicità di un Denis Ménochet molto meno scostante, algido, altezzoso, detestabile di quanto fosse, al contrario, la Petra von Kant di un’imprevedibile e schizofrenica Margit Carstensen. Ma anche il modo in cui l’ossessione dilaniante che Peter (che di lavoro fa il regista, e non lo stilista, come nell’originale) matura nei confronti del giovane Amir (che non è più ovviamente un modello, ma un ragazzo che viene costretto e lanciato come attore dallo stesso von Kant), verso cui arriva a provare un qualcosa a metà tra una sindrome di Stendhal - che nell’ultimo atto della pellicola prenderà la forma di ritratti, gigantografie e muri pieni di sue foto - ed un impossibile desiderio di possesso di indubbia matrice capitalistica (parimenti all’originale, si dirà, ad un certo punto,“volevo possederlo”).
Il tentativo di François Ozon (che è anche un Covid movie) punta dunque, con decisione, verso il melò. Via, quest’ultima, solo rimarcata dai toni senz’altro più vellutati, morbidi, confortevoli, suggestivi, per non dire nostalgici ed elegiaci, della fotografia di Manuel Dacosse - il quale, dal canto suo, mantiene comunque l’impostazione teatrale, la rigorosa composizione e gli essenziali movimenti di macchina dell’originale, giocando e sfruttando magari leggermente di più con gli spazi del loft nella periferia di una Colonia anni '70.
Compiacente com’è, d’altronde, il già citato Ménochet, di cui l’istanza narrante asseconda e valorizza - e purtroppo non riesce ad irregimentare e contenere - l’aspetto e la natura di gigante buono, di orso solo apparentemente ruvido, pauroso ed intimidatorio, di uomo di cui è più facile ed immediato scorgere le fragilità e le morbidezze, laddove, nel caso della Carstensen, la pellicola di Fassbinder conservava benissimo le proprie ambiguità, i propri non detti, i suoi segreti.
Ecco, forse questo riadattamento manca di un vero e proprio chiaroscuro, di un’ambiguità, di un’inquietudine di fondo, capaci di conferire maggiore intensità e verve sia alla componente drammatica, sia, soprattutto, alla più preponderante anima (tragi)comica ed esilarante.
E, malgrado tutti i vari cambi e piccoli, innocui (per il materiale originale) tradimenti de Le lacrime di Petra von Kant, quali il gender swap dei tre personaggi principali (scelta che avrebbe potuto facilmente risultare anacronistica, ma che, in realtà, serve ad Ozon per infondere al film una sensibilità ancor più femminea e femminile dell’originale), la misoginia sottesa di Peter, l’integrazione del cinema e di un lieve ed impercettibile carattere metatestuale, un’intenzione quasi biografica, di aggiornamento, di un altro capolavoro fassbinderiano quale Germania in autunno, ma anche la relazione urlata a gran voce tra l’impudico e lascivo Amir e la musa degli inizi Sidonie, è tutto troppo esplicito, chiaro, abbagliante, tenace, troppo appassionato per appassionare come vorrebbe.
L’anima fantasmatica, il velo di Fassbinder permane ed aleggia allora nei dialoghi ripresi e riproposti parola per parola, nelle canzoni dell’originale riutilizzate ad hoc - e con fini ben diversi: più per ritrarre un uomo, che non per materializzare un senso di solitudine e depressione -, nello sguardo di Hanna Schygulla (la Amir dell’originale, l’amata/odiata Karin).
Tuttavia, quello che rimarrà sarà più che altro la bellezza, la cinegenia e la sensualità innata dell’attore di serialità Khalil Gharbia (che, in taluni momenti, pare davvero il soggetto, il modello di un quadro rinascimentale), la stupenda bellezza di Isabelle Adjani in una quasi reincarnazione (anch’essa più calorosa) della già ricordata Carstensen, le lacrime poco amare, ma tanto dolci, indulgenti, tenere, di un Ménochet che, dopo [anche se sarebbe prima, ndr] As Bestas, riconferma il suo momento felice (faccette permettendo).
Jeanne Moreau cantava, e canta anche qui, “ogni uomo uccide ciò che ama”. Ebbene, nel caso di Peter von Kant è vero, in parte, anche il contrario: a volte, è possibile che ciò che si ama finisca per uccidere.
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