TITOLO ORIGINALE: As Bestas
USCITA ITALIA: 13 aprile 2023
USCITA FRA: 20 luglio 2022
REGIA: Rodrigo Sorogoyen
SCENEGGIATURA: Isabel Peña, Rodrigo Sorogoyen
GENERE: thriller, drammatico
DURATA: 137 min
PREMI: 9 Goya, tra cui miglior film e miglior regista
Presentato in anteprima al 75º Festival di Cannes
Reduce dalla vittoria di nove premi Goya, il giovane e talentuoso regista madrileno Rodrigo Sorogoyen torna sul grande schermo con il passo successivo del suo cinema di e della tensione, che in As Bestas trova una dimensione di parabola essenziale e duplice, di mito ancestrale e fondatore, ed un racconto di innata potenza e fascino silenzioso. Denis Ménochet, Marina Foïs e Luis Zahera sono i meravigliosi ed azzeccatissimi volti protagonisti di un film davvero difficile da spiegare a parole, modernissimo, che elimina qualsiasi, anacronistica distinzione tra cinema d’autore e di genere, che sa rappresentare, con egual intensità, come sinonimi, se non proprio come palindromi, la crudeltà di violenza e morte e la bellezza e la purezza dell’amore.
Era davvero facile sbagliare un film come As Bestas; stonare uno spartito tutt’altro che inedito, aperto e disponibile verso esiti e velleità sensazionalistiche e puramente epidermiche.
Ciò detto, il risultato non può che essere più sofisticato, complesso, interessante, elegante e compiuto delle apparenze, se a sviluppare e portare su schermo un soggetto simile c’è il giovane (classe 1981) madrileno Rodrigo Sorogoyen - forse la voce più rappresentativa, promettente e stimolante del cinema spagnolo di oggi e, senza dubbio, di domani - e, va da sé, il rodatissimo ed efficiente team di collaboratori con cui ha firmato, in pratica, tutti e sei i suoi lungometraggi. A partire dalla sodale co-sceneggiatrice Isabel Peña, passando per il direttore della fotografia Álex de Pablo e il montatore Alberto del Campo, fino ad arrivare al compositore Olivier Arson.
Al di là di questo, che As Bestas sia una pellicola degna di nota, una per cui quegli aggettivi sopra elencati non sono sprecati; lo si può intuire già solo dal cartello e dalla sequenza d’apertura.
Con la didascalia, lo spettatore viene infatti introdotto ad un’usanza tipica della Galizia - comunità autonoma nel nord-ovest della Spagna -, la cosiddetta rapa das Bestas, nella quale un gruppo di lottatori (o aloitadores, come si chiamano in gergo) si danno da fare, e spesso si feriscono seriamente, nel tentativo di domare a mani nude un folto gruppo di cavalli selvaggi.
Dopodiché, nella primissima sequenza, Sorogoyen procede a mostrarci l’effettiva ed evidente brutalità, tutta la furia e l’impeto con cui, uno di questi atti di prepotenza e violenza, viene portato a termine e si esprime. Queste immagini, però, non sono fini a sé stesse; sono tutt’altro che mero didascalismo, bensì sottintendono un senso ed un discorso più ampi e profondi. Vengono insomma caricate, con una scelta registica ed estetica ben precisa, ossia il ralenti, di un’importanza facilmente intuibile nell’economia del testo.
Esse diventano, in primis, la rappresentazione e la sintesi eccellente ed istantanea del contesto socio-culturale in cui il film (e noi spettatori, con lui) andrà ad immergersi per le successive due ore e venti. Di un humus rurale, agreste, povero, squallido, eppure pregno di ricchezze a disposizione di tutti, ma invisibili agli occhi dei più, arroccato in termini tanto geografici, quanto di pensiero, corroso dal tempo e quasi estraneo al suo scorrere naturale e a tutto ciò che ne consegue, figliastro di una natura aspra, matrigna e poco clemente. Di un mondo in cui la sola via possibile è quella, atavica, inevitabile, implacabile, dell’aggressività, della prepotenza e del sopruso.
Secondariamente, l’importanza di quelle immagini sta anche nel loro essere minima particella sintomatica e significativa di ciò per cui, con tutta probabilità, As Bestas e, con esso, il cinema di Rodrigo Sorogoyen rimarranno impressi nella mente e negli occhi di molti.
Un cinema, quello del madrileno, che rifugge il virtuosismo (specie quello degli ormai sdoganati long take e piani-sequenza) fine a sé stesso, esibito, ostentato, ma infine privo di un suo peso specifico, di un suo senso preciso di composizione, scrittura visiva, espressione; di una vera ragion d’essere, al di là della dimostrazione di un’opportunità produttiva o di un bieco tentativo di risultare memorabili.
Un cinema dunque sempre e comunque funzionale, equilibrato, che dietro il suo essere e apparire viscerale, febbrile ed ipersensibile, cela meccanismi, pensieri e finalità molto più razionali, politi ed elaborati di quanto dia a vedere, quantomeno, ad un primissimo sguardo. Che vede nel movimento filmico e profilmico i catalizzatori di un processo di reificazione; gli elementi contingenti dell’impresa tutta cinematografica di rendere visibile l’invisibile, di dare corporeità e presenza quasi fisica all’emozione, all'impulso, al pensiero; i vassalli di un o, meglio, il Regno, che è, sì, quello del magnifico film del 2018 con protagonista Antonio de la Torre, ma è anche e soprattutto il Regno della tensione.
Ebbene, quello di Sorogoyen è un cinema di thrilling (in senso quanto più ampio), di tensioni e della tensione, che, in As Bestas, trova quasi una parabola essenziale e duplice, un mito ancestrale e fondatore, un racconto di innata potenza e fascino silenzioso.
Se il cosa, debitore nei confronti di Cane di paglia di Sam Peckinpah, Un tranquillo weekend di paura di John Boorman o ancora de Il vento fa il suo giro di Giorgio Diritti, non può essere nascosto o dissimulato - e non è un caso che il grande climax, il punto di ebollizione, la raffinatissima e per nulla sguaiata (bellissimo lo zoom lento ed inesorabile sul dettaglio della bocca, a riprova proprio di quel tentativo di filmare l’infilmabile) esplosione di una suspense, di un crescendo e di un contrasto logoranti, dilatati all’inverosimile, latenti, sotterranei, cotti a fuoco lentissimo dall’impeccabile sceneggiatura del (quasi) infallibile duo Sorogoyen-Peña, venga svelato già nella locandina -, è piuttosto il come, il terreno su cui As Bestas coltiva i semi del suo valore e della sua notabilità.
Ridurre all’essenziale, spogliare, asciugare al massimo le componenti del proprio intreccio diventa allora la condizione necessaria per un lavoro quanto più certosino, compatto ed armonioso.
Tutto è scelto con cura ed è posto al momento giusto, nella quantità giusta, e con una qualità di esiti invidiabile, dalla scelta dei punti di vista (borghesi), dal casting formidabile ed azzeccatissimo dei volti protagonisti - tra cui è d’obbligo citare un Denis Ménochet sempre più imponente, la cui prova è qui impreziosita dall’ambiguità di aspetto e sensibilità che lo contraddistingue, Marina Foïs, che è forse l’ingrediente segreto per la riuscita della pellicola, ed un Luis Zahera (attore feticcio del cineasta) mai (più?) così bravo, impegnato in un vero e proprio, oltre che completo tour de force attoriale -, al montaggio preciso e lucidissimo e all’ermetica e minimale colonna sonora dei già citati e rispettivi Del Campo ed Arson.
Anche quando il thriller di corpi e fiati, più maschile, testicolare e “spagnolo”, se così si può dire, lascia il posto (con tanto di salto temporale) ad un altro film, dominato, scritto e guidato da un femminile fino ad allora tenuto in disparte, diciamo più “francese”, di dialoghi e verità urlate, di parole affilate e sguardi sottili, che possono uccidere(?); ad un thriller raffreddato, di attesa, resilienza, coraggio ed ostinazione, dove la tensione dell’inizio diventa quella di un amore e di un’intesa invidiabili; As Bestas non si scompone, non perde il suo ostinato equilibrio, non eccede mai, né perde di vista l’orizzonte del proprio senso e della propria essenza, bensì li arricchisce e gli dona una profondità ulteriore, una completezza più soddisfacente, contribuisce ancor di più ad un’irreprensibile immersione e compenetrazione nel mondo e nelle vicende che Sorogoyen pone di fronte al nostro sguardo.
Che poi, a questo, si sommi anche un ombelicale discorso di tipo metatestuale sull’ontologia, la funzione, il pericolo e il dolore dell’immagine - che, nel far west galiziano alla Peckinpah, si converte nell’unico, ma tutt’altro che certo, incorruttibile, garantito od indistruttibile appiglio, nell’unica legge dell’uomo, la quale, tuttavia, nulla può contro la subordinazione agli spietati cicli della natura -, è solo l’ennesima testimonianza della ricchezza di un film modernissimo, che elimina qualsiasi, anacronistica distinzione tra cinema d’autore e di genere, che non solo sa dove disporre e come muovere la macchina da presa all’interno dello spazio, ma sa anche come estrarne con straordinaria naturalezza concetti archetipici od elementi astratti. Che sa rappresentare, con egual intensità, come sinonimi, se non proprio come palindromi, la crudeltà di violenza e morte e la bellezza e la purezza dell’amore.
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