TITOLO ORIGINALE: La quattordicesima domenica del tempo ordinario
USCITA ITALIA: 4 maggio 2023
REGIA: Pupi Avati
SCENEGGIATURA: Pupi Avati
GENERE: drammatico
DURATA: 98 min
Dopo il deludente Dante, un Pupi Avati sempre più in caduta libera produce l'ennesimo esemplare di un cinema senile, ormai incapace di leggere ed interpretare il presente e che, proprio per questo, preferisce nascondersi nel conforto della nostalgia e dei ricordi. La quattordicesima domenica del tempo ordinario è un film tirato via, goffo, trascurato, slavato, irrespirabile, affettato, con vibrazioni davvero deprimenti, dove pure la solerzia ed efficienza produttiva - che è sempre stata una specificità della visione avatiana - diventa quasi un inconsapevole tentativo di disconoscimento della paternità artistica.
Basterebbe già solo il titolo - che è qualcosa di inconcepibile e masochistico in termini commerciali o anche solo di decenza -, oppure il fatto che, all’interno del film, questo stesso titolo venga pronunciato diversamente per ben due volte; per comprendere il livello di disinteresse e noncuranza che contraddistinguono tanto la produzione, quanto la distribuzione de La quattordicesima domenica del tempo ordinario, il quarantatreesimo lungometraggio di Pupi Avati, un cineasta che non ha certamente bisogno di presentazioni, ma la cui, un tempo fulgida e brillante, carriera è ormai, da qualche anno, in piena caduta libera.
Come avrete dedotto dal tono con cui si è aperta questa recensione, quest’ultima fatica non smentisce, anzi riconferma la senilità di un autore vittima di un’idea di cinema vecchia, polverosa, anacronistica, meramente nostalgica. Quella stessa nostalgia che, tuttavia, era ben impiegata nel più recente Lei mi parla ancora, di cui La quattordicesima domenica del tempo ordinario è una sorta di continuazione spirituale, in fatto di temi, toni ed atmosfere (lì si ragionava sull’immortalità legata al ricordo, qui sulla memorabilità legata alla vecchiaia).
Quello era un film in cui si affrontava un copione, sì, vicino alla sensibilità e anche ad un tipo di senilità garbata, tenue, silenziosa, malinconica, dolcissima, ma che veniva comunque messo in scena con un certo quid interpretativo ed un paio di soluzioni visive ed intuizioni compositive che, al contrario, facevano riecheggiare il maestro che fu Pupi Avati e, per l’appunto, parevano il parto di un regista ancora vitale, artisticamente giovanile. A smentire il tutto, è arrivato poi il film sul giovane Dante, ovvero il desacralizzante e pudico compitino di servizio pubblico, utile ai cineforum scolastici e poco altro.
Ma torniamo a noi e a La quattordicesima domenica del tempo ordinario, un’opera che racconta una storia che l’autore bolognese ha già trattato più e più volte fra quei 43 lavori, ma che qui assume una fattezza prevalentemente nostalgica.
È (di nuovo?) la nostalgia di un’Italia che non c’è più, che si ammira soltanto senza mai davvero mettere in discussione, la materia merceologica, il brand (anche se qualcuno avrebbe da ridire) che Avati vende e che un certo pubblico, più o meno coetaneo suo, comprerà e magari apprezzerà. D'altronde, che sia questa l’unica sostanza che La quattordicesima domenica del tempo ordinario ha da offrire ai propri spettatori, lo si capisce benissimo fin dai titoli di testa, nei quali si succedono (un po’ come avveniva già nel più riuscito Il papà di Giovanna) fotografie di una Bologna post-bellica che, ad un occhio più giovane, oggi può apparire quasi antidiluviana.
Ed è, in fondo, niente più che uno sfogliare un impolverato album dei ricordi (molto di quello che viene mostrato deriva invero da lampi e ricordi di giovinezza del cineasta) ciò che anima la sceneggiatura scritta dallo stesso Pupi Avati.
Quello che solitamente non sarebbe un problema, lo diventa però nel momento in cui suddetta nostalgia viene plasmata, pensata e messa in scena con svogliatezza, freddezza, apatia, quella solerzia ed efficienza produttiva che è sempre stata una specificità della visione avatiana (a partire dal montaggio), ma che qui sembra rispondere piuttosto ad un inconsapevole tentativo di disconoscimento della paternità dell’opera.
Perché non solo la storia immaginata ne La quattordicesima domenica del tempo ordinario è stantia, ripetitiva, proverbiale, troppo scarna pure i precisi novanta minuti di racconto, insieme frettolosa e diluita a dismisura, focalizzata infantilmente sui piccoli problemi piccolo-borghesi, disinteressata ad un’effettiva resa elegiaca della fiorente e vivace Bologna del boom economico e dell’atmosfera che si poteva respirare al tempo, ma è portata su schermo più che in modo sciatto, goffo, trascurato, slavato, irrespirabile, affettato, con vibrazioni davvero deprimenti.
Deprimente, infatti, è vedere un maestro come Pupi Avati non riuscire a fare i conti con la digitalizzazione e i nuovi mezzi visivi del cinema (i green screen sono quanto di peggiore si sia potuto vedere nel cinema italiano del nuovo secolo). Accontentarsi di un montaggio così sgraziato, di una fotografia televisiva, artificiosa, dai risvolti spesso imbarazzanti e miseri, o di una colonna sonora che è un quasi plagio di uno dei più famosi temi di La La Land. Avallare un doppiaggio (in riparazione di una presa diretta non efficace o rovinata) così dilettantesco ed interpretazioni secondarie tanto ridicole. Buttare all’aria le effettive premesse di quello che sarebbe potuto essere un originalissimo film italiano sul fenomeno tutto italiano dei “complessi”, quei collettivi di musicisti che producevano un singolo di grande successo per poi scomparire nel nulla o campare di rendita nelle sagre di paese o nelle sale da ballo.
Invece no, si preferisce raccontare la solita storia del triangolo amoroso, della ragazza “contesa” tra due amici, con un’idea della donna angelo e madre, figlia di quell’epoca là (o forse addirittura di una tradizione dantesca), le solite promesse, litigate, tradimenti, gelosie, sogni, i rimpianti e i fantasmi, che, laddove in Lei mi parla ancora venivano adoperati con risultati anche inquietanti e pseudo-orrorifici, qui servono solo a rendere il tutto ancor più pietistico e patetico.
Certo, chi desidera può rintracciare una vena autoriale che avrebbe pure qualcosa di nuovo da aggiungere, da dire, da mostrare. È fortissima, per esempio, l’angoscia esistenziale e semantica che trasmette la sequenza della trasmissione televisiva in uno dei momenti finali, se solo Pupi Avati non abbia passato un'ora e passa a fare esattamente la stessa cosa, ossia mercificare la nostalgia.
Ciò nondimeno, anche la scelta degli interpreti (che, dove non di fiction, sono ritorni - come quello di Edwige Fenech - ingiustificati nel contesto di una simile operazione), la dicono lunga sullo stato di salute di un cinema, quello di Pupi Avati, che non riesce più a leggere ed interpretare il presente, figuriamoci il futuro, e che si aggrappa debolmente, senza una ragione precisa, quasi controvoglia, al (proprio e glorioso) passato. Di un cinema che tira a campare e continua a produrre film più per indolenza ed opportunità, che per una vera esigenza, un’esigenza qualunque.
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