TITOLO ORIGINALE: Les Trois Mousquetaires: D'Artagnan
USCITA ITALIA: 6 aprile 2023
REGIA: Martin Bourboulon
SCENEGGIATURA: Matthieu Delaporte, Alexandre de La Patellière
GENERE: azione, avventura, storico
DURATA: 121 min
Dopo circa una ventina di adattamenti sparsi tra il 1901 e il 2020, l'efficiente filmmaker Martin Bourboulon dirige un nuovo film, il primo di un dittico, tratto dal capolavoro d'avventura di Alexandre Dumas. Forte di un budget considerevole e di un ottimo cast, I tre moschettieri - D'Artagnan impronta la sua idea di traduzione sull’intrigo di palazzo e sul contesto, piuttosto che sui personaggi. Abbasso allora il senso di fratellanza, amicizia e quell’approccio scanzonato ed ironico alla Storia e alle storie, a favore di una composizione e ricostruzione sontuosa, elegante, esibita, barocca, dettagliatissima. Ciò nondimeno, la pellicola non riesce a trovare una sua personalità e la giusta verve per essere qualcosa di più e al di là di un kolossal vecchia scuola che fa il suo. E poco altro.
Dopo circa una ventina di adattamenti sparsi tra il 1909 e un 2020 tutto italiano (col film di Veronesi, ouch!), il cinema di tutto aveva e ha bisogno, tranne che di un nuovo film tratto dal capolavoro d’avventura datato 1844 di Alexandre Dumas (padre). Eppure, eccoci qua: efficiente film-maker, ancor prima che regista, dall’approccio molto largo e spettacolare - pure quando fa commedia - al mezzo cinematografico (vedasi il precedente, seppur fallimentare, Eiffel), il francese Martin Bourboulon si mette alla guida di una nuova traduzione per il grande schermo del romanzo, concepita come un dittico, di cui recensiamo qui la prima parte (intitolata I tre moschettieri - D’Artagnan), mentre, la seconda, nonché ultima, la vedremo quasi certamente a fine anno.
Supportato e favorito da una grande coproduzione (Francia, Germania, Spagna) e da un impianto filmico da 36 milioni di euro (cifra media per una produzione hollywoodiana, esorbitante invece per un progetto europeo), questo nuovo tentativo di rivitalizzazione delle peripezie storiche e storicizzate di Athos, Porthos, Aramis e del giovane D’Artagnan assembla e mette insieme, al di là del regista, due ottimi sceneggiatori (di commedia!), quali Matthieu Delaporte e Alexandre de La Patellière (autori, tra le altre cose, di quel fenomeno culturale e commerciale che fu, perlomeno a livello nazionale, Cena tra amici), con uno sbalorditivo cast internazionale. Cast, che, almeno sulla carta, è forse il migliore e più indovinato, in fatto di adattamenti dumasiani, dai tempi dell’originale ed iconico film (anch’esso bipartito) di Richard Lester.
Tutti sono invero fisionomicamente e fisicamente perfetti per il ruolo e il personaggio che sono chiamati ad interpretare. A partire dallo sfrontato, coraggioso, intraprendente, ma anche tenero guascone, aspirante moschettiere, portato su schermo da uno degli ultimi “parti” attoriali del cinema d’oltralpe, ovvero il pulito (solo di volto) ed infantile François Civil, calzato per la parte anche e soprattutto per queste sue due caratteristiche.
Mentre a dar vita ai tre, leggendari compagni di ventura e, il più delle volte, di (s)fortunate coincidenze, Athos, Porthos ed Aramis, sono rispettivamente un Vincent Cassel forse un po’ troppo trasandato e ottuso per arrivare come dovrebbe e vorrebbe, eppure capace sempre e comunque di far leva sulla sua indubbia fotogenia e di concentrare e calamitare su di sé lo sguardo dello spettatore; un Pio Marmaï un po’ Depardieu, sacrificato e fin troppo di contorno, tuttavia reso interessante ed affascinante da un curioso ed inedito tratto bi-, se non pan-sessuale; ed un Romain Duris dall’espressività graffiante, mordace, affilatissima, così come affilato è il crocefisso che intaglia in una delle migliori sequenze della pellicola.
La vera fortuna e il meglio de I tre moschettieri - D’Artagnan coincidono però, in primis, con la scelta di Eva Green, ormai ambasciatrice e maschera eccellente del binomio cattiveria-sensualità, irriducibile, icastica, proteiforme e versatile dark lady, sospesa tra una fiaba gotica ed un noir metropolitano, che può però far rima anche con intrigo di palazzo (a lei e al suo segreto non tanto misterioso sarà dedicata la seconda parte).
Ma anche e soprattutto con l’affidamento di due ruoli di fatto secondari a due volti, al contrario, di prim’ordine, che si convertono, in tal senso, nel collante essenziale, nell’architrave della monumentale visione di Bourboulon & co. Stiamo parlando, come forse avrete già capito, di Louis Garrel e Vicky Krieps. La levatura, l’eleganza, il portamento, il carattere del primo riescono a raccontare, senza bisogno di tanti discorsi e parole, lo stato d’animo e l’indole del re Luigi XIII, pedina incerta, debole, suscettibile, al limite del nevrotico, di una macchinazione più grande di lui. Reduce dall’interpretazione di un’altra, grande sovrana ne Il corsetto dell'imperatrice, la seconda riesce, dal canto suo, ad emancipare e portare - complice anche il copione di Delaporte e La Patellière - il suo personaggio, anch’esso al limite dell’ingranaggio utile e funzionale, verso qualcosa di più e di più elevato. A tal proposito, è davvero una sfortuna che agli scambi dei due siano accordate così poche sequenze. Così come sono forse pochi quelli tra Civil ed un’ottima e meravigliosa Lyna Khoudri nel ruolo di un’altrettanto emancipata Constance.
Convince davvero pochissimo, infine, nonostante sempre la giustezza di casting, il cardinale Richelieu di Eric Ruf della Comédie-Française, il cui poco carisma e la cui poca convinzione penalizzano di non poco la tensione e il senso di minaccia dell’intero racconto.
Ciò detto, al di là di qualche appunto su un’attenzione maggiore, da parte della sceneggiatura, nei confronti di un discorso inclusivo prettamente nordamericano e finora non riconosciuto, trasportato ed assecondato dal cinema francese (forse per trovare riscontro nel pubblico americano?) - dalle presenze femminili del romanzo di Dumas, che diventano e sono loro le garanti dei ritmi e le esecutrici delle svolte dell’intreccio, ad un fugace occhiolino, come già anticipato, ai gusti sessuali di uno dei moschettieri -, e malgrado il fascino indiscusso di questo balletto di grandi nomi; se c’è una cosa che I tre moschettieri - D’Artagnan non valorizza a dovere sono proprio i personaggi.
Essi sono infatti i primi ad essere penalizzati (laddove teoricamente avrebbero dovuto essere solo che sostenuti ed avvalorati) dalla magniloquenza e dalle laute disponibilità produttive, le quali finiscono, al contrario, per spingere il film verso una resa il più soddisfacente possibile del contesto, del mondo e dell’atmosfera, che non rispetto ad un’adeguata costruzione tensiva ed emotiva delle vicende e dei personaggi coinvolti. Abbasso allora il senso di fratellanza, amicizia e quell’approccio scanzonato ed ironico alla Storia e alle storie, a favore di una composizione e ricostruzione sontuosa, elegante, esibita, barocca, dettagliatissima, nonché seriosa e filologica - a partire dalla fotografia terrigna, oscurata, a lume di candela di Nicolas Bolduc, fino ad arrivare agli oggetti di scena, ai costumi, alla scenografia, dunque all’allestimento dei set e dei palazzi storici.
Ciò che ne consegue è perciò una predilezione per l’intrigo di palazzo, la cospirazione geopolitica, il gioco di depistaggi, insabbiamenti ed incastri, così come per la detection storica del polanskiano L’ufficiale e la spia. Un tipo di film in cui, specie in qualche stralcio e passaggio di dialogo, affiora e si testimonia la presenza di due penne potenzialmente formidabili.
D'altro canto, l’azione più diretta e spudorata è, sì, presente e visibile, ma è forse l’altro grande elemento disfunzionale dell'opera; quello che ne mette in mostra tutti i limiti, l’inadeguatezza nei confronti dello standard hollywoodiano, oltre che la contingenza e natura produttiva tutta europea.
Non c’è nulla da fare: per quanto acrobatica, dinamica, virtuosistica (come vorrebbero dimostrare i qui numerosi long take), il cinema europeo deve o, meglio, dovrebbe rimodulare la filosofia d’uso della macchina a mano, la cura del montaggio e del sonoro, così come la scelta dei punti macchina all’interno dello spazio scenico e dell’orchestrazione action. Sono questi i punti scoperti che ancora ci rendono esposti ai fendenti della proposta d’oltreoceano e asiatica.
Nota (di rimprovero) a latere pure per la colonna sonora di Guillaume Roussel, il quale persegue l’idea musicale, sonora ed estetica dell’epicità, scopiazzando e prendendo pericolosamente in prestito dai temi e lavori più celebri di Hans Zimmer, in particolare da Il cavaliere oscuro e Pirati dei Caraibi.
Sono allora proprio questa anemia - sia emotiva, sia tensiva -, questa mancanza generale e generalizzata di personalità e di un piglio che si intravede sotto la cappa e il cappello, questa insicurezza nel trovare una via nuova, una via propria, una via europea al blockbuster, e non semplicemente cambiare di qualche addendo una formula che è indubbiamente e comodamente estera, ciò che impedisce a I tre moschettieri - D’Artagnan di essere qualcos’altro al di là di un kolossal vecchia scuola, come quelli che si facevano a fine anni ‘90, inizio 2000. Un film che, anche per via della frettolosità nella costruzione narrativa delle vicende e della divisione in due parti, fa venir quasi spontaneo chiedersi se non avesse potuto aderire meglio, con maggior respiro e potenzialità, al piccolo schermo, alla forma di una miniserie di sei od otto episodi.
Insomma, una pellicola che fa certamente il suo, pur tuttavia pare più impegnata a giustificare il budget considerevole, che non a ricordarci per quale motivo un romanzo scritto quasi duecento anni fa è tornato ancora una volta e forse rifarà per sempre capolino sui nostri schermi.
Sei d’accordo con la nostra recensione? Se sì, lascia un like e condividi l’articolo con chi vuoi.
In più, per non perdere nessun’altra pubblicazione, assicurati di seguirci sulle nostre pagine social e di iscriverti alla nostra newsletter.